Signori, il tempo della vita è breve.
Ma quand’anche la vita,
cavalcando la sfera del quadrante,
giungesse al suo traguardo dopo un’ora,
anche quel breve corso
sarebbe esageratamente lungo,
se trascorso in un’esistenza vile.
Se vivremo, vivremo per calcare
i nostri piedi sui corpi di re;
se morremo, morire sarà bello
trascinando alla morte anche dei principi.
Assicurate le vostre coscienze:
l’armi son belle e giuste
se giusto è il fine per cui son brandite.
Avola, i braccianti uccisi tra mandorli e agrumi
2 dicembre 1968: lo sciopero contro le gabbie salariali nel siracusano trasformato dalla polizia in una caccia a uomini disarmati
«Che cosa è successo? C’è stato un gran dispiacere perché non erano morte delle bestie, ma erano stati uccisi dei compagni.»
(Dalla testimonianza resa da un anziano operaio agricolo il 3 dicembre 1968 all’inviato di “Lotte agrarie”, periodico della Federbraccianti-Cgil.)
* * *
Avola 1968
E’ l’Italia del ‘68, scossa dalle manifestazioni degli studenti, alla vigilia di un’imponente stagione di lotte operaie. Ma è anche l’Italia dove la destra cerca e innesca provocazioni proprio per bloccare un sempre più esteso e incontrollabile movimento di masse giovanili e operaie. E’ l’Italia del dimissionario governo balneare di Giovanni Leone (in cui Franco Restivo è ministro dell’Interno).
Si prepara il primo governo di centrosinistra di Rumor e Nenni mentre il socialista Sandro Pertini è stato appena eletto presidente della Camera. E, nell’appendice di questa Italia, i trentaduemila braccianti della provincia di Siracusa sono impegnati da molte settimane (ma chi lo sa? chi ne scrive?) in una durissima vertenza con un’agraria tra le più ricche, le più potenti ma anche le più intransigenti del Mezzogiorno. Non è una vertenza qualsiasi. Intanto per la duplice posta, di evidente valenza: la parificazione delle zone salariali dell’agrumeto e dell’ortofrutta (una sottospecie delle famigerate “gabbie”), e la fine del mercato delle braccia che ha i suoi sfacciati, liberi centri di contrattazione nelle piazze di tutta la provincia e persino nel cuore della città d’Aretusa, in piazza Stesicoro. E poi perché si sa che una vittoria (o una sconfitta) nelle campagne di Siracusa non solo sarebbe decisiva per quella lotta di quei braccianti, ma farebbe da traino (o da freno) alle analoghe vertenze aperte nelle altre zone dell’Isola: dall’altrettanto ricca piana catanese alle più povere province dell’interno, dove vegetano altri agrari, parassiti.
Per la vertenza di Siracusa si è ormai alle strette. Dopo tre settimane di sciopero, i risparmi degli operai agricoli sono agli sgoccioli. Aranci e limoni marciscono sugli alberi.
Le serre sono da troppo tempo prive del riscaldamento necessario per far maturare i primaticci. Alle porte di Avola, lungo lo stradone che da Cassibile (proprio in un agrumeto di quel paese fu firmato il 3 settembre del ’43 l’armistizio che sanciva la resa incondizionata dell’Italia alle potenze alleate) porta a Ragusa, c’è un bivio per Marina di Avola.
Avola 1968
Lì, il pomeriggio di venerdì 29 novembre, un centinaio di braccianti sta seduto in terra, blocca la strada. Il sindaco socialista di Avola Giuseppe Denaro, il deputato comunista Nino Piscitello, il pretore Cassata, il segretario della Federbraccianti siracusana Orazio Agosta convincono gli scioperanti a sospendere il blocco. Andranno loro, anzi torneranno loro, per l’ennesima volta, dal prefetto D’Urso perché si decida a convocare nuove, immediate trattative. Seppur poco convinti, i braccianti vanno a casa.
Ma il prefetto, ottenuto lo sgombero, rinvia la convocazione delle parti all’indomani: «Sono stanco», fa dire e se ne va a casa. E l’indomani gli agrari non si presentano. Il prefetto ne giustificherà l’assenza prendendo per buono, e facendo proprio, un pretesto impudente: «Che volete farci? Questi blocchi stradali a intermittenza impediscono ai proprietari - chi viene da una parte e chi dall’altra - di riunirsi e di preparare le controproposte». E allora nuovo rinvio dell’incontro, prima a martedì poi, dal momento che la tensione cresce di ora in ora, l’anticipo alla sera di domenica, quando però in rappresentanza dei padroni si presenta solo un funzionario privo di qualsiasi potere di trattare e men che mai di firmare un eventuale, comunque improbabile accordo. Piscitello tempesta di telefonate la presidenza della Regione a Palermo, e soprattutto i ministri del Lavoro e degli Interni a Roma dove figuriamoci se, a crisi aperta, c’è qualcuno che ha tempo da perdere dietro alla vertenza dei braccianti di una lontana provincia.
«Costi quel che costi»
Così lunedì 2 dicembre è inevitabile che nel siracusano sia proclamato lo sciopero generale, in appoggio ai braccianti. Tutto chiuso in città, tutto fermo in provincia.
Già all’alba, al solito bivio di Avola, c’è di nuovo raduno di braccianti, ben più grosso stavolta: sono almeno in cinquemila. Molti stanno seduti in strada, altri mangiano pane e formaggio nelle campagne intorno o sui muri a secco che dividono agrumeti e mandorleti. Racconterà il sindaco Denaro: «Il prefetto D’Urso mi aveva telefonato alle otto del mattino.
Avola 1968
Un vero e proprio avvertimento: il blocco di Avola deve sparire, i braccianti devono andarsene, costi quel che costi». E’ minaccia aperta, frutto non solo dell’arroganza di un funzionario (che pure rappresenta il potere centrale) ma certo anche di pressioni degli agrari su quello stesso governo sordo da settimane ai richiami sempre più allarmati di sindacati e partiti di sinistra. I braccianti non se ne vanno? E allora che siano fatti sloggiare, «costi quel che costi» come ha intimato il prefetto.
Detto e fatto: alla due del pomeriggio sei furgoni e alcune camionette della Celere scaricano al bivio di Avola novanta agenti, un’avanguardia di quel famigerato battaglione speciale di stanza a Catania che costituisce la forza d’urto sempre all’erta per le imprese peggiori (come quella del luglio ‘60, proprio nella città dell’Etna, dopo i morti di Reggio Emilia, Palermo, Licata). Il vicequestore Camperisi è pronto a dare l’ordine di sgombero. Il sindaco telefona al prefetto gridando: «Che la polizia non faccia sciocchezze! Qui stanno arrivando anche donne e bambini!». Per tutta risposta D’Urso intima a Denaro di indossare la fascia tricolore: «Lei pensi piuttosto a collaborare con la polizia! ».
Gli agenti sono già con gli elmetti, pronti a inastare i lacrimogeni sulle canne dei moschetti. Deciso a forzare il blocco con la violenza, e prevedendo la legittima reazione dei braccianti, il vicequestore Camperisi dispone persino che sia creata una trincea per l’imminente battaglia: un commando di poliziotti pone di traverso sullo stradone una betoniera. Il blocco, quello vero, ormai l’ha fatto la Celere. Ed è il via alla provocazione. I tradizionali squilli di tromba non valgono come usuale avvertimento: sono il segnale di dare il via all’aggressione senza perdere altro tempo.
Da dietro la betoniera partono a grappoli le bombe lacrimogene: dieci, venti, cinquanta.
I braccianti, colti di sorpresa, fuggono per le campagne a ripararsi dai fumi.
Ma presto si accorgono che non c’è bisogno di mettersi al riparo: il vento rispedisce al mittente i gas mettendo nei guai gli agenti, e rendendo furibondi ufficiali e vicequestore. Un lacrimogeno però esplode tra alcuni braccianti, colpendone uno.
Esasperati, i suoi compagni si difendono come possono, scardinano i muretti e ne scagliano le pietre sulla strada per impedire almeno i forsennati caroselli che le camionette hanno cominciato a fare per creare panico. Allora via radio il vicequestore Camperisi chiede immediati rinforzi. Tempo mezz’ora, da dietro un curvone alle spalle dei braccianti sbuca un altro centinaio di poliziotti, tutti armati sino ai denti come quelli che già fronteggiano gli scioperanti.
«Li stiamo ammazzando»
Ormai è guerra. Gli operai sono presi letteralmente tra due fuochi. Vomitano piombo di fronte a loro e alle loro spalle i mitra Beretta, i moschetti, e le pistole di almeno due calibri diversi, il 9 e il 7,65. Colpi a raffica, centinaia di proiettili: l’indomani Nino Piscitello scaricherà alla Camera due chili e mezzo di bossoli. Sono colpi precisi, diretti con cura ad alzo zero da quando un ufficiale - per dare l’esempio ad agenti esitanti - ha strappato di mano il moschetto ad un graduato ed ha sparato dritto contro un gruppo che tentava di ripararsi dietro un muretto.
Paolo Caldarella alza una mano in segno di tregua: un colpo gliela trapasserà. Poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni).
Un’altra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano da Orazio Agosta.
Quando non sono i moschetti e i mitra a farlo, sono le pistolettate che feriscono gravemente Giuseppe Buscemi, Paolo Caldarella, Rosario Migneco, Orazio Di Natale.
E’ un crescendo di violenza selvaggia, talmente insensata che a notte, all’ospedale di Siracusa, un agente colpito alla testa da una pietra continuerà per ore a gridare nel delirio: «Comandante! Comandante! E’ un’infamia... E’ il tiro al bersaglio... Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!».
E infatti due braccianti moriranno tra atroci sofferenze.
Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima all’ospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato anche Giuseppe Scibilia, 47 anni da Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto. Non si saprà mai se ad ucciderlo sia stato quell’ufficiale visto da tutti (ma da nessuno identificato) mentre gridava ai suoi uomini che gli passassero i caricatori per il suo personale, allucinante western. Forse è lui il “comandante” citato nel delirio dall’agente ferito.
