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sabato 18 agosto 2018

#Notinmyname: in Belgio le proteste contro la riapertura dei centri di detenzione

Sta suscitando tantissima indignazione in Belgio la decisione del governo di centro centra a guida del primo ministro Charles Michel di riaprire i centri di detenzione per i migranti da rimpatriare dopo il rigetto delle domande di regolarizzazione. Partiti di opposizione al governo e il mondo associativo denunciano il “ritorno al passato” e a un modus operandi che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo e dell’Infanzia aveva già condannato in passato. 
I centri di permanenza e detenzione belgi sono destinati ad ospitare anche intere famiglie, bambini compresi. Ed è al primo fermo di una famiglia serba con 4 bambini, avvenuto martedì 13 agosto che le associazioni hanno tempestivamente risposto con diverse manifestazioni. La più partecipata è stata quella che si è svolta a Bruxelles (fotografie) organizzata nei pressi della celebre statua del Menneken Pis, che rappresenta un ragazzino intento a far pipì, in pieno centro cittadino. “Non si arrestano i bambini”, #notinmyname, #NoOneIsIllegal #NonAuxCentresFermés era scritto sui cartelli e gli striscioni del corteo di circa 2.500 persone che sono scese in piazza contro questa disumana disposizione.
A seguire la traduzione di alcuni articoli di rassegna stampa.


Migranti: una prima famiglia con bambini condotta al 127bis

I bambini hanno tra 1 e 6 anni. Il collettivo #NotInMyName denunciano: “una misura disumana
Le Soir.be, 14 agosto 2018
Una prima famiglia con bambini è stata condotta in mattinata al centro 127bs, a Steenokkerzeel, in vista dell’espulsione dal Paese.
Si tratta di una famiglia originaria della Serbia, che comprende 4 bambini tra gli 1 e i 6 anni, ha confermato l’Ufficio per gli Stranieri. Respinte le due domande di regolarizzazione inoltrate nel 2010 e nel 2011, come pure quella di asilo depositata nello stesso periodo, la famiglia, priva di titolo di soggiorno, era stata sistemata in “maison de retour” in attesa del rimpatrio previsto nel marzo e poi nel dicembre 2017. Sistemazione dalla quale ogni volta è fuggita.
Il padre di famiglia è stato condannato in passato a 37 mesi di prigione per furto aggravato.
Abbiamo appreso che una famiglia è stata incarcerata questa mattina (…) Nulla giustifica che si arrestino persone per questioni amministrative. Men che meno minorenni” ha comunicato rapidamente il collettivo #NotInMyName, che ha indetto una manifestazione per mercoledì 15 agosto a Bruxelles, davanti al Manneken Pis per denunciare “la misura disumana”.
Le unità familiari del centro dovrebbero continuare ad “accogliere” altre famiglie durante le prossime settimane. Anche se “nessuna famiglia è stata perseguita nello specifico per il momento, l’Ufficio assicura che sono molte quelle che sono scappate dalle “maison de retour”. Nel solo 2016, 51 famiglie sono fuggite di fronte alla loro espulsione dal Belgio.

