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martedì 29 ottobre 2013

Gruppo Operaio 'E Zezi - 'A Flobert (1976)



Ricorre in queste settimane il quarantesimo anniversario della nascita del gruppo musicale dei E’ Zezi o meglio, come orgogliosamente si sono autodefiniti in questi decenni: “Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco E’ Zezi”. Nei prossimi giorni a Pomigliano ci saranno incontri e feste per ricordare degnamente questo felice tragitto umano, musicale e politico. 

Dopo oltre 40 anni di attività sono ancora forti e radicate le motivazioni che il fondatore del gruppo, Angelo De Falco, diede all’inizio della loro avventura culturale e musicale. Angelo veniva dall’esperienza con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, per lui «il folk doveva essere canto di protesta, di disagio, rivoluzionario” e con questa ferma linea di condotta diede inizio all’avventura artistica e politica dei Zezi. 

I tempi erano diversi da quelli odierni: Pomigliano d’Arco viveva la grande epopea della fabbrica fordista che trasformava i contadini in metal/mezzadri, le lotte percorrevano i reparti e si aprivano alle altre fabbriche ed al territorio. Nasceva quel canto e quel sound di protesta che oltre ad innervarsi nel conflitto si nutriva della cultura di un territorio ricco di tradizioni folk e di una cultura contadina fortemente caratterizzata. Oggi a Pomigliano resta la fabbrica autoritaria del modello Marchionne, un esercito di cassaintegrati e un tessuto sociale disgregato. La campagna circostante è stata, anche essa, manomessa e violentata dagli effetti del biocidio capitalista che attacca le forme di vita nei nostri territori. 

In questi quattro decenni E Zezi hanno prodotto una grande quantità di dischi e di spettacoli alcuni dei quali apprezzati anche fuori dal tradizionale circuito popolare. Oltre 300 musicisti, a vario titolo, sono passati per questa esperienza restandone segnati nel loro futuro percorso musicale ed artistico.

Insomma è cambiata la fabbrica, sono mutate le modalità dello sfruttamento, l’urbanizzazione e la modernità del capitale hanno lasciato tracce anche nell’antropologia di questi luoghi ma la verve e la passione artistica dei Zezi non è cambiata. Ancora oggi i loro concerti sono un sapiente mix tra teatro d’avanguardia, agit prop, sperimentazioni sonore e recupero delle migliori tradizioni popolari. 

Questa vitalità è rappresentata dal gran numero di giovani che si accosta a questo stile artistico e musicale guardando con simpatia alla storia dei E’ Zezi come alla storia delle lotte e dei conflitti di queste aree del nostro Sud. 

Una storia, come dimostra la vicenda dei Zezi, che deve rinnovarsi ulteriormente senza smarrire radici e ragioni sociali ancora drammaticamente vigenti.

martedì 22 ottobre 2013

I treni per Reggio Calabria canto di Giovanna Marini



Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta diversi movimenti di rivendicazione sociali esplosero nel sud Italia e i22 ottobremmediato fu il tentativo di annegarli nel sangue.
A Reggio Calabria, tra il luglio ed il settembre del 1970 si susseguirono numerose proteste contro il trasferimento del capoluogo regionale a Catanzaro. Vennero occupati la stazione, l'areoporto, le Poste e vi fu un grande sciopero generale.
Le organizzazioni di estrema destra risposero a questa ondata di protesta sociale da un lato con una serie di attentati dinamitardi, come quello del 22 luglio 1970 che fece deragliare il treno "Freccia del Sud" a Gioia Tauro (6 perosne morirono nell'attentato) e quello del 4 febbraio 1970, quando venne lanciato una bomba contro un corteo antifascista a Catanzaro; dall'altro tentando di scatenare disordini in città.
Alla strategia del terrore si affiancava il tentativo, sempre da aprte delle forze neo-fasciste, di cavalcare l'ondata di rivolta e di accreditarsi come rappresentanti degli interessi della popolazione in lotta.
Per rispondere a questi attacchi i sindacati metalmeccanici decisero di organizzare una grande manifestazione di solidarietà a fianco dei lavoratori calabresi. Fu tra le prime volte che gli operai del nord e del centro scesero a manifestare al Sud.
La manifestazione fu indetta per il 22 ottobre. I neofascisti tentarono di impedire l'arrivo dei manifestanti con una serie di attentati, 8 in totale, nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972.
Il tentativo però fallì, infatti più di 50'000 manifestanti riuscirono a raggiungere Reggio Calabria con i treni e i treni speciali, cui si aggiunse anche una nave con 1000 operai noleggiata dagli operai dell'Ansaldo di Genova.
Il viaggio e la giornata sono descriti da una canzone di Giovanna Marini.