O forse no, perché in effetti, come racconterà più tardi Orazio Agosta, «tutti, ma proprio tutti, sparavano.
Ho visto poliziotti sparare anche contro i serbatoi delle motociclette dei braccianti perché prendessero fuoco e provocassero ancor più casino ». Venticinque minuti dureranno sparatorie e incendi e caroselli: da un lato duecento armi, dall’altro mille pietre. Da un lato, tra i braccianti, due morti e una diecina di feriti gravi; dall’altro, tra i poliziotti, quattro contusi ed un ferito, quello che nel delirio avrebbe confermato tutto l’orrore dell’impresa.
Fulminea, la notizia della tragedia scuote l’Italia intera.
Avola 1968
Immediata la proclamazione per l’indomani di uno sciopero generale dei braccianti in tutto il Paese e di tutti i lavoratori in Sicilia. Non c’è bisogno di direttive: già nella stessa serata dell’eccidio ci sono state le prime manifestazioni di protesta.
Grande è l’imbarazzo nel governo dimissionario e soprattutto tra quanti lavorano - tra difficoltà di opposta natura - alla costituzione del governo di centrosinistra. E ancor più grande è l’irritazione, tra i socialisti, quando in un primo momento la presidenza del Consiglio prova a far ricadere sui braccianti la responsabilità dell’eccidio: ovvio, sassaiola dei lavoratori in sciopero e legittima reazione di «alcuni agenti» che «trovatisi isolati, di loro iniziativa hanno fatto uso delle armi». E’ la tesi fatta accreditare ufficialmente nel telegiornale della sera, e che non spiega la gravità degli eventi.
Sono davvero soltanto di “alcuni agenti” i chili di bossoli raccolti sul luogo della battaglia? E poi: il fuoco non è stato aperto su lavoratori che stavano avendo la meglio sulla polizia ma su centinaia di persone disarmate e in fuga disperata per i campi. Insomma, se pure non c’è stato un ordine specifico (ma non è inteso così quello sconsiderato «sgomberare, costi quel che costi» intimato dal prefetto?), evidente era la volontà - denunciano i sindacati - di dare una lezione ai braccianti, di far loro pagare una lunga vertenza.
La “grana” di Avola
L’irritazione in casa socialista ha anche un altro motivo: Aldo Moro ha già fatto sapere che la Dc non intende rinunciare agli Interni (che resteranno in sua mano, ininterrottamente, sin dopo Tangentopoli) e meno che mai è disposta a dimissionare Franco Restivo in seguito alla “grana di Avola”, come l’ha subito definita il giornale più autorevole di un’inquieta borghesia e di un padronato reso ancor più inquieto dalle avvisaglie dell’accordo Dc-Psi. Comunque, o proprio per questo, dura poco, molto poco, il tentativo così grossolano e tanto insostenibile di cambiare le carte in tavola. Giocano molti fattori ad imporre un intervento più realistico del Viminale e del ministro Restivo in persona: la proclamazione dello sciopero generale, la preoccupazione evidente di non aggravare la tensione già altissima, un avvertimento di Sandro Pertini (discreto ma energico, com’è suo costume, ed autorevolissimo ché presiede la Camera) che anche i socialisti non intenderanno mettere il bollo su pretestuose giustificazioni, la durissima reazione dell’opposizione di sinistra che reclama la convocazione straordinaria del Parlamento.
E allora, qualche minuto dopo le dieci di sera di quello stesso 2 dicembre, uno scarno ma inequivoco comunicato del Viminale smentisce la prima, più avventata versione: salta il questore di Siracusa Politi, rimosso dal ministro Restivo e collocato a disposizione proprio «in relazione ai luttuosi fatti di Avola». Bene, ma perché solo lui e non anche il vicequestore Camperisi che ha guidato la repressione? E perché solo il questore e non anche il prefetto D’Urso che è stato l’alleato costante degli agrari e che, con quella sua telefonata al sindaco di Avola, ha anticipato la determinazione di soffocare ad ogni costo la lotta dei braccianti? All’annuncio della rimozione del questore, Leone e Restivo fanno poi seguire una nota ufficiosa non solo per esprimere «il più profondo dolore per l’accaduto» ma anche per manifestare «il fermo intendimento di fare piena luce sugli avvenimenti ». La luce non sarà mai fatta, e gli interrogativi resteranno senza risposta.
Ma l’eccidio non resterà senza conseguenze. L’indignazione è così generale, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, l’allarme nel padronato così evidente che da Roma parte l’ordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibilia e Sigona, a Siracusa si riprendono - in pratica si aprono - le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con l’intervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine l’accordo segnerà l’abolizione delle differenze salariali tra le due zone, l’aumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia (anche se tanto tempo dopo si ricomincerà, e stavolta saranno gli extracomunitari a patirne le conseguenze). Ma c’è anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine all’intervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal ‘47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona.
* * *
Quando, tanti anni dopo, Bruno Ugolini ricorderà per il suo giornale quella tragica giornata, scriverà: «Oggi, spulciando su Internet, in un sito dedicato alla storia di Avola, leggo: “Cittadina di 32mila abitanti, situata nel golfo di Noto,in territorio pittoresco e dirupato”. Non trovo cenno di quei suoi figli, Sigona e Scibilia. Eppure è merito loro se quel nome, Avola, suscita ancora tante emozioni».
Foto dell’epoca tratte dal sito della Cgil di Siracusa
Giorgio Frasca Polara
Roma, 2 dicembre 2004
da "Liberazione"
Brianza Popolare
L’annuncio del fratello Raul alla televisione cubana: E’ morto il
comandante in capo della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruiz. Un
articolo di bilancio di Antonio Moscato
È morto a L’Avana Fidel
Castro. Il «lider maximo» aveva 90 anni. Lo ha annunciato il fratello
Raul, parlando alla Tv di Stato di Cuba. «Il 25 novembre alle 10.29 di
sera è morto il Comandante in Capo della Rivoluzione Cubana Fidel Castro
Ruz – ha detto Raul, che dal 2008 era succeduto al fratello, molto
malato, alla guida del Paese -. In base alla volontà espressa del
compagno Fidel, i suoi resti saranno cremati i suoi resti. Nelle prime
ore del mattino di sabato 26 il comitato organizzatore del funerale
fornirà alla nostra gente informazioni dettagliate sull’organizzazione
per l’omaggio che sarà tributato al fondatore della Rivoluzione cubana».
Raul Castro ha concluso l’annuncio con la frase simbolo della
rivoluzione cubana «Hasta la victoria siempre!» («Fino alla vittoria
sempre»). di Antonio Moscato
Fidel
Castro l’uomo che ha retto per oltre sessant’anni sulla scena mondiale
vedendo succedersi undici dei presidenti degli Stati Uniti, che avevano
promesso di cancellare la rivoluzione cubana, ha chiuso la sua lunga e
straordinaria vita, meno di un mese dopo la vittoria di Donald Trump,
che ha sconfitto non solo Hillary Clinton ma anche il suo mentore Barack
Obama, che aveva dovuto ammettere l’inutilità dell’embargo ma non aveva
voluto o saputo eliminarlo.
Fidel Castro è stato venerato
sinceramente dalla maggioranza dei cubani, ma anche considerato da altri
responsabile di tutti i problemi dell’isola, anche di quelli ricevuti
in eredità dalla dominazione spagnola, dal neocolonialismo statunitense,
dall’influenza dell’URSS. In ogni caso è stato indubbiamente un grande
trascinatore. Guevara, anche nel momento in cui stava lasciando Cuba,
aveva ribadito la sua grande ammirazione per lui, rispetto al quale si
era collocato sempre in una posizione di discepolo. Eppure la sua
cultura politica ed economica era molto più rigorosa e sistematica di
quella di Fidel.
Anche nei decenni successivi alla morte di
Guevara su diverse questioni di fondo Castro ha dimostrato comunque
capacità notevoli, che hanno permesso di superare scogli pericolosi. Ha
ad esempio mantenuto una relativa ma sostanziale autonomia dall’URSS
perfino negli anni in cui ai critici ostili e prevenuti sembrava
diventato un vero e proprio fantoccio di Mosca. In realtà per un lungo
periodo Castro è stato sottoposto a una fortissima pressione esterna
(con la frequente minaccia sovietica di una riduzione delle forniture
indispensabili per aggirare il bloqueo) ma anche interna allo stesso
partito cubano, in cui – soprattutto dopo il catastrofico fallimento
della grande zafra del 1970 – fu costretto ad accettare un notevole
ridimensionamento del suo ruolo, che continuava ad essere esaltato
formalmente, ma era condizionato dall’obbligo di una preventiva
approvazione “collegiale” dei suoi discorsi.
Nonostante questi
condizionamenti, Fidel Castro fu capace di staccarsi dall’URSS tre o
quattro anni prima del suo crollo, sia sul piano ideologico con la
campagna directificación de errores, che si contrapponeva polemicamente
alla perestrojka, sia preparandosi ad affrontare quello che fu definito
il “periodo speciale in tempo di pace”, accumulando scorte di
combustibile e studiando varie forme di risparmio energetico per
sopravvivere all’eventualità di quel taglio quasi totale delle forniture
di petrolio e di altri prodotti strategici da parte dell’URSS e dei
paesi del Comecon che effettivamente vi fu, in forma particolarmente
acuta tra il 1989 e il 1994.
Riuscì così a salvare il suo paese,
nonostante l’embargo statunitense si fosse aggravato proprio dopo il
crollo dell’URSS (cosa che dimostrava quanto fosse stato falso il
pretesto addotto dagli USA per giustificare il blocco). Basta pensare
comunque alla sorte penosa della maggior parte dei partiti comunisti
filosovietici, compreso quello italiano, dopo il tracollo dell’URSS, per
capire l’importanza della capacità di resistenza della piccola Cuba.