Famiglia detenuta al Centro 127bis: azione di protesta di Amnesty International

Una prima famiglia con figli minorenni è stata trasferita martedì mattina al Centro 127bis di Steenokkerzeel.
Amensty International ha lanciato nel pomeriggio un’azione di protesta contro il fermo, nel parco Reale, nei pressi del Gabinetto del Primo Ministro in Rue de la Loi. “Non si arresta un bambino. Punto”: è lo striscione che è stato affisso durante la manifestazione. “Siamo qui per chiedere al Belgio di mettere fine alla ripresa di questa pratica di detenzione dei bambini migranti. Abbiamo l’impressione che il Belgio torni al passato, dal momento che dopo le condanne ricevute dalla Corte Europea per i Diritti Umani nel 2010 e nel 2011 aveva giocato un ruolo di precursore in materia, sviluppando alternative. Abbiamo voluto reagire simbolicamente ed essere davanti alla sede del Primo Ministro perché ascolti il nostro messaggio. Speriamo che il messaggio venga ascoltato anche dalla popolazione. Arrestare i bambini è qualcosa di intollerabile e sconvolgente” ha dichiarato una rappresentante di Amnesty alla RTBF.
La polizia è arrivata dopo pochi minuti e i militanti della Amnesty International ha sciolto il presidio.
L’Unicef è “costernata”
L’Unicef è costernata di fronte alla decisione presa dal governo belga di arrestae un bambino insieme ai suoi genitori nel centro di permanenza di Steenokkerzeel e di privare così di libertà l’intera famiglia.” Ha dichiarato martedì Olivier Marquet, direttore dell’UnicefBelgique.
Il Belgio aveva deciso nel 2008, dopo diverse condanne da parte della Corte Europea e diverse azioni delle organizzazioni per i Diritti dell’Uomo e dell’Infanzia, di smetterla con le detenzioni dei figli di immigrati nei centri di permanenza” prosegue. “Perché si torna indietro? Per l’Unicef, la detenzione di un bambino sia esso figlio di migrante o meno è inaccettabile” ricorda.

Politiche migratorie: più di 1.200 manifestanti a Bruxelles contro l’arresto dei bambini

1200 secondo la polizia, 2500 secondo gli organizzatori, le persone che hanno manifestato mercoledì pomeriggio (15 agosto) a Bruxelles contro la detenzione dei bambini e la politica migratoria del governo belga, considerata “indegna”.
Simbolicamente la manifestazione, indetta da un collettivo cittadino denominato “#NotInMyName” (non in mio nome), è stata organizzata nei pressi della celebre statua del Menneken Pis, che rappresenta un ragazzino intento a far pipì, in pieno centro cittadino.
Fino ad oggi era il solo bambino in Belgio dietro le sbarre (una rete a protezione della statua, ndr), adesso è il governo a decidere di mettercene altri”, ha spiegato all’AFP (agenzia di stampa francese) Florence, una rappresentante del movimento, che preferisce non dire il dire il suo cognome.
Il riferimento è alla recente apertura, con ordinanza reale dell’11 agosto scorso, di un centro di permanenza per l’accoglienza delle famiglie straniere in situazione irregolare e in attesa di espulsione dopo il respingimento della richiesta di asilo.
Conosciuto in Belgio come il “centro chiuso 127bis”, la struttura situata in prossimità dell’aeroporto Bruxelles-Zaventem è stata denunciata dai partiti di opposizione (PS, Verdi e partiti di centro) e dalle associazioni.
Le critiche si sono moltiplicate dopo l’accoglienza presso il centro della prima famiglia avvenuta martedì scorso. Si tratta di una famiglia serba in situazione irregolare, con quattro figli, accusata di essere scappata più volte dalle strutture aperte presso le quali risiedevano. Il padre è stato presentato come “vero criminale” in un tweet del Segretario di Stato con delega al diritto di asilo e all’immigrazione, il nazionalista fiammingo Theo Francken.
Non si arrestano i bambini
Non si arrestano i bambini” è lo slogan scandito mercoledì dai manifestanti, tra i quali numerose famiglie con figli. Per le associazioni di difesa dei diritti umani, l’apertura del centro di permanenza detentiva è per il Belgio un “ritorno in indietro di dieci anni”.
A partire dal 2008 le strutture unifamiliari aperte, denominate “case del ritorno” avevano permesso di evitare la detenzione di minori sans papiers. Ma l’esperienza è stata giudicata molto presto come inconcludente, e una legge votata nel 2011 ha aperto la possibilità di adottare di nuovo la detenzione.
L’apertura dell’ unità detentiva al centro 127bis, decisa dall’attuale governo di centro-destra è stata oggetto di denuncia nelle ultime settimane da parte del Consiglio Europeo e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

In un video del progetto 20K la violenza della polizia francese contro i migranti