I treni per Reggio Calabria
Andavano col treno giù nel meridione
per fare una grande manifestazione
il ventidue d'ottobre del settantadue
in curva il treno che pareva un balcone
quei balconi con la coperta per la processione
il treno era coperto di bandiere rosse
slogans, cartelli e scritte a mano
da Roma Ostiense mille e duecento operai
vecchi, giovani e donne
con i bastoni e le bandierearrotolati
portati tutti a mazzo sulle spalle
Il treno parte e pare un incrociatore
tutti cantano bandiera rossa
dopo venti minuti che siamo in cammino
si ferma e non vuole più partire
si parla di una bomba sulla ferrovia
il treno torna alla stazione
tutti corrono coi megafoni in mano
richiamano "andiamo via Cassino
compagni da qui a Reggio è tutto un campo minato,
chi vuole si rimetta in cammino"
dopo un'ora quel treno che pareva un balcone
ha ripreso la sua processione
anche a Cassino la linea è saltata
siamo tutti attaccati al finestrino
Roma ostiense Cisterna Roma termini Cassino
adesso siamo a Roma tiburtino
Il treno di Bologna è saltato a Priverno
è una notte una notte d'inferno
i feriti tutti sono ripartiti
caricati sopra un altro treno
funzionari responsabili sindacalisti
sdraiati sulle reti dei bagagli
per scrutare meglio la massicciata
si sono tutti addormentati
dormono dormono profondamente
sopra le bombe non sentono più niente
l'importante adesso è di essere partiti
ma i giovani hanno gli occhi spalancati
vanno in giro tutti eccitati
mentre i vecchi sono stremati
dormono dormono profondamente
sopra le bombe non sentono più niente
famiglie intere a tre generazioni
son venute tutte insieme da Torino
vanno dai parenti fanno una dimostrazione
dal treno non è sceso nessuno
la vecchia e la figlia alle rifiniture
il marito alla verniciatura
la figlia della figlia alle tappezzerie
stanno in viaggio ormai da più di venti ore
aspettano seduti sereni e contenti
sopra le bombe non gliene importa niente
aspettano che è tutta una vita
che stanno ad aspettare
per un certificato mattinate intere
anni e anni per due soldi di pensione
erano venti treni più forti del tritolo
guardare quelle facce bastava solo
con la notte le stelle e con la luna
i binari stanno luccicanti
mai guardati con tanta attenzione
e camminato sulle traversine
mai individuata una regione
dai sassi della massicciata
dalle chine di erba sulla vallata
dai buchi che fanno entrare il mare
piano piano a passo d'uomo
pareva che il treno si facesse portare
tirato per le briglie come un cavallo
tirato dal suo padrone
a Napoli la galleria illuminata
bassa e sfasciata con la fermata
il treno che pareva un balcone
qualcuno vuol salire attenzione
non fate salire nessuno
può essere una provocazione
si sporgono coi megafoni in mano
e un piede sullo scalino
e gridano gridano quello che hanno in mente
solo comizi la gente sente
ora passa la notte e con la luce
la ferrovia è tutta popolata
contadini e pastori che l'hanno sorvegliata
col gregge sparpagliato
la Calabria ci passa sotto i piedi ci passa
dal tetto di una casa una signora grassa
fa le corna e alza una mano
e un gruppo di bambini
ci guardano passare
e fanno il saluto romano
Ormai siamo a Reggio e la stazione
è tutta nera di gente
domani chiuso tutto in segno di lutto
ha detto Ciccio Franco "a sbarre"
e alla mattina c'era la paura
e il corteo non riusciva a partire
ma gli operai di Reggio sono andati in testa
e il corteo si è mosso improvvisamente
è partito a punta come un grosso serpente
con la testa corazzata
i cartelli schierati lateralmente
l'avevano tutto fasciato
volavano sassi e provocazioni
ma nessuno s'è neppure voltato
gli operai dell'Emilia-Romagna
guardavano con occhi stupiti
i metalmeccanici di Torino e Milano
puntavano in avanti tenendosi per mano
le voci rompevano il silenzio
e nelle pause si sentiva il mare
il silenzio di qulli fermi
che stavano a guardare
e ogni tanto dalle vie laerali
si vedevano sassi volare
e alla sera Reggio era trasformata
pareva una giornata di mercato
quanti abbracci e quanta commozione
il nord è arrivato nel meridione
e alla sera Reggio era trasformata
pareva una giornata di mercato
quanti abbracci e quanta commozione
gli operai hanno dato una dimostrazione