Il
sostanziale consenso di cui Fidel Castro ha goduto e continua a godere a
Cuba anche dopo aver lasciato per malattia le leve di comando, appare
comunque incomprensibile a chi dimentica che per i cubani egli è stato
prima di tutto un eroe dell’indipendenza nazionale, capace di sfidare
prima gli Stati Uniti, poi l’URSS in diverse occasioni, dalla crisi dei
missili ai due casi Escalante, dalle numerose polemiche sulle dubbie
relazioni sovietiche con dittature latinoamericane, fino al tempestivo
sganciamento finale.
E la sfida agli Stati Uniti non è stata una
questione da poco: contrariamente alla versione di Washington,
l’ostilità statunitense cominciò non solo prima di qualsiasi contatto di
Castro e Guevara con l’URSS ma anche quando nessuna proprietà USA era
stata ancora toccata. Molti celebri giornalisti italiani continuano a
ripetere la leggenda di una rivoluzione pilotata dall’URSS, dimenticando
che perfino i rapporti diplomatici tra Mosca e l’Avana furono
ristabiliti solo nel maggio 1960, un anno e mezzo dopo la vittoria dei
barbudos, e che a maggior ragione non c’era stato fino a quel momento
nessuno scambio economico.
Anche la sfida a Batista non era stata
cosa da poco. Anche se l’assalto alla Caserma Moncada era stato mal
preparato, agli occhi di varie generazioni di cubani quell’impresa era
apparsa un gesto di coraggio non comune, e gli errori dei giovani
rivoluzionari erano passati in secondo piano di fronte al loro coraggio
nello sfidare un dittatore sanguinario, che per giunta consolidò subito
la sua fama facendo uccidere atrocemente quasi tutti gli insorti caduti
nelle sue mani.
La tenacia nel trasformare una sconfitta militare
in successo politico, preannunciando orgogliosamente nuovi tentativi di
abbattere il tiranno, fin dalla famosa autodifesa in Tribunale più volte
ripubblicata col titolo La storia mi assolverà, creò la premessa per
una popolarità nazionale che permise a Fidel di non soccombere a
un’altra impresa ugualmente mal preparata, la spedizione del Granma,
caratterizzata da una notevole improvvisazione, che aveva fatto
rischiare una catastrofe definitiva. La popolarità di quel giovane
avvocato che aveva osato sfidare Batista gli aveva assicurato subito una
rete di protezione da parte dei primi contadini incontrati sulle
pendici della Sierra Maestra. Così poco più di una dozzina di
sopravvissuti avevano continuato senza esitare in un’impresa che
sembrava impossibile contro un esercito di 50.000 soldati, riforniti
costantemente dalla base USA di Guantanamo. È questo il grande merito di
Fidel riconosciuto da Guevara, e ancor oggi da molte generazioni di
cubani: il rifiuto di ogni rassegnazione all’ineluttabilità
dell’esistente, la capacità di lottare controcorrente per creare le
condizioni che ancora non sono mature.
Quello sbarco quasi
catastrofico si era presto rivelato una forzatura necessaria: aveva
suscitato entusiasmo nelle città, disorientamento nelle forze
batistiane, che avevano inizialmente dati per morti Fidel Castro e “il
medico comunista Ernesto Guevara”. I primi sopravvissuti erano riusciti a
superare la prima fase difficilissima perché, se la preparazione
tecnica e militare era del tutto inadeguata, quella politica si basava
su un’analisi corretta delle contraddizioni del paese e su un minimo di
organizzazione precedente della popolazione della zona. Non si chiamava
“partito”, ma il movimento 26 luglio (che aveva preso il nome dalla data
dell’assalto al Moncada) ne svolgeva di fatto le funzioni nella
“pianura” e a Santiago. Per questo i guerriglieri hanno potuto reggere
ad attacchi condotti da forze militari enormemente superiori, dotate di
aerei e mezzi corazzati.
Quando Fidel arriverà all’Avana, una
settimana dopo Guevara e Camilo Cienfuegos, una colomba bianca si poserà
sulla sua spalla: una conferma che gli dei del panteon afrocubano lo
proteggevano. Popolarmente verrà chiamato Caballo: simbolo di forza e
sinonimo di numero 1 nella cabala.
* * *
Fidel Castro era
nato il 13 agosto del 1926 a Birán, nella provincia cubana di Oriente.
Il padre, immigrato dalla Spagna, era diventato abbastanza benestante
(aveva circa diecimila ettari), pur rimanendo a lungo analfabeta e
sempre un po’ “padre padrone”. L’ambiente di formazione iniziale, a
contatto con la natura, era durato molto poco, perché la madre aveva
incoraggiato il suo trasferimento nel capoluogo della provincia,
Santiago, per studiare dapprima privatamente e poi in un collegio
salesiano. Più volte richiamato per indisciplina, aveva poi ottenuto nel
1939 l’iscrizione a un istituto tenuto dai gesuiti a Santiago, per
passare nel 1942 al prestigioso collegio Belén, sempre dei gesuiti,
all’Avana.
I biografi concordano nel segnalare che già in quegli
anni eccelle in diversi sport, e si fa notare anche per i risultati
nello studio. Quando Fidel arriva all’Università, dove si iscrive a
Giurisprudenza, emerge come dirigente studentesco. Ma guarda anche fuori
dell’isola. Nel 1948 si era trovato a Bogotà per un convegno
studentesco internazionale che non si poté tenere perché esplose una
violentissima protesta popolare, con migliaia di morti, in risposta
all’uccisione del leader della sinistra colombiana Jorge Eliecer Gaitán.
Fidel fu descritto su vari giornali colombiani e cubani come il vero
organizzatore del “Bogotazo”, che era stata invece un’insurrezione
assolutamente spontanea, in risposta a un crimine che avviò la lunga
stagione della violencia in Colombia. In ogni caso, quell’episodio gli
diede una notevole popolarità nell’università, e una spinta ulteriore a
un impegno politico.
Fidel Castro tendeva sempre a retrodatare la
sua formazione marxista e il suo orientamento comunista, ma non a caso,
quando aveva deciso di entrare in politica nel 1947, aveva scelto di
iscriversi a una formazione nazionalista vagamente di sinistra, il
partito rivoluzionario “ortodosso”, guidato da Eddy Chibás, in cui si
era fatto rapidamente strada. Nel 1951 Chibás, che era considerato
sicuro vincitore delle elezioni presidenziali dell’anno successivo, si
era suicidato in diretta durante una trasmissione radiofonica, per non
essere riuscito a fornire prove indiscutibili della corruzione di un
ministro, di cui era certo, senza poter però rivelare le sue fonti.
Fidel Castro non era il numero due di Chibás, ma certo potè beneficiare
dei riflessi di una popolarità grandissima del suicida. Comunque le
elezioni non si tennero, per il colpo di Stato di Batista, e Fidel
assunse il ruolo di continuatore di Chibás, che aveva come simbolo
elettorale una scopa, e denunciò il dittatore alla corte suprema,
chiedendo che lo condannasse a un secolo di reclusione. Naturalmente la
corte rispose che non era suo compito, e Castro decise di far cadere
Batista con una insurrezione popolare. Fu allora che Castro cominciò a
pensare a preparla con un gesto clamoroso, come l’assalto al Cuartel
Moncada. Intanto, subito dopo la laurea, aveva cominciato a presentarsi
come una specie di “avvocato dei poveri”.
Nelle sue ricostruzioni
recenti degli anni universitari e dei due anni che intercorrono tra la
laurea e la clamorosa entrata in politica con la sfida al colpo di Stato
di Batista, Fidel ha sempre insistito nel presentarsi già allora come
“marxista-leninista”, e nell’amplificare la portata dei suoi studi
marxisti. Ma in tutti i suoi scritti di quegli anni, anche a non credere
alle sue frequenti proclamazioni di “non comunismo” ribadite durante la
guerriglia e poi per almeno un anno dopo la vittoria, e che potrebbero
essere state “tattiche” come lui sostiene (cioè fatte “per non
spaventare i cubani”…), non ci sono molte tracce di un linguaggio e di
un programma marxista. Ma evidentemente sapeva però ascoltare e
interpretare i sentimenti e le aspirazioni delle masse.
Il
problema maggiore di Fidel era l’economia: il volontarismo che era
servito a tentare l’impossibile sfidando Batista, non funzionava
altrettanto per organizzare Cuba. Bastano alcuni esempi: la cosiddetta
“offensiva rivoluzionaria” del 1968, e soprattutto le ripetute chiusure
dei mercati contadini per ragioni ideologiche. Per anni le vendite
clandestine (non percepite dalla popolazione come un crimine) hanno
consolidato la loro linea sotterranea di distribuzione, e il risultato
peggiore è stato che, vietando tutto, è stato permesso o tollerato
tutto. Le vendite dirette di prodotti da parte dei piccoli contadini
sono state in sostanza messe sullo stesso piano di illegalità delle ben
più gravi sottrazioni di prodotti statali venduti di contrabbando da
lavoratori e soprattutto direttori di negozi e imprese (analoghi a
quelli che hanno caratterizzato l’Unione sovietica e i paesi affini
negli ultimi decenni della loro esistenza).
Forte di un appoggio
popolare indiscusso, Fidel Castro ha concentrato nelle sue mani un
potere immenso, ma dopo la morte del Che e della sua compagna Celia
Sánchez, lo ha gestito in solitudine. Ha “allevato” giovani
collaboratori, ma li ha sostituiti bruscamente appena li ha visti troppo
autonomi: Carlos Aldana, Roberto Robaina, Felipe Pérez Roque, Carlos
Lage Dávila, José Luis Rodríguez García e tanti altri ministri. D’altra
parte aveva la convinzione di doversi occuparepersonalmente di tutto,
dal colore dei taxi dell’Avana alla costruzione di infrastrutture per il
turismo.