Stazione di Menton Garavan, 15 agosto.
Un treno dall’Italia arriva alla stazione e, come di consueto, ha luogo il rastrellamento della polizia francese, al fine di identificare chiunque non abbia la pelle bianca, controllare che tutt* abbiano i documenti in regola ed effettuare il respingimento immediato all’occorrenza.
Ancora una volta delle persone che cercano di attraversare il confine si scontrano con una reazione violenta delle forze dell’ordine.
Il claustrofobico bagno del treno dove i migranti si sono rifugiati per tutelare invano se stessi, i loro corpi e le loro scelte, viene aperto.
Nelle immagini che seguono si vede come la CRS utilizzi ingenti quantità di spray al peperoncino, in un luogo particolarmente ridotto come la toilette di un treno, senza accertarsi chi ci fosse al di là della porta: sarebbero potut* essere bambin*, anzian* o persone affette da patologie respiratorie. I poliziotti hanno l’atteggiamento che conosciamo, un atteggiamento testosteronico e macho, un modo di fare aggressivo, che come potrete vedere, viene assunto anche da altri viaggiatori. Persone che si sentono legittimate a solidarizzare (ti piace vincere facile?) con le forze dell’ordine, aiutandole a forzare la porta. Scegliendo in questo modo da quale parte schierarsi, opponendosi ai ragazzi che cercavano di resistere ai controlli e al respingimento.
Fa riflettere come gli stessi passeggeri non abbiano avuto la sensibilità di percepire la paura degli uni, ed abbiano invece emulato il comportamento rabbioso della polizia francese. Un episodio che ci lascia con tanta amarezza, l’amarezza di chi vede le merci transitare indisturbate mentre blocca alle frontiere donne uomini e bambini, l’amarezza di chi crede che ogni uomo e donna deve poter scegliere sulla propria vita, l’amarezza di chi vede l’Europa crollare sotto il peso del razzismo e dell’odio, l’amarezza di chi vede nella lotta del povero contro il più povero, del discriminato contro il più discriminato la vera barbarie.
Video realizzato dal Progetto20k, invitiamo tutt* a diffondere e condividere!

“NON E’ SOLO UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA, E’ UNA STRAGE DI STATO”: RABBIA E DOLORE A GENOVA

“Prima ci ammazzano e poi ci fanno i funerali di Stato”. Rabbia e dolore tra i lavoratori del porto.
Le valutazioni e riflessioni di Luca Franza lavoratore portuale. Ascolta o scarica
“Ci è crollato il Ponte addosso”. la testimonianza di Rocco, operatore della Comunità di San Benedetto al Porto che era presente al momento della tragedia in un capannone, che è stato parzialmente distrutto, dove vi erano progetti e attività sociali di reinserimento. Ascolta o scarica
“E’ una strage di stato, risultato delle privatizzazioni: questo è evidente e molte famiglie delle vittime non vogliono i funerali di Stato.” Nel capoluogo ligure intanto gli Ultras del Genoa e della Sampdoria chiamano alla mobilitazione”. Ai nostri microfoni Emilio Quadrelli, ricercatore presso il  Dipartimento di scienze antropologiche all’Università di Genova . Ascolta o scarica
“Le fatalità non esistono. Esistono le priorità politiche. La messa in sicurezza delle infrastrutture esistenti non è mai stata una priorità di chi ci governa. Si preferisce lucrare sulle grandi opere e investire somme folli su progetti tanto faraonici quanto inutili”. Da Genova ci spiega la posizione dei No Tav Terzo valico Davide Fossati che interviene anche sulla loro contrarietà nei confronti  della Gronda, opera che secondo i sostenitori di questo progetto avrebbe alleggerito il traffico sul Ponte Morandi ascolta o scarica
Caduta di calcinacci e addirittura di un tubo. Questo è quanto era già stato segnalato da mesi dai lavoratori e lavoratrici della municipalizzata Amiu impegnati in lavori sotto il ponte Morandi. Tra le vittime ci sono proprio due giovani precari di Amiu. Il commento di Emanuele Giacopetti, lavoratre AMIU.
Ascolta o scarica l’intervista