sabato 12 ottobre 2013

100 personas para parar un desahucio



La mattina di Venerdì 11 ottobre 2013, oltre un centinaio di persone si sono riunite a Hernan Cortes Street, bloccando il passaggio della polizia e la commissione giudiziaria, impedendo così una seconda volta l'esecuzione di sfratto di Marisa Gomez, un famoso attivista . della lotta per un alloggio decente a Madrid 
ulteriori informazioni: http://periodismohumano.com/economia/ ...

sabato 5 ottobre 2013

Lampedusa, Amnesty protesta a Montecitorio: "Politici, oggi piangete. Ma...

Siria, un migrante racconta le violenze subite a Catania

Qatar: the migrant workers forced to work for no pay in World Cup host c...



La faccia del capitalismo odierno è indubbiamente quella delle opere faraoniche e degli eventi intergalattici che attraggono sponsor multimiliardari da tutto il mondo. Del resto, della dimensione pubblica importa poco e di quella ambientale ancor di meno, per cui può esserci una centrale nucleare gravemente danneggiata che sversa in mare a pochi chilometri di distanza dal punto in cui dovrai organizzare un evento globale, ma tu devi fregartene e saltare come un grillo per la felicità di avere vinto all'asta un'imperdibile “occasione di sviluppo”. Il Giappone è un fulgido esempio per capire la pericolosa via intrapresa dal pensiero capitalistico nella sua fase dogmatica, ossia quella del liberismo globalizzato. 
Per fortuna la gioia dei samurai giapponesi pronti a sacrificarsi per il bene del capitalismo globale non è condivisa qui da noi, né in Italia né in Europa, dove ci sono state e ci sono battaglie contro il nucleare e contro l'insensatezza di un progetto inutile e oneroso come quello del Tav che toglie risorse preziose in un momento in cui si taglia sull'essenziale. Certo è che le ombre all'orizzonte si fanno sempre più dense e non accennano a diradarsi, infatti partono proprio dal nodo cruciale del lavoro e dei diritti, messo sotto scacco qui da noi da un processo di riforma ormai ventennale (e qualcuno, insaziabile, continua a chiederne ancora). Infatti, il neocapitalismo richiede sacrifici di sangue per erigere i suoi totem al Dio-Mammona del denaro/potere/successo (rif. Flores d'Arcais – Micromega 6/2013), rivelando così la sua identità dogmatica, ormai ridotta a divinità per l'appunto, che pretende la prostituzione di ogni attività, non ultima quella intellettuale. Il presupposto essenziale è stato raggiunto: il lavoro è stato ridotto a merce, dunque privato dei più elementari diritti e le persone stesse sono state trasformate in cose (come dimostra bene l'esempio giapponese). La teoria liberale sempre più traballante cerca di riportare tutto alla normalità, ma emergono fenomeni preoccupanti e gli stessi liberali sempre più spesso devono ammettere il cortocircuito del loro pensiero. Emerge così da un'inchiesta del britannico Guardian (http://www.theguardian.com/world/2013/sep/25/revealed-qatars-world-cup-slaves) il ritorno dello schiavismo, e dove? Nello Stato recentemente definito da Forbes (http://www.forbes.com/sites/bethgreenfield/2012/02/22/the-worlds-richest-countries/) “il più ricco al mondo”. Una classifica farlocca, basata sui dati del Pil pro-capite forniti dal FMI ci dice che in questa monarchia la crisi economica non esiste e la ricchezza sulla testa di ognuno è la più alta al mondo. Peccato che in Qatar non abbiano fatto altro che vendere risorse energetiche a un occidente drogato, e che ormai anche i sassi sappiano che il Pil pro-capite non dice proprio nulla sulla distribuzione della ricchezza, infatti scopriamo dal Guardian che in questo paradiso terrestre