La visita del papa Giovanni Paolo II ha rappresentato un
trionfo su chi aspettava il crollo di Cuba, ma a lunga scadenza la
Chiesa ha ottenuto di più, e si è visto quando è arrivato Benedetto XVI,
che ha trovato un terreno più fertile, e si è mosso con arroganza. Il
nuovo presidente, Raúl, è più debole e ha bisogno del sostegno della
gerarchia cattolica: deve pagare quindi un prezzo maggiore, accettando
che essa svolga un ruolo di opposizione di fatto, moderata ma autonoma.
Con Francesco è apparso più chiaro il ruolo aperto di mediazione della
Chiesa, ormai rafforzata, nelle trattative tra il governo cubano e
l’amministrazione degli Stati Uniti.
Papa Benedetto XVI e
Francesco hanno reso comunque omaggio a Fidel, che ormai dopo la
malattia era solo un privato cittadino, anche se circondato da un grande
amore popolare. D’altra parte in ogni occasione di visite di lavoro a
Cuba, non mancavano di visitare Fidel tutti i leader latinoamericani,
non solo i “radicali” Chávez o Morales, ma anche i moderati Lula o
Kirchner.
Negli ultimi anni Fidel Castro, appena rimessosi dalla
fase più acuta del suo male, ha ripreso a scrivere le sue “Riflessioni”,
a volte brevi come un epigramma, a volte lunghe come un saggio, spesso
discutibili. Ma nessuno aveva osato limitare la sua libertà di
comunicare ai cubani il suo pensiero, tanto grande era l’eco del suo
grande prestigio storico, e la differenza tra il suo carisma e quello
dello scialbo successore.
Di fronte alla minaccia rappresentata
dall’elezione di Trump, Raúl Castro ha annunciato grandi manovre
militari. Tuttavia, nonostante il relativo isolamento per i bruschi
cambi di governo in Argentina e Brasile e le difficoltà di quello del
Venezuela, la difesa dell’isola sarà più facile se ritroverà le
caratteristiche originali che avevano permesso il trionfo della
rivoluzione, e l’avevano trasformata per molti anni in un punto di
riferimento non solo nel continente americano, mentre l’imperialismo
statunitense aveva dovuto rinunciare ai tentativi di aperta riconquista.
E sarà più facile farlo richiamandosi al ruolo che nel primo decennio
dopo la vittoria ebbero, insieme, Fidel Castro e Che Guevara. da Movimento Operaio, il blog di Antonio Moscato
Da agosto a ottobre 2016, il team Terragiusta di Medici per i Diritti Umani (MEDU), in collaborazione con Arci Iqbal Masih di Venosa, ha operato in Basilicata, nell’area del Vulture-Alto Bradano, in numerosi insediamenti informali ubicati nei comuni di Venosa, Palazzo San Gervasio e Montemilone. Con una clinica mobile, il team ha prestato prima assistenza medica
e orientamento socio-sanitario a circa 200 migranti provenienti per la
gran parte dall’Africa sub sahariana occidentale. La quasi totalità dei braccianti
visitati (90%) dichiara di essere stato assunto regolarmente, ma allo
stesso tempo molti lavoratori lamentano di aver ricevuto solo la
comunicazione dell’avvenuta assunzione senza aver mai firmato
un contratto di lavoro e per quanto concerne l’intermediazione di
manodopera, il 70% dei braccianti intervistati ha dichiarato di lavorare
per conto di un caporale. Nonostante l’apertura di due centri di accoglienza a Palazzo San Gervasio e a Venosa, MEDU stima che anche quest’anno circa 1000 lavoratori
stranieri abbiano trovato rifugio in case abbandonate, baracche e tende
nei comuni di Venosa, Palazzo San Gervasio e Montemilone, costituitesi
dopo lo sgombero del cosiddetto “ghetto” di Boreano (noi ne avevamo
parlato in particolare qui e qui).
Si tratta di edifici fatiscenti, dislocati in luoghi isolati e privi di
acqua, luce e servizi igienici. Per il terzo anno quindi i centri hanno
funzionato da semplici dormitori, peraltro con
standard insufficienti, invece di assolvere alla funzione per la quale
erano stati concepiti, quella cioè di offrire servizi a tutela dei
lavoratori e di agevolare l’incontro tra questi e i datori di lavoro. La
Basilicata ha rappresentato nel corso degli ultimi
anni, e in particolare a partire dal 2014, un laboratorio di pratiche
volte al superamento dell’illegalità e dello
sfruttamento lavorativo in agricoltura. Molti dei provvedimenti
adottati, seppur virtuosi nell’intento, si sono dimostrati però solo
parzialmente efficaci, rappresentando l’avvio di un percorso e non la soluzione al problema.
Clicca qui per leggere tutto il report di Medici per i diritti umani (Medu)
http://www.cronachediordinariorazzismo.org/pomodorobasilicata-si-chiude-la-stagione-lavoro-grigio-caporalato/
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa a seguito dell’ennesimo sgombero dell’accampamento che tentava di dare accoglienza ai migranti transitanti di Roma. E’ da tempo che seguiamo la vicenda del Baobab (ne abbiamo parlato, in particolare, qui e qui),
e come Lunaria, cosi come tutte le altre realtà firmatarie di questo
comunicato, non possiamo esimerci dall’esprimere la nostra solidarietà
ai migranti transitanti ed ai volontari e alle volontarie del Baobab, e
non possiamo esimerci dal chiedere la fine degli sgomberi e la rapida
predisposizione di una soluzione che possa garantire una accoglienza degna.
UNA QUESTIONE DI UMANITA’: Solidarietà ai migranti transitanti e agli attivisti del Baobab
Mercoledì mattina è andato in scena l’ennesimo sgombero – il sesto in poco più di un mese e mezzo – dell’accampamento informale organizzato dai volontari del Baobab per tentare di dare accoglienza ai migranti transitanti della Capitale. La gravità della violenza
di mercoledì mattina è accresciuta dal fatto che dalle forze
dell’ordine è stato intimato agli attivisti che “se si azzardano a
montare nuove tende, verranno sgomberati ogni giorno”.
Come se non bastasse gli effetti personali dei migranti sono stati, per
l’ennesima volta, gettati nella spazzatura insieme alle donazioni fatte
dalla cittadinanza. Inoltre, a causa della presenza di un gazebo, è
partita una ridicola e vessatoria denuncia per occupazione di suolo pubblico.
Giovedì, invece, piazzale Spadolini è stato recintato, adducendo come giustificazione la necessità di compiere dei lavori di ristrutturazione. Ricordiamo che poco più di una settimana fa è stato murato l’accesso al parcheggio coperto sul lato Est della Tiburtina,
da tempo inutilizzato ed usato dai migranti per ripararsi dal freddo.
In seguito, dopo uno sgombero a Piazzale Spadolini, si era ricreato un
accampamento informale davanti all’Hotel Africa ma, anche questo,
nell’arco di ventiquattro ore è stato smantellato. Inoltre, questa mattina, dei blindati sono tornati a Piazzale Spadolini per impedire la ricostituzione di un presidio di solidarietà, mettendo in fuga i migranti lì presenti.
Si tratta del quarto intervento delle forze dell’ordine in circa dieci giorni. Siamo davanti ad un accanimento che colpisce per violenza e gratuità.
Intanto stanotte centinaia di migranti, venuti da viaggi in cui hanno perso amici e familiari, dormiranno sotto la pioggia, esposti al freddo autunnale, con vestiti inadeguati e avendo come unico presidio sanitario quello organizzato da Medici per i diritti umani.
Proprio poco giorni fa Medu ha evidenziato come “con il freddo in aumento, centinaia di migranti in transito, tra cui molti minori,
dormono in questi giorni all’addiaccio, sui marciapiedi, sull’asfalto,
sotto i cavalcavia, in condizioni di gravissima precarietà con rischi
per la loro sicurezza e per la salute”.
E’ evidente come il problema dei transitanti in questa città non possa essere delegato alla polizia né essere affrontato come una mera questione di ordine pubblico.
Il Campidoglio e la Regione Lazio devono assumersi le responsabilità politiche di questa situazione, garantendo e predisponendo una accoglienza dignitosa.
Nel frattempo troviamo assurdo che si utilizzi un atteggiamento
repressivo verso chi, come gli attivisti del Baobab, da mesi stanno solo
cercando di sopperire alle mancanze della politica.
Non permettere loro di dar vita a degli accampamenti informali
significa condannare centinaia di transitanti a non avere alcun tipo di
assistenza. Una situazione di fatto assurda. Non solo, infatti, le
istituzioni non si fanno carico di questa problematica ma impediscono anche ai volontari di predisporre dei presidi umanitari.
Come organizzazioni sociali operanti nella città non possiamo esimerci dall’esprimere tutta la nostra solidarietà ai migranti transitanti ed ai volontari e alle volontarie del Baobab; non possiamo esimerci dal chiedere la fine degli sgomberi
degli accampamenti informali organizzati dalla cittadinanza e la
predisposizione, nel più breve tempo possibile, di una soluzione che
possa garantire una accoglienza degna.
Arci Roma, Gli Asini rivista, Ass. culturale Laura Lombardo Radice, A
Sud, Casetta Rossa, Cinecittà Bene Comune, Coordinamento Legale
Migranti in transito: A Buon Diritto, Action Diritti, Consiglio Italia
per i Rifugiati, Radicali Roma; Coalizione Italiana Libertà e Diritti
Civili, CSOA La Strada, Da Sud, Fiom Roma e Lazio, Flc Roma e Lazio,
Link Roma, Lunaria, Medu, Rete Miseria Ladra – promossa da Libera e
Gruppo Abele.
http://www.cronachediordinariorazzismo.org/una-questione-di-umanita/
di Fiorella Farinelli
Tutti a scuola, al più presto, con gli stessi diritti e doveri degli italiani. Questi, in sintesi, i principi del nostro ordinamento sull’inclusione scolastica dei figli dell’immigrazione.