I Benetton e la cacciata dei Mapuche dalle loro terre. Una storia argentina

260mila capi di bestiame, tra pecore e montoni, che producono circa 1 milione 300mila chili di lana all’anno interamente esportati in Europa. Nello stesso terreno sono allevati 16mila bovini destinati al macello.
Sono cospicui gli interessi della famiglia Benetton in Argentina.
Tutto comincia all’inizio degli anni ’90, quando la famiglia italiana Benetton acquista per 50 milioni di dollari il controllo della CTSA attraverso la holding Edizione Real Estate, diventando la più grande proprietaria terriera del paese con 900 mila ettari di terreno, 884 mila dei quali in Patagonia.
Ma nonostante vari tentativi di mediazione non è mai cessata la rivendicazione di terre ancestrali, dove i Mapuche hanno vissuto per generazioni. Mentre l’impero Benetton che, carte alla mano, non vuole rinunciare a quei 900mila ettari di terreno sul quale le “loro” pecore forniscono il 10% della produzione di lana necessaria all’azienda. Nel mezzo, numerosi scontri violenti – dopo un fallito tentativo di mediazione – tra la popolazione indigena e le forze dell’ordine argentine che in questa periferia dimenticata sembrano rimaste quelle della Giunta del massacratore Videla.
In realtà il conflitto ha radici lontane. Nel 1896 il Presidente argentino Uriburu, dona a 10 cittadini inglesi circa 900.000 ettari di terra, nonostante la legislazione vietasse donazioni tanto estese e la concentrazione di terreno (aree superiorei a 400.000 ettari), ad una sola persona o società.
Poco tempo dopo le terre vengono vendute all’Argentinian Southern Land Company Ltd, violando nuovamente il divieto di vendita a fini di lucro delle terre donate.
Nel 1975 un gruppo di investitori compra un pacchetto di azioni della Argentinian Southern Land Company Ltd, il cui nome viene modificato nel 1982, a seguito della nazionalizzazione, in Compañía de Tierras Sur Argentino S.A. (CTSA).
È nel 1991 che la famiglia Benetton acquisì per 50 milioni di dollari 900mila ettari di terre dalla compagnia Tierras Del Sur Argentino, principale proprietaria terriera nella Patagonia argentina. Poi, nel ’94, il presidente Carlos Menem vendette a Benetton quelle terre ad un prezzo irrisorio, e gli abitanti Mapuche furono confinati in zone marginali e improduttive, o costretti alla migrazione nei centri urbani.
Negli anni, però, il popolo indigeno non ha rinunciato alla riappropriazione di quelle terre, e hanno cercato di estendersi e di insediarsi in alcuni villaggi. Nel 2007 la comunità Santa Rosa Leleque decise di recuperare il suo territorio ancestrale, e per anni ha dovuto affrontare continui e violenti tentativi di sgombero. Nel 2014, finalmente, l’Istituto Nazionale degli Affari Indigeni (INAI) riconobbe il diritto dei Mapuche sul territorio. E il 13 marzo del 2015 alcune famiglie iniziarono la “recuperación” di altri territori ancestrali sottratti loro da Benetton.
Secondo Antimafia 2000, “l’impero Benetton sta portando avanti un atto imprenditoriale di stampo fascista, forse legittimo – o ai limiti della legalità – perché si nasconde dietro un atto di vendita, anche se incostituzionale”. E continua a voler buttare fuori dalle proprie terre il popolo Mapuche.
In questo contesto si inserisce la tragica vicenda di Santiago Maldonado (nella foto), artigiano argentino impegnato nei diritti civili delle comunità indigene, 28 anni, i capelli neri e una folta barba che gli circonda il viso, gli occhi scuri, intensi e profondi, è sparito il primo agosto 2017 a El Bolsón, vicino a Bariloche, nella provincia di Rio Negro, mentre era con un gruppo di Mapuche, un’etnia indigena che da tempo rivendica il diritto a riappropriarsi delle proprie terre che fino a un secolo fa si estendevano dall’Atlantico al Pacifico, nel cuore della Patagonia, stava bloccando una importante arteria del paese per protesta. Era intervenuta la polizia, c’erano stati dei tafferugli e del ragazzo si erano perse le tracce. Il suo cadavere sarà ritrovato quasi tre mesi dopo.
Papa Francesco si è interessato di questo omicidio che per molti versi ricorda quello di padre Juan Viroche, altro difensore dei deboli ucciso da un potere pervasivo e privo di scrupoli contro il quale la magistratura argentina non riesce a fare nulla.