esiste la schiavitù. E indovinate un po' da chi è esercitata? Dalle multinazionali occidentali che sponsorizzano l'evento, of course. E sulla pelle di chi? Su chi se non sui migranti, nepalesi e indiani nella fattispecie, che si vedono sequestrare stipendi e passaporti come nuova forma d'incatenamento dell'essere umano al proprio padrone che può così arrivare fino a privare dell'acqua i suoi sottoposti, costretti a lavorare nei bollenti cantieri di Doha. Che Marx e Engels non si limitassero a ricorrere ad una metafora quando si riferivano alle “catene”, ma che volessero fare riferimento ad una forma più articolata su cui tendono ad ergersi i medesimi rapporti schiavistici mi pare evidente. Lo stesso Formenti ci ricorda proprio a partire dal caso del Qatar come capitalismo e schiavitù non siano affatto incompatibili, anzi. (vedi:http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/10/03/carlo-formenti-il-nuovo-matrimonio-tra-capitalismo-e-schiavitu/
Nel caso del Qatar prescindere dalla situazione internazionale sarebbe poi una stortura di non poco conto, e implicherebbe un esercizio d'indifferenza notevole, poiché in quei paesi la monarchia assoluta va' ancora di moda e le proteste di massa sono state represse brutalmente nel sangue. In Bahrain le “primavere arabe” sono state e vengono ancora stroncate tra torture e arresti preventivi. 
Così anche il più recente ciclo di proteste scatenatosi nelle economie emergenti la scorsa estate, curiosamente, pare aver incontrato la repressione più dura proprio nei paesi sotto l'influenza dell'occidente democratico, ossia nel regime turco di Erdogan – che fino a poche settimane fa spingeva per un uso unilaterale della forza in Siria, nonostante il serio pericolo di estensione del conflitto - e nelle monarchie degli emiri. Due cristallini esempi di “democrazia” che stanno lì a ricordarci come la stessa democrazia che oggi diamo per scontata non sia cascata dal cielo. 
Così l'occidente si trova immerso nell'ipocrisia generale, incapace di razionalizzare il problema della carneficina. Vediamo le recenti tragedie sulle nostre sponde, ma nessuno sa (alcuni sanno, ma fanno finta di non sapere) come fermare “il flusso”: trattare con Gheddafi, ammazzare Gheddafi, fare le “guerre umanitarie” ed “esportare la democrazia”, “mettere le mine” (proposta di Alba Dorata, ma qui da noi c'è chi ha proposto di “sparare ai barconi” senza che le coscienze della maggioranza si risentissero più di tanto). E' stato anche lecito sparare ogni sorta di scemenza sulle politiche migratorie, salvo poi piangere e pregare quando i migranti muoiono e la corrente del mare li fa arenare a frotte sulle nostre spiagge, portando all'evidenza il problema e smuovendo un rigurgito anche alle coscienze più assopite. L'ipocrisia può essere sopportabile fino ad un certo punto, personalmente non la sopporto più, anche perché veder morire un operaio schiavizzato al giorno nei cantieri di Doha dove si prepara un evento in cui si focalizzerà l'attenzione sulla quantità di liquidi ingerita da un miliardario in pantaloncini e si innescheranno polemiche appassionate sul fitto numero di partite in pochi giorni che gli atleti dovranno affrontare, mentre oggi si esercita il pianto pubblico per i migranti che venivano nel nostro paese a ridursi in condizioni simili a quelle degli operai in Qatar, dà il voltastomaco. Si stima che in quel cantiere nei prossimi anni moriranno più di 4000 operai, ma a noi italiani importa poco. C'è un papa anche per loro, le lacrime non costano nulla e la prossima partita dei mondiali di calcio verrà trasmessa in mondovisione. 