Ma qualche volta non è così. A Roma, per esempio, un ragazzino cinese
arrivato lo scorso marzo per “ricongiungimento” sta incappando da
settembre in una sfilza di no. Nessuna delle scuole medie
cui i genitori si sono rivolti, nel suo quartiere come in altri, gli ha
aperto le porte . Solo due hanno risposto alla richiesta in modo
formale, nessuna si è occupata di indirizzarlo altrove, tutte si sono
trincerate dietro classi già piene. Un rifiuto illegittimo. Il fatto che
Liang – chiamiamolo così – non sia stato iscritto nei
tempi regolamentari (entro febbraio 2016, quando non era ancora in
Italia) non ha rilevanza, visto che per norma “l’iscrizione a una
scuola può essere richiesta in qualunque periodo dell’anno scolastico”.
Come quasi tutti i “ricongiunti” che arrivano da adolescenti, anche
Liang di italiano non ne sa quasi niente, ma l’obbligo per la scuola
di accettarne comunque l’iscrizione (consentendo solo, e con apposita
motivazione, l’inserimento in classi inferiori all’età anagrafica) non è
affatto insensata, si sa che non c’è via migliore, per lo studente
straniero che debba familiarizzarsi al più presto con la lingua
del paese ospite, che impararla dai compagni di scuola. Negli scambi
comunicativi che si sviluppano da subito, in palestra, nei laboratori
di tecnologia, nelle ore di musica, espressione
artistica, geografia, e poi via via in tutto il resto. Venticinque anni
di scuole sempre più multilingue hanno spiegato come si fa. E però
questa volta niente da fare. Non solo. Un rifiuto è
arrivato anche da un Centro per l’istruzione degli adulti, una scuola
pubblica specializzata in percorsi formativi per gli stranieri, perché
per iscriversi occorre avere 16 anni, e il ragazzino cinese, alla
soglia ormai dei 15, non può essere ammesso. Di qui l’extrema ratio
di un corso di italiano per 14-15enni in una delle tante scuole romane
del volontariato, in attesa di soluzioni più appropriate. Che però, a
diverse settimane dall’inizio della vicenda, ancora non si
materializzano, sebbene l’amministrazione scolastica sia al corrente di tutto. Bisogna, ancora una volta, ricorrere agli avvocati?
Di casi così non ce ne sono tanti ma neppure pochi, e sono probabilmente destinati a moltiplicarsi: sia per le caratteristiche
dei nuovi flussi migratori che per le crescenti contrarietà dei
genitori italiani a classi “troppo” piene di stranieri. Ma il peggio si
può evitare. In Emilia Romagna, per esempio, le
Questure, che sanno dei “ricongiunti” prima che arrivino, ne informano
per tempo l’amministrazione scolastica in modo da facilitare una
corretta programmazione dell’offerta. Mentre in Lombardia e Friuli si
sono fatti accordi per abbassare a 15 anni l’età di
accesso alle scuole per adulti. E’ un’età difficile, quella dei
14-15enni, per i ricongiunti come per i minori non accompagnati (più
di 23mila da gennaio 2016). Troppo grandi di età o troppo segnati
dall’esperienza per accedere, quando le medie o le superiori li
rifiutino, alle classi della primaria. E spesso troppo giovani, invece,
per poter cogliere l’unica e preziosa opportunità offerta dai Centri
dove si può imparare la lingua, conseguire la licenza
media, accedere a diplomi o qualificazioni professionali. Ma a Roma e
nel Lazio si stenta, finora, a imparare da chi fa meglio, fino al punto
da non turbarsi più che tanto se un ragazzino come Liang, pur tutelato
dalla legge, resta fuori della porta. Una cosa tanto più assurda
considerando che, con l’”accordo di integrazione” (2012) del ministro
Maroni, l’evasione dall’obbligo di istruzione dei figli porta di filato
alla perdita del permesso di soggiorno dei genitori.
Si può obiettare che si tratta di casi estremi, gli studenti stranieri
sono ormai più di 800mila (più del 55% nati qui), e sono numerose le
scuole che si misurano con impegno con plurilinguismo e
multiculturalità. E’ anche nelle microcriticità però che si rivela un
sistema connotato da processi di integrazione ancora troppo
problematici. Qualche studioso la nostra integrazione scolastica l’ha definita non a caso “basata sul ritardo”[1].
Sono i ritardi causati da inserimenti in classi inferiori all’età
anagrafica – la scappatoia delle scuole incapaci di attivare laboratori
linguistici – e sono quelli che poi si accumulano per bocciature
e ripetenze. A 10 anni (scuola primaria, dove i nati in Italia sono
oltre il 70% ) sono quasi 1 su 5 gli stranieri in ritardo di un anno, e
un altro 3% di due anni o più. A 14 anni, in ritardo di un anno sono il
44%, di due anni il 13,5% di tre il 2,5%. A 18 anni, il ritardo schizza
al 60%. Una patologia mortificante, che scoraggia dal proseguimento
degli studi e che è dovuta principalmente a inerzie e deficit
professionali della scuola: perché anche quando l’italiano
della comunicazione quotidiana c’è, a mancare sono spesso gli
strumenti linguistici per lo studio. E a cadere – ad abbandonare prima
del tempo finendo magari nel buco nero dei Neet , i
giovani senza scuola e senza lavoro – sono davvero tanti. Non è sensato
questo spreco umano ed economico, non è per niente lungimirante. Tanto
più che gli studenti stranieri hanno di solito una marcia in più in
termini di motivazione allo studio dato che attribuiscono alla scuola un ruolo decisivo di riscatto sociale, personale e familiare.
Gli studi che ogni anno si fanno sull’integrazione dei figli degli
immigrati, pur rilevando progressi e miglioramenti, continuano a
mettere a fuoco criticità tanto consistenti quanto
resistenti. Gli svantaggi in termini di partecipazione alle scuole per
l’infanzia, l’emorragia di iscritti dopo la scuola media, l’addensarsi
negli indirizzi della scuola superiore considerati di minor pregio e nei
percorsi brevi di formazione professionale, i numeri bassissimi degli
accessi all’università. E poi anche i guasti dovuti
alla non attivazione di solidi e limpidi dispositivi di riconoscimento
delle competenze o dei diplomi conseguiti nei paesi di provenienza.
Mentre restano alti i rischi di estraneità culturale indotti da
curricoli formativi ostinatamente italocentrici, pur nel profluvio delle
indicazioni ministeriali sull’educazione all’intercultura.
Lo specchio, insomma, di un paese che anche quando accoglie non è
capace di integrare. Forse perché non vuole arrendersi all’evidenza del
milione e mezzo di minori stranieri ad oggi residenti in Italia, e al
loro essere parte ormai strutturale dei “nostri” giovani (tanto più con l’andamento demografico che ci ritroviamo).
Ritardi, miopie, contrarietà che si riscontrano anche altrove, a partire dall’iter disperatamente lungo del provvedimento legislativo
che dovrebbe accelerare e agevolare l’accesso alla cittadinanza dei
ragazzi che nati o arrivati qui da bambini. Purché vadano a scuola
regolarmente e purché concludano un ciclo di istruzione, dice il
provvedimento approvato da un ramo del parlamento e fermo lì da mesi. “Ius culturae”, appunto. [1]Stefano Molina. Seconde generazioni e scuola italiana, in People First, Il capitale sociale e umano, S.I.P.I 2014
Padova - Inizia un nuovo anno scolastico per la scuola
Liberalaparola, un progetto che è costituito a partire dalla
condivisione di idee e intenti su ciò che riguarda le pratiche di
accoglienza dei migranti e il loro diritto a partecipare in prima
persona ai processi di costruzione di una società aperta e antirazzista.
Nella scuola tutti e tutte vengono accolti senza discriminazioni e si
mira a creare un clima sereno di condivisione e scambio tra insegnanti e
"allievi", lontano dalle lezioni ex cathedra. Nelle aule infatti
imparano, insegnano e lavorano fianco a fianco migranti provenienti da
tutto il mondo, in viaggio per i più disparati motivi. “Nessuno è illegale”
è uno dei punti cardine della scuola, assieme all’idea che ognuno abbia
diritto di imparare la lingua del paese in cui, per scelta o obbligo,
si trova a vivere.
Partendo da queste solide radici la scuola cambia e muta per
adattarsi alle sempre nuove esigenze di alunni e insegnanti: quest’anno
infatti Liberalaparola, dopo alcuni anni trascorsi nei
locali del Centro sociale Pedro, ha una nuova collocazione presso la
sede di Sherwood e del Progetto Melting Pot Europa in vicolo Pontecorvo 1/a.
La scuola ha ora a disposizione alcune aule dove svolgere le proprie
attività: le lezioni, iniziate martedì 11 Ottobre, si svolgeranno ogni martedì e giovedì dalle 18.30 alle 20.30.
Liberalaparola non si limita solo ad un lavoro che si svolge tra
quattro mura, ma si impegna a concretizzare i valori di apertura e
antirazzismo nei contesti delle varie mobilitazioni che attraversano la
città di Padova.
Liberalaparola è un’esperienza di crescita umana per tutti quelli che vi partecipano!
I numerosi progetti della scuola sono realizzabili solo grazie al
continuo apporto di tutti i vari “compagni di viaggio” che si incontrano
lungo la via.
...che questo nuovo viaggio tra storie, sguardi, voci, lettere, quaderni, gessetti, sapere e libertà abbia inizio!
Un
nuovo fenomeno, alquanto inquietante, si sta verificando per le strade
di Parigi e di altre città francesi: la polizia ha deciso di esprimere
la sua “collera” nei confronti di un governo che, a suo dire, non la
sostiene e di mostrarsi solidali con il poliziotto gravemente ferito l’8
ottobre a Viry-Chatillon da un cocktail molotov. L’episodio, avvenuto
nei pressi di una cité particolarmente “difficile”, così come sono
considerate quelle zone in cui lo Stato si mostra nella sua essenza
strutturalmente razzista e marginalizzante, aveva scatenato durissime
reazioni di condanna e di sorpresa da parte dell’opinione pubblica. A
partire da quel momento la polizia ha indetto un primo presidio di
solidarietà susseguito da vaire manifestazioni a Marsiglia, Nizza,
Tolosa, fino ad arrivare alla terza manifestazione nel giro di pochi
giorni. Questa settimana a Parigi un corteo è partito da place de la
République, punto di partenza simbolicamente importante per la città che
per mesi è stata teatro di un intenso periodo di lotta contro la loi
travail, passando davanti all’ospedale dove si trova ancora ricoverato
l’agente.