venerdì 17 agosto 2018

Crollo del Ponte Morandi: gli antefatti

L’articolo che pubblichiamo sulla tragedia di Genova presenta una documentazione essenziale e il quadro complessivo di scelte strutturali economiche e politiche che sono alla base di una catastrofe annunciata.
Pone in modo sempre più urgente il tema ineludibile della battaglia contro le privatizzazioni, della necessità del ritorno nelle mani integralmente pubbliche (no SPA e simili), e sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti, di settori economici e di strutture fondamentali che non possono in alcun modo essere lasciati alla logica del profitto e dell’interesse privato (Oggi persino La Repubblica è spinta a scrivere che “la tragedia di Genova è un frutto avvelenato delle privatizzazioni”). Pone il tema di un vasto piano pubblico dei trasporti che integri in modo coerente e funzionale ai bisogni del paese, cioè dell’intera popolazione, la parte su gomma e quella su ferrovia; conferma il nostro no alla logica di grandi opere che servono l’interesse di pochi e le speculazioni e la necessità di un vasto progetto e piano di manutenzione delle reti esistenti e di messa in sicurezza di un territorio la cui fragilità è stata messa più volte in evidenza dagli avvenimenti disastrosi che si sono prodotti. In altri termini pone il problema dell’alternativa tra la logica privata del capitalismo e la logica dell’interesse pubblico e del benessere e della sicurezza ambientale di tutte le cittadine e dei cittadini; richiede una svolta profonda che non verrà né dai governanti attuali, né da quelli che li hanno preceduti, entrambi profondamente legati al sistema esistente, ma solo da una nuova mobilitazione di massa sociale delle classi lavoratrici e popolari.
di Giorgio Simoni
Il crollo del ponte Morandi a Genova, sull’autostrada A10, con il suo conto, al momento in cui scriviamo, di 39 vittime, 16 feriti, di cui 12 in codice rosso, e 632 sfollati, è una tragedia immane, che ci colpisce amaramente e che segnerà a lungo la storia del nostro Paese.
Al doveroso cordoglio per le vittime, per i loro famigliari, e alla vicinanza con tutti coloro che vedranno la propria vita drammaticamente cambiata da questa sciagura, deve accompagnarsi un inizio di riflessione su come ciò sia potuto accadere e quali ne siano le responsabilità.
Cominciare, seppure a breve distanza dai fatti, a ragionare su alcuni elementi per un futuro giudizio politico su quanto è successo, non è un atto di cinismo. Il cinismo, semmai, è quello dei mercati finanziari, che già all’indomani del disastro hanno segnato il crollo delle quotazioni del titolo Atlantia, controllante di Autostrade per l’Italia. Il riflesso pavloviano (come quello canino, da cui deriva “cinico”) del capitalista: «Qui c’è da pagare un sacco di risarcimenti, meglio spostare i capitali da un’altra parte».
Le concessioni autostradali
Parlando di autostrade italiane, è opportuno fare un salto indietro nel tempo, nel 1997, anno in cui il governo Prodi approvò una nuova convenzione tra ANAS e Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A.: le concessioni della gestione delle tratte venivano prorogate dal 2018 al 2038. Autostrade era, in quel momento, quotata in borsa ma controllata dall’IRI e quindi in mano pubblica.
Ma l’operazione ne preparava un’altra, di natura ben diversa. Nel 1999 (Governo D’Alema, Ministro dei Trasporti: Tiziano Treu) la Società Autostrade venne privatizzata: al Gruppo IRI, che era l’azionista di riferimento, subentrò con il 30% un nucleo di azionisti privati, riuniti nella Società Schemaventotto; il restante 70% fu quotato in Borsa.