Manifestazione studenti 4 ottobre

mercoledì 2 ottobre 2013

¡Maldita impunidad! 2 de octubre de 1968 ¡NO SE OLVIDA!



Città del Messico, 2 ottobre 1968. Nella piazza delle Tre Culture, nel quartiere Tlatelolco, migliaia di studenti e lavoratori messicani si danno appuntamento per manifestare pacificamente contro il Governo di Gustavo Diaz Ordaz, a capo di un partito che di rivoluzionario ha solo il nome. Mancano appena dieci giorni all’inizio della 19esima edizione dei Giochi Olimpici. Ma è dall’estate che il Paese è attraversato dalle tensioni che del resto caratterizzano l’intero anno, dalla protesta studentesca all’offensiva in Vietnam, dagli assassini di Martin Luther King e Bob kennedy ai carri armati russi che soffocano nel sangue la Primavera di Praga. Il 22 luglio 1968, nella capitale messicana, una banale rissa tra istituti studenteschi viene sedata con la forza dai granaderos, i carabinieri messicani. È la scintilla che nell’anno olimpico, fa scattare il corto circuito tra le due anime del Paese, come spiega Marco Bellingeri, docente di storia dell’America latina all’università di Torino e direttore del centro di cultura italiana a Città del messico.
Eddy Ottoz allora era un ragazzo di 24 anni. Quarto ai Giochi di Tokio nei 110 ostacoli, in Messico era pronto per puntare a una medaglia olimpica. Giovane attento, spirito libero, Ottoz aveva avuto occasione per conoscere da vicino le tensioni della società messicana, avendo più volte visitato il Paese negli anni precedenti, proprio in vista di quelle Olimpiadi, particolarmente attese per il clima politico, l’altitudine che avrebbe condizionato molti risultati, la diretta tv che per la prima volta avrebbe portato i Giochi nelle case di tutto il mondo.
Quel 2 ottobre 1968 sono oltre 10mila i giovani che accorrono in Piazza delle Tre Culture per partecipare alla manifestazione antigovernativa. Il segnale della repressione arriva alle 17.30, dal cielo. Le vie di fuga della piazza vengono chiuse: all’improvviso, dai tetti del ministero degli Esteri e dagli elicotteri partono raffiche di mitra sulla folla: sono 62 interminabili minuti di fuoco. Tra i feriti anche l’inviata dell’Europeo Oriana Fallaci che rilascia al Tg Uno questa drammatica testimonianza dal suo letto d’ospedale il giorno dopo.
Il bilancio della carneficina è di oltre 300 vittime, 1200 feriti, 1800 arrestati, 25mila colpi sparati. il silenzio di Ottoz, tra i primi ad accorrere sul luogo della tragedia, è più eloquente di qualsiasi parola.
Molto si è scritto e detto su quello che rimane uno degli episodi più tragici della storia dell’olimpismo. Le trame sottostanti a quella strage sembrano ora più chiare ed evidenti, e solo di recente il Messico è riuscito a fare i conti con quel passato scomodo e tragico.
Il sangue sparso a piazza delle Tre Culture non fermò, però, le Olimpiadi messicane. Le parole di Ottoz sembrano un monito prezioso anche sulla strada verso Pechino. Ma qual è oggi, l’eredità dei morti di Piazza delle tre culture? Ancora Marco Bellingeri