«Les
gendarmes avec nous!», rivolgendosi così alle camionette che scortavano
la manifestazione e cantando La Marsellaise, la polizia si è diretta
verso l’Eliseo per mostrare il suo scontento rispetto alle condizioni
lavorative e per lamentare di essere vittima di una haine anti-flic, l’odio anti-sbirro. Un corteo con molti agenti travisati e armati, protetti lungo il percorso dai propri colleghi. La
protesta contro le violenze fatte alle forze dell’ordine è stata
pubblicamente sostenuta dal Front National e da una Marine Le Pen che ha
descritto il loro scontento come “legittimo e sano”. Le basi sindacali
intendono denunciare l’impunità di cui godono gli aggressori della
polizia e criticano il loro stesso sindacato maggioritario, Alliance,
per non essere abbastanza combattivo nel migliorare le condizioni
lavorative. Intanto, il Parti Socialiste dichiara di voler tenere in
considerazione la richiesta di provvedere ai rinforzi necessari alla
lotta al terrorismo e Hollande apre la concertazione con i sindacati che
hanno lanciato una nuova data mercoledì 26 ottobre per una marcia che
si faccia portatrice della collera poliziesca e cittadina. L’avvio di
questo dialogo prelude al nuovo piano di sicurezza pubblica che verrà
introdotto in novembre, provvedimento che aumenterà mezzi e effettivi
per le forze dell’ordine.
Il
panorama che si sta delineando ha un che di paradossale considerando i
danni fisici, psicologici e in termini di libertà di movimento e di
espressione di cui la repressione francese ha dato prova soprattutto
nell’ultimo anno. Dopo gli attentati di novembre e la dichiarazione
dello stato di emergenza il governo socialista non ha smesso di dare
mezzi e libertà di manovra alle forze dell’ordine, tendenza che ha avuto
il suo culmine nel dispositivo messo in atto durante il movimento di
questa primavera-estate francese. Chi ha perso occhi, chi ha rischiato
la vita, chi ha preso le botte, le granate, chi è morto nelle cité o sui
territori della ZAD di Sivens, chi negli angoli di un commissariato è
stato violentata, chi subisce ogni giorno controlli per le strade e
nelle stazioni, sono il risultato di una politica che ha un mandante e
un esecutore ben identificabili. Quello che sta succedendo in questi
giorni dovrebbe dare un’indicazione chiara del terreno che si sta
preparando all’alba delle presidenziali del 2017.
“La rivolta del Rione Sanità” titolava Il
Mattino, uno dei principali quotidiani campani, lo scorso lunedì dopo
l’occupazione dell’ospedale San Gennaro.
Il processo di dismissione di questo ospedale dura ormai da anni. Prima
era stato chiuso il pronto soccorso, successivamente i suoi servizi
erano stati depotenziati, lasciando una delle zone più popolose della
città con un presidio ospedaliero monco, nonostante si trattasse di una
struttura storica su cui i cittadini avevano potuto contare per anni.
Ora, per chi non conoscesse bene la situazione, è bene che si tenga
presente che il Rione di cui parliamo, da solo, conta più di 30mila
abitanti, ma che l’ospedale San Gennaro rappresenta un punto di
riferimento essenziale per tutto il quartiere in cui si trova,
Stella-Sanità, che invece di abitanti ne fa più di 60mila, oltre che per
buona parte della terza municipalità e per pezzi della municipalità
limitrofe, la seconda e la quarta. La chiusura del pronto soccorso
dell’ospedale di cui parliamo ha lasciato agli abitanti di queste zone
come punti di riferimento i soli affollatissimi Pellegrini e Cardarelli,
questo in particolare rappresenta una delle strutture più frequentate
del Sud Italia in cui per riuscire a essere visitati al pronto soccorso
si possono aspettare anche sette o otto ore.
In
questo quadro già drammatico si è inserito il nuovo piano nazionale
sanitario redatto dalla ministra Lorenzin, tradotto dal Governatore
della Campania Vincenzo De Luca con il decreto 33 nello smantellamento
di diverse strutture, tra cui quella dell’ospedale San Gennaro, che
tecnicamente verrebbe semplicemente trasformato. Nei fatti invece
parliamo di una chiusura sostanziale della struttura, che perderebbe la
forma di un ospedale vero per diventare “un polo territoriale
riabilitativo e polispecialistico“, formula roboante che significa nei
fatti ridurre drasticamente le funzioni della struttura, e quindi
chiusura della maggior parte dei reparti ora esistenti, ridurre i
ricoveri, il personale, garantendo l’accesso all’ospedale solo tramite
ticket, e lasciando in luogo del pronto soccorso solo una forma blanda e
insufficiente di primo soccorso.
A
tale decreto si è aggiunto nel settembre scorso il piano territoriale
del decreto 99 che interviene localmente, tra le altre, sulla
programmazione dell'ASL Napoli 1, amministrazione sanitaria di
riferimento dell'ospedale San Gennaro. In tale piano è presente una
caratterizzazione della riconversione complessiva architettata dalla
regione Campania. Essa prevedrebbe l'apertura di un ospedale di comunità
con 20 posti letto, dell'UCCP territoriale (Unità complesse di cure
primarie), di una struttura polifunzionale per la salute e di una
speciale unità dell'accoglienza permanente. Lo smantellamento dei
reparti di Oncologia ed Ematologia, che l'occupazione dei cittadini di
lunedì e il presidio permanente hanno fino ad ora bloccato, risponde
alla logica di riconversione prevista dal decreto in questione. La lotta
dei cittadini e delle cittadine del rione Sanità ha espresso
un'opposizione radicale alle misure proposte. A un piano di criticità
generale si aggiungono le insufficienze individuali delle componenti del
decreto. Se difatti la mobilitazione e le dimissioni dei reparti,
attraverso lo spostamento di medici, infermieri e pazienti in altre
strutture, è attualmente in corso (il presidio ha fino ad ora impedito
il trasferimento di macchinari), la riconversione generale della
struttura si realizzerà, secondo decreto, nell'arco di tre anni.
Previsione che come vedremo si fregia di un ottimismo e di una
sfrontatezza spudorati. Nei fatti, prima che ai reparti smantellati si
sostituiscano le misure previste, ne passerà di acqua sotto i ponti. La
linea strategica adottata dall'amministrazione è quella di allentare la
tensione della mobilitazione attraverso la pubblicizzazione delle misure
del decreto, puntando su un lungo periodo nel quale tante delle
componenti elencate saranno, anch'esse, destinate a scomparire. A
queste, inoltre, il direttore sanitario di ASL Napoli 1 Elia Abbondante
ha aggiunto un servizio di primo soccorso h24, da attivare
immediatamente, (un ambulanza a fronte di 60 mila abitanti) e un
ambulatorio infermieristico h12. Concessione, ancora, ripetiamo,
insufficiente rispetto al servizio che essa andrebbe a compensare e di
valenza fortemente strategica. Passando, infatti, alle criticità delle
componenti risulta chiaro che senza un cronoprogramma dei lavori e una
valutazione preventiva dei costi, il decreto è carta straccia.
Ricordiamo che un ospedale di comunità prevedrebbe l'assunzione dei
medici di base del quartiere, a oggi insostenibile considerata la salute
finanziaria dell'Asl Napoli 1. Per non pensare ai tempi di
realizzazione del poliambulatorio e dell'UCCP. Misure come quest'ultima
sono oltretutto poste come alternative al servizio di pronto soccorso
classico, laddove le stesse funzionerebbero da piano, per un’unità
territoriale di 10mila abitanti. Insomma un’operazione di riconversione
che oltre a non fornire garanzie temporali e finanziare, soffre di una
strutturale insufficienza rispetto al bisogno di cura, statisticamente
certificato, a cui il San Gennaro risponde da decenni.
La
messa in pratica di queste disposizioni ha rappresentato la scintilla
che ha portato gli abitanti del quartiere a scendere per le strade con
lo scopo di impedire lo smantellamento dell’ospedale del loro quartiere.
Gli abitanti del quartiere hanno iniziato con un presidio e un’assemblea
chiamati dalla Rete Sanità, attiva da tempo sul territorio, scegliendo
poi di bloccare il traffico cittadino in diverse occasioni.
Dopo pochi giorni i cittadini hanno scelto di entrare nell’ospedale,
occupandolo, e poi stabilendovi un presidio permanente nell’ospedale San
Gennaro per bloccare, con successo, i camion che avrebbero dovuto
portare via i reparti dell’ospedale e impedire loro l’accesso
all’ospedale.
Evidentemente la
mobilitazione del Rione ha attirato l’attenzione del Governatore De
Luca. Nelle sue dichiarazioni il Presidente della Regione Campania ha
negato la chiusura del San Gennaro, tacendo però delle trasformazioni
che come si diceva sopra uccidono quello che nei fatti smetterebbe di
essere un ospedale, per poi rifiutarsi di incontrare i cittadini del
quartiere, se non attraverso una rappresentanza formale composta da
parroci e istituzioni municipali.
L’assemblea del presidio permanente, di cui lo stesso presidente della
municipalità fa parte, non ha voluto scendere a compromessi rispetto a
una delegazione che non avrebbe rappresentato la ricchezza democratica
che ha animato la mobilitazione di questi giorni e che ha visto scendere
in piazza cittadini del quartiere, attivisti, e reti solidali
provenienti da altre zone della città. Così si è scelto di portare la
lotta a un livello successivo chiamando un corteo che dal Rione Sanità
arrivi in Regione a chiedere che lo smantellamento dei reparti venga
fermato immediatamente insieme al trasferimento di lavoratori e
pazienti, e per pretendere un tavolo tecnico in cui i cittadini possano
partecipare alla decisione sul futuro dell’ospedale.