Oggi Autostrade per l’Italia è una controllata di Atlantia S.p.A., di cui la famiglia Benetton è il maggiore investitore, e gestisce 3.000 chilometri di itinerari in Italia, tra cui la tratta da Genova a Savona dell’Autostrada dei Fiori.
Atlantia è una multinazionale a base italiana, con 7.400 dipendenti, che gestisce autostrade anche in Cile, India e Brasile e aeroporti in Italia e Francia e dal 2018, controlla l’operatore spagnolo di pedaggio autostradale Abertis Infraestructuras in collaborazione con ACS SA.
Nel primo semestre del 2018 ha riportato ricavi per 1,9 miliardi, di cui 1,7 miliardi derivanti da pedaggi, e un margine operativo (EBIT) pari a 930 milioni di euro.(1)
Come si può notare, i pedaggi costituiscono la prevalente voce di entrate delle società del gruppo, che sono altamente combattive nel cercare di strappare i maggiori incrementi possibili. Ad esempio, nel 2018, Raccordo Autostradale Valle d’Aosta ha impugnato al TAR il provvedimento del Ministero delle Infrastrutture che ha concesso un aumento delle tariffe del 52,69%, a fronte della richiesta presentata pari all’81,12%; analogamente si è comportata Società Autostrada Tirrenica, a cui è stato riconosciuto un incremento pari all’1,33% a fronte della richiesta presentata pari al 36,51%. I giudizi sono ancora pendenti.
Nel frattempo, non sembra granché cambiato l’atteggiamento dei governi nei confronti del potente concessionario autostradale. Nel luglio del 2017, l’esecutivo retto da Gentiloni (Ministero delle Infrastrutture: Graziano Delrio) ha negoziato con la Commissione europea un accordo ai fini del riconoscimento della proroga di 4 anni della durata della concessione di Autostrade per l’Italia, ovvero dal 31 dicembre 2038 al 31 dicembre 2042.
Il viadotto Polcevera
Il viadotto Polcevera, detto anche “Ponte Morandi”, dal cognome dell’originario progettista, fu completato nel 1967 da Società Italiana per Condotte d’Acqua (2) ed è stato un’opera cruciale dell’infrastruttura viaria ligure. Era infatti l’unico collegamento autostradale esistente tra Genova e il Ponente e oltre, verso la Francia, con 25,5 milioni di veicoli in transito ogni anno, quadruplicatisi negli ultimi 30 anni.
Dopo la tragedia, i mezzi di comunicazione hanno riportato le opinioni di numerosi tecnici, secondo cui le criticità costruttive del manufatto erano da tempo ben note. «Negli anni Novanta furono fatti molti lavori: gli stralli furono affiancati da nuovi cavi di acciaio – ha spiegato Antonio Brencich, docente all’Università di Genova – Indice che già al tempo furono rilevati cedimenti e si cercò di correre ai ripari integrando la struttura originaria per far sì che non insorgessero situazioni di pericolo. E sono tanti i genovesi come me che si ricordano cosa succedeva all’inizio passandoci sopra: era tutto un saliscendi. Morandi aveva sbagliato il calcolo della “deformazione viscosa”. Tradotto: di cosa succede alle strutture in cemento armato nel tempo. Era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo». (3)
Va detto che il citato intervento di manutenzione straordinaria, con i cavi di acciaio aggiuntivi, negli anni Novanta fu attuato solo sulla pila n. 11 del ponte, quella situata più a est. Per le pile n. 10 (quella che è fatalmente crollata il 14 di agosto) e n. 9, solo 25 anni dopo, ovvero il 3 maggio di quest’anno, Autostrade per l’Italia ha pubblicato il bando per i lavori («Interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551 dell’Autostrada A10»), per un importo di circa 20 milioni di euro.(4)
Come si spiega una simile distanza temporale tra i due interventi? Per quale ragione un lavoro così importante per la sicurezza fu a lungo rinviato? Per provare a dare una spiegazione, occorre dire qualcosa su una delle «grandi opere» italiane, la contestatissima «Gronda di Genova»
La «Gronda di Genova»
Il tratto autostradale tra Voltri e Genova, che comprende il manufatto sul progettato da Riccardo Morandi, è ritenuto un nefasto “collo di bottiglia” dai sostenitori dell’opportunità di una crescita illimitata del trasporto su gomma di persone e merci.
Nei decenni scorsi il concessionario autostradale, l’ANAS e le istituzioni locali cominciarono a ragionare sulle possibili soluzioni alternative.
Nel 2002 Autostrade per l’Italia propose uno studio sul nodo di Genova che comprendeva, tra l’altro, il raddoppio dell’autostrada A10, tratto Genova Voltri – Genova Ovest, tramite la costruzione di una nuova autostrada parallela all’esistente con l’attraversamento del torrente Polcevera con un nuovo viadotto in affiancamento al ponte Morandi. Il costo dell’opera sarebbe stato di 1,7 miliardi di euro e la realizzazione avrebbe richiesto poco meno di 8 anni. Il viadotto Polcevera sarebbe stato infine demolito.(5)
Questa fu solo la prima versione della cosiddetta «Gronda di Ponente» (la gronda di Levante invece, passando nell’entroterra del Tigullio, collegherà Chiavari con l’A7).
Nel 2003 ANAS stese un progetto preliminare secondo un diverso itinerario, caratterizzato dall’attraversamento della Val Polcevera tramite un tunnel sotto al letto del fiume, immediatamente a sud di Bolzaneto. Il costo era in questo caso di 2,2 miliardi di euro.
Nel 2005, tuttavia, le istituzioni locali tornarono ad ipotizzare l’attraversamento del Polcevera tramite viadotto, riconsiderando l’itinerario che prevedeva la realizzazione di un nuovo ponte sul torrente  immediatamente a nord (a circa 150 metri di distanza) dell’esistente Viadotto Morandi.
Nel 2008 il Comune di Genova (con sindaca Marta Vincenzi) propose una soluzione che spostava l’attraversamento della Val Polcevera a Bolzaneto, evitando l’abbattimento del Morandi e aprendo una prospettiva di collegamento con la programmata Gronda di Levante. Il costo di questa ipotesi variava dai 2,2 ai 2,5 miliardi di euro.
Nel 2009 venne infine lanciato un dibattito pubblico sulla Gronda di Ponente, ipotizzando cinque diverse soluzioni, tre delle quali non prevedevano la demolizione del Viadotto Polcevera.(6)
Nel contempo, si sviluppò un ampio movimento popolare contro tale opera, concretizzatosi nella forma del Coordinamento dei Comitati della Val Polcevera e del Ponente, mentre in senso favorevole si espressero, sia pure con diversi accenti, le organizzazioni sindacali (CGIL e CISL), le associazioni di categoria (Confindustria e Confesercenti), la Camera di commercio e l’Autorità portuale.(7)
Contrarie all’opera furono anche le associazioni ambientaliste (WWF Liguria, Legambiente e Italia Nostra) e la sezione ligure dell’Istituto nazionale di urbanistica, che espresse «forte perplessità nei confronti di tutte le soluzioni proposte per la Gronda, per ragioni legate sia a un incremento della domanda di mobilità indotto dalla Gronda (come emerge dai dati di Aspi), sia a una sovrastima delle previsioni di domanda di mobilità al 2025» proponendo un “approccio incrementale, prudente e costruttivo” che affrontasse preliminarmente e urgentemente il destino del viadotto Morandi e il potenziamento del tratto genovese dell’A7.
L’opera da 4,5 miliardi di euro
Non è possibile qui ripercorrere tutto il dibattito. Ciò che conta è che alla fine fu partorita la decisione di realizzare questa «grande opera», del valore preventivato di 4,5 miliardi di euro, secondo una versione definita «ottimizzata» della proposta del Comune di Genova.