L’appuntamento è per lunedì 24 ottobre alle ore 9:30 all’ospedale San Gennaro.
Continua il tour di segnalazioni territoriali degli attivisti di Vicenza si solleva. Tagliate le recinzioni alla base San Rocco-Santa Cleta, posta al vertice della collina di Longare e sovrastante la base sotterranea Site Pluto. La base è nota per essere il luogo dove compiono le esercitazioni Eurogenford, corpo di polizia militare dell’Unione Europea.
Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare
Comunista Rivoluzionario Calabrese” (FPCR) viene barbaramente ucciso, il
20 ottobre 1974, a colpi di pistola dai fascisti Michelangelo De Fazio e
Oscar Porchia. Il primo studia Legge a Firenze, ragazzo di buona
famiglia conosciuto sia dai fascisti del posto che da quelli
dell’università toscana. Il secondo, anche lui studente, è un militante
del Movimento Sociale e per un paio d’anni è stato anche il segretario
del Fronte della gioventù di Lamezia. Oltre a Sergio, nell’agguato
squadrista rimangono feriti altri quattro giovani operai che sono con
lui (fra cui il fratello Otello).La mattina del 20 ottobre, di fronte al
Comune di Lamezia, ci fu una manifestazione nell’ambito del Festival
Provinciale dell’Avanti. Nella notte, scritte fasciste ingiuriose sui
muri avevano provocato tensioni; fino ad arrivare alle mani, spinte,
minacce: la questione però era destinata a non finire lì. Fu infatti
alle 15.30 di quella domenica di ottobre che, i fratelli Argada,
accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno
dallo stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni
Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi
solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più
piccolo, quattordici anni appena. E quattordici furono anche i colpi
che riecheggiarono per le strade di Lamezia; quattro mortali
indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e aiutare
l’amico ferito da un colpo alla gamba.Il giorno dei funerali, trentamila
furono le persone che scesero in piazza per salutare Sergio Adelchi
Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e, per le orazioni,
venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora montato
nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
Jovine, uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo
Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato
dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un
operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare
perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono
privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo
dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo
sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”.
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte
soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più
di qualche giornale conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel
caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per
difendersi non funzionò: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di
spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 furono condannati
rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi
di reclusione.
l 4 ottobre, alle 11, a Roma, nella sede della Fnsi
(Federazione nazionale della stampa italiana), in corso Vittorio
Emanuele II, 349 (primo piano), si terrà la presentazione della mostra fotografica “Nome in codice: Caesar, detenuti siriani vittime di tortura”, organizzata da Amnesty International Italia, Focsiv, Unimed, Un ponte per, Fnsi e Articolo 21.
La mostra, già esposta alle Nazioni Unite di New York,
alla commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al
museo dell’Olocausto di Washington e nelle principali città europee, dal
5 all’8 ottobre porterà al museo Maxxi di Roma una selezione delle 55mila immagini prodotte da Caesar.
Caesar è il nome in codice attribuito ad un ex-ufficiale della polizia militare siriana incaricato di fotografare la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar al Assad tra il 2011 e il 2013, e che ha, poi, trafugato l’intero archivio fotografico che documenta tali atrocità praticate sul proprio popolo.
Una macabra documentazione voluta da un regime che non ha la benché minima compassione neanche di fronte la morte.
Durante la conferenza stampa sarà illustrato il significato della mostra:
una documentazione dei crimini contro l’umanità commessi nelle carceri
siriane dal 2011, immagini certificate e dichiarate ammissibili in caso
di processo al regime siriano per i crimini di guerra da un’autorevole commissione internazionale di esperti forensi e giudici.
Inoltre, verrà letto un messaggio di Caesar e saranno messe in evidenza le principali novità politico-giudiziarie internazionali
emerse dall’ultimo rapporto di Amnesty International. Infine, saranno
illustrate le iniziative politico-culturali che avranno luogo in
occasione dell’inaugurazione, il 5 ottobre, alle 18, e della chiusura dell’esposizione, sabato 8 ottobre, sempre alle 18.
Alla presentazione della mostra interverranno: Riccardo Noury, Amnesty International Italia; Barbara Scaramucci, Articolo 21; Attilio Ascani, Focsiv; Raffaele Lorusso, Fnsi; prof. Franco Rizzi, Unimed; Domenico Chirico, Un Ponte Per;
Moaz, Caesar Team. Apertura di Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa
da Beirut: “Cosa significa questa mostra”. Coordina Amedeo Ricucci,
giornalista Rai.
di Perez Gallo e Nino Buenaventura (da Città del Messico)
“Ayotzinapa
non è un fatto isolato, è la viva immagine della repressione di
Stato!”. È all’insegna di queste parole che si è commemorato, oggi 26
settembre, il secondo anniversario dei tragici fatti di Iguala,
quando nella cittadina dello stato messicano del Guerrero, un gruppo di
studenti “normalisti” (magistrali) appartenenti alla scuola rurale di
Ayotzinapa – un’istituzione scolastica ereditata dalla Rivoluzione in
cui gli alunni studiano per diventare maestri nelle comunità contadine e
da cui uscirono figure guerrigliere rivoluzionarie come Lucio Cabañas e
Génaro Vázquez – furono brutalmente attaccati dalla polizia messicana.
Tre di loro, insieme ad altre tre persone che si trovavano sul luogo,
incluso un quattordicenne calciatore di una squadra locale, rimasero sul
terreno, uccisi da proiettili al volto. Al termine di quella notte
altri 43 giovani non furono più ritrovati, e ancora oggi rimangono
nell’immaginario collettivo come l’emblema di un fenomeno brutale e
terribilmente comune nel Messico odierno: quello delle “sparizioni
forzate”. Dal 2006, anno di entrata al potere dell’ex presidente Felipe
Calderón, che iniziò la cosiddetta “narcoguerra”, ad oggi, quando ci
avviciniamo alla fine del mandato del suo successore Enrique Peña Nieto,
si stima che i desaparecidos nel paese ammontino a più di
trentamila, anche se i numeri reali del fenomeno sono probabilmente
molto maggiori, essendo la stragrande maggioranza di essi migranti
centroamericani finiti nel buco nero del lavoro schiavistico per i
cartelli della droga e le cui sparizioni non sono mai state registrate
dalle statistiche governative.
Fenomeni, quelli delle desapariciones forzadas,
che al pari delle centinaia di migliaia di omicidi, femminicidi,
episodi di esproprio di terre di popolazioni indigene, e di
iper-sfruttamento nelle maquiladoras (fabbriche frontaliere a
capitale occidentale e manodopera a bassissimo costo tenuta docile dalla
minaccia del narcotraffico) rappresentano la cifra di un Messico, e
un’America Latina, socialmente dilaniato. Fenomeni per i quali, parlare
di impunità suona quasi eufemistico. Il caso di Ayotzinapa, ancora una
volta, ne è il simbolo drammatico, nonostante questo avvenimento, a
differenza di molti altri, è riuscito nel corso degli ultimi due anni ad
acquisire una rilevanza mediatica senza precedenti. Le roboanti
proteste che paralizzarono il paese per gli ultimi mesi del 2014, e che
nel corso del 2015 portarono la causa di Ayotzinapa in America Latina,
Europa e Stati Uniti grazie a una serie di carovane organizzate dai
famigliari degli studenti scomparsi e appoggiate da organizzazioni
sociali di tutto il mondo, costrinsero infatti in un primo momento il
governo messicano ad accettare la proposta che a condurre le contro
indagini fossero gruppi di esperti internazionali e di periti forensi
argentini.
Questi ultimi, tristemente esperti in tema di desaparecidos
proprio a causa della sanguinosa storia della dittatura argentina, hanno
smascherato una per una le versioni che lo Stato ha cercato di portare
avanti, tese a chiudere il caso sancendo la morte dei normalisti e
addebitandola ora a un cartello della droga locale, i Guerreros Unidos,
ora a male marce nei corpi di polizia locale del Guerrero. Tuttavia, i
ripetuti tentativi di insabbiare le prove e la negazione da parte del
governo alle richieste di svolgere indagini all’interno dell’esercito,
la cui presenza la notte di Iguala è ormai accertata, non hanno fatto
che esasperare ulteriormente la società messicana, mentre gli stessi
periti, divenuti ormai scomodi, sono stati licenziati nel marzo di
quest’anno.
È così che oggi, in occasione della
grande manifestazione che ha attraversato Città del Messico, le
richieste di “apparizione in vita” degli studenti e l’impegno ad andare
avanti nella loro ricerca “fino a incontrarli”, assume un sapore di
totale distacco, avversità e opposizione a uno Stato, a un
sistema politico e giudiziario marcio e corrotto. E non potrebbe essere
altrimenti, è infatti di questa settimana la notizia che Luís Fernando
Sotelo, giovane ricercatore universitario aderente alla Sesta
Dichiarazione della Selva Lacandona, è stato condannato a 33 anni di
carcere per fatti relativi a una manifestazione successiva al massacro
di Iguala.
La macchia di sangue aperta ad
Ayotzinapa ha così continuato ad allargarsi a dismisura nel corso di
questi ultimi due anni. Lo ha fatto attraverso un pacchetto di riforme
di sistema marcatamente neoliberali
che porteranno alla progressiva privatizzazione dell’industria
petrolifera nazionale (PEMEX), da ulteriori attacchi speculativi nei
confronti dei territori e dall’implementazione di una riforma educativa
che presenta numerose affinità con la “buona scuola” renziana e il cui
unico vero scopo è la privatizzazione del sistema scolastico e il
controllo della categoria degli insegnanti. La parte combattiva dei
docenti delle scuole primarie e secondarie pubbliche, organizzata nella
corrente sindacale CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la
Educación), con l’appoggio solidale e militante delle comunità del Sud,
hanno bloccato il Paese per tutta l’estate, occupando alcune autostrade e
le piazze di alcune città e portando avanti uno sciopero ad oltranza
che ha impedito la riapertura di molte scuole. La tenacia e la forza del
movimento ha costretto lo Stato a reazioni violentissime, durante una
delle quali, a Nochixtlán nello stato di Oaxaca, sono state assassinate
dodici persone. Tuttora non vi sono colpevoli per la strage.
È in questo clima che si è aperta, con
la giornata di oggi, la “settimana della memoria”, che si concluderà con
il corteo del ottobre, giorno in cui si ricorda il massacro di piazza
Tlatelolco, quando nel 1968 il governo diede ordine di sparare sulla
folla uccidendo oltre 300 manifestanti. L’enorme corteo che oggi ha
attraversato le vie della capitale, insieme alle iniziative realizzate
in oltre 100 città del Messico e del mondo nell’ambito della Giornata
Mondiale per Ayotzinapa-24 mesi (#Ayotzinapa243),
ha dunque riportato in piazza la rabbia e l’indignazione non solo per
la tragica notte di Iguala e per i 43 studenti di Ayotzinapa, ma anche
per tutti quei desaparecidos senza nome e tutti i massacri di Stato
rimasti impuniti, gridando a gran voce che in Messico ci sono più di 43
motivi per continuare a lottare. [Ultime due foto del collettivo
“Documentación de Marchas”]
Connessioni
43 poeti per Ayotzinapa e aggiornamenti – Qui Link
Che sia chiaro, io non accetterò di andare tutti i giorni a chiedere
scusa ai carabinieri, non accetterò che la mia casa diventi la mia
prigione.
Decidano loro, tanto la nostra lotta è forte, lottiamo per il diritto di
tutti a vivere bene, lottiamo non solo per la nostra valle ma per un
mondo più giusto e vivibile per tutti
Noi non abbiamo paura e non ci inginocchiamo davanti a nessuno, e quindi
io a firmare non ci vado e nemmeno starò chiusa in casa ad aspettare
che vengano a controllare se ci sono o non ci sono.
Siamo nati liberi e liberi rimaniamo! Liberi ed uguali!”
Qui la traduzione di InfoAut dell'appello che arriva dalla
Francia a boicottare, disturbare, infastidire la manifestazione
calcistica di Euro 2016, ai blocchi di partenza nel paese transalpino da
mesi colpito dall'agitazione e dalla lotta contro la Loi Travail.
Similmente a quanto successo per i Mondiali in Brasile del 2014, ancora
una volta il nesso tra grandi eventi sportivi, apparati di controllo e
lotte sociali viene agito e messo in discussione dal movimento, abile a
comprendere il potenziale di rottura globale che può avere portare la
realtà sociale dentro questo genere di show. Originale qui.
Euro
2016 si svolgerà in Francia tra il 10 giugno e il 10 luglio. Data la
situazione sociale nel paese, noi che stiamo lottando contro la Loi
Travail e le sue conseguenze facciamo appello a disturbarlo. Va detto
che, anche noi, amiamo il calcio. Ma consideriamo il calcio come un
gioco, non come un business, non come una merce. E dato il giro di
denaro e la comunicazione politica che esiste intorno a tali grandi
eventi sportivi, non abbiamo remore a immaginare che Euro 2016 possa
essere un po' disturbato.
Attraverso uno sfruttamento salariale
sempre maggiore, la Loi Travail e le sue conseguenze giocano con le
nostre vite. La sfida ci sembra dunque più importante d'una cinquantina
di partite di calcio.
Tuttavia, non abbiamo nulla contro i calciatori, né contro i tifosi.
Abbiamo contro il mondo di Euro 2016, le sue strutture e i suoi sponsor: UEFA
/ FFF / Abritel / Adidas / Coca-Cola / Crédit Agricole / Continental /
FDJ / Hisense / Hyundai-Kia / McDonalds / Orange / La Poste / Proman /
Socar / SNCF / Tourtel / Turkish Airlines / ecc
E lo stato di
emergenza, i 42.000 ufficiali di polizia, i 30.000 gendarmi, i 13.000
guardie di sicurezza per le aziende private, i 200 poliziotti stranieri,
i militari e il RAID per mantenere l'ordine negli stadi e nelle zone
per i tifosi? Nessuna paura! E i droni, le telecamere a circuito chiuso e
gli altri dispositivi tecnologici di controllo? Nessuna paura! E Daesh,
lo spettro annunciato, giustifica tutto questo? Nessuna paura!
Se
le tattiche di pressione in corso contro la legge sul lavoro e le sue
conseguenze non sono abbastanza (manifestazioni, scioperi, blocchi,
sabotaggi, ecc), li si espanderà per Euro 2016.
Nella gioia e nel buon umore, con rabbia e determinazione, per il ritiro della legge sul lavoro, per la fine del capitalismo e dello Stato, con le pratiche di auto-aiuto e le prospettive rivoluzionarie, a Bordeaux, Lens, Lille, Lione, Marsiglia, Nizza, Parigi, Saint-Denis, Saint-Etienne, Tolosa e altrove, facciamo appello a disturbare Euro 2016 in tutti i modi che vi piacerà.
Calciatori, calciatrici... e non e i loro amici dei comitati di azione a Parigi
Contatto: champions@riseup.netQuesto indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Le pressioni di un ampio fronte di
realtà antifasciste e antirazziste sono riuscite a conquistare il
diritto a manifestare per la manifestazione “CasaPound Not welcome” di sabato 21 maggio a piazza dell’Esquilino,
lungo il percorso che era stato inizialmente richiesto e autorizzato ai
fascisti del Terzo millennio per la loro sfilata razzista in piena
campagna elettorale.
Ore 10.00 inizia a riempirsi piazza dell’Esquilino dove abbiamo raggiunto Angelica di Degage Ascolta
Di seguito il comunicato degli antifascisti di Roma
Le piazze e le strade di Roma sono di chi ogni giorno le vive, le attraversa e le anima con le proprie lotte politiche e sociali. È così che le
pressioni di un ampio fronte di realtà antifasciste e antirazziste di
questa città e la legittimità delle lotte quotidiane sono riuscite a
conquistarsi la manifestazione di sabato 21 maggio a piazza
dell’Esquilino, lungo il percorso che – secondo quanto abbiamo
appreso dai giornali – era stato inizialmente richiesto ed autorizzato a
Casapound, l’organizzazione neofascista promotrice di campagne di odio e
intolleranza.
Una piazza conquistata
grazie alla fermezza degli antifascisti e delle antifasciste e alla loro
indisponibilità a qualsiasi forma di mediazione al ribasso: come diciamo da giorni, un corteo
come quello di Casapound, convocato a difesa di una presunta «civiltà
europea» minacciata da una altrettanto presunta invasione degli
immigrati, non può passare in piazze multietniche come piazza Vittorio e
piazza dell’Esquilino. La provocazione sarebbe stata inaccettabile
e, per questo, nessuna altra convocazione sarebbe stata per noi
possibile se non in quella piazza dell’Esquilino che ci ha visto
concentrarci e manifestare migliaia di volte.
È giunta, quindi, da qualche minuto l’autorizzazione a
manifestare lì, come ormai richiesto da giorni e come ribadito dalla
partecipatissima assemblea all’università La Sapienza di venerdì scorso,
oltre che dall’Anpi, dalla Fiom-Cgil, dal Coordinamento romano acqua
pubblica, dalla conferenza stampa tenuta ieri sotto la prefettura dal
Comitato madri per Roma città aperta e da decine di altre esperienze di
lotta di questa città. Sabato prossimo, quindi, piazza dell’Esquilino
non vedrà più il passaggio di un corteo che invita all’odio e
all’intolleranza come quello di Casapound, ma sarà una piazza aperta e
partecipata, animata dalle lotte sociali, dagli studenti medi e
universitari, dall’Anpi, da larghi settori sindacali, da tutti gli
antifascisti, gli antirazzisti e gli antisessisti di Roma. La legittimità delle lotte conquista la piazza. Non possiamo, però, non sottolineare ancora una volta gli ampi spazi di manovra che vengono lasciati a Casapound dalle istituzioni.
Sabato prossimo, oltre all’annunciato corteo, i neofascisti terranno infatti il loro evento “Tana delle Tigri” all’aperto, presso il parco pubblico di Colle Oppio, in orario pomeridiano.
Un parco che dipende dalla Sovrintendenza Capitolina dei Beni Culturali
e che, nonostante la sua natura pubblica, ospiterà un evento in cui
suoneranno gruppi come i genovesi di “Mai morti”, che già dal nome si
richiamano alla X Mas della Repubblica sociale italiana e nel simbolo
hanno un fascio littorio. Per non parlare poi di un altro dei gruppi
invitati, quegli Spqr Skins da cui prese le distanze persino Gianni
Alemanno quando, nel 2012, promossero un incontro firmato Blood &
Honour, il network internazionale neonazista. Un parco pubblico che,
dunque, un sabato pomeriggio di primavera sarà sottratto a coloro che
vivono la città per ospitare gruppi che cantano parole di odio e di
intolleranza. Chi è che con leggerezza e superficialità ha autorizzato
questo evento, che scriverà una pagina vergognosa nella storia di Roma?
La lotta contro il neofascismo e contro le istituzioni che
legittimano l’odio che propagano è ancora lunga. Per questo invitiamo
tutti e tutte ad animare sabato 21, alle ore 9, piazza dell’Esquilino.
Noi ci saremo! #casapoundnotwelcome
http://www.radiondadurto.org/2016/05/21/roma-sabato-21-maggio-casapoundnotwelcome/?utm_source=Molestio-feed&utm_medium=twitter
Oggi iniziativa dei centri sociali del nordest a Padova sotto la sezione
commerciale dell'ambasciata austriaca contro la chiusura dei confini
austriaci. Nessun essere umano è illegale #overthefortress. Ci vediamo il primo maggio a Roma all'ambasciata Turca! #noborders