Il progetto prevedeva (purtroppo occorre esprimersi al passato) il mantenimento del Ponte Morandi, con la sola dismissione della rampa elicoidale di connessione tra il viadotto (traffico proveniente da Savona) e l’autostrada A7, in direzione Milano.
Sì è insomma deciso di realizzare un’opera con 64 chilometri di nuove autostrade, 24 viadotti, 23 gallerie, che richiederà scavi per 11 milioni di metri cubi e dieci anni di lavori. Attualmente sono in corso la progettazione esecutiva e alcuni opere propedeutiche.
In questo faraonico contesto, il malandato viadotto Polcevera del (forse sprovveduto) ingegner Morandi sarebbe dovuto rimanere al suo posto, con solo una dose di manutenzione straordinaria, benché fosse ben chiaro che l’opera avesse costi di mantenimento sproporzionati e che fosse ormai vicina alla fine del ciclo vitale.
L’Amministratore Delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, in un’intervista a Il Secolo XIX dello scorso 29 maggio (8), alla domanda se il ponte Morandi fosse un malato terminale, rispondeva: «E’ un’opera che richiede continua attenzione e manutenzione. Comprendiamo il disagio, ma crediamo che prima di tutto venga la sicurezza. Alla fine di questo intervento di manutenzione straordinaria, Genova avrà un’opera rinnovata». Per poi precisare che «si tratta del sostanziale potenziamento degli stralli della prima campata, in analogia a quanto fatto nella seconda».
Alcune (non) conclusioni
Sarebbe decisamente prematuro voler trarre un giudizio complessivo sulla tragedia di Genova a così breve distanza dai fatti e con ancora ben pochi elementi informativi a disposizione. Non spettano a noi, peraltro, valutazioni di tipo tecnico né di tipo giudiziario.
Abbiamo voluto ripercorrere alcune vicende storiche per chiarire i contesti e le decisioni politiche che costituiscono gli antefatti di questa bruttissima vicenda.
La privatizzazione, a partire dagli anni Ottanta, delle aziende che costituivano il nocciolo dell’intervento pubblico in economia, raccolte nel gruppo IRI, non ha in alcun modo giovato ai lavoratori e alle lavoratrici, né ai cittadini e alle cittadine, ma solo ai gruppi economici che si sono impossessati di asset fondamentali. Parliamo di Alfa Romeo, Finsider/Ilva, Aeroporti di Roma, Italstrade, Telecom Italia e molte altre. E ovviamente di Autostrade.
Nel settore autostradale, il sistema delle concessioni ai privati ha massimizzato la gestione delle stesse secondo logiche di profitto, riducendo gli interventi manutentivi, aumentando le tariffe all’utenza, producendo faraonici piani d’investimento costantemente disattesi e buoni soltanto ottenere infinite proroghe del termine degli affidamenti.
Le politiche di austerità hanno trasferito enormi quantità della spesa pubblica da finalità sociali e collettive a incentivi diretti e sgravi fiscali per le imprese, nonché al rimborso del debito, e hanno progressivamente svuotato le casse degli enti locali, deputati alla manutenzione di altre parti della rete stradale: ricordiamo il crollo del cavalcavia di una strada provinciale che sovrappassa la statale 36 “del Lago di Como e dello Spluga” il 28 ottobre 2016.
Infine, la politica delle «grandi opere», dal TAV Torino-Lione al Terzo Valico dei Giovi, dalla Pedemontana Lombarda al MOSE di Venezia, ha convogliato una quota sempre più consistente di risorse pubbliche verso realizzazioni faraoniche, raramente giustificate, in grado di soddisfare gli interessi della grandi imprese di costruzioni e delle maggiori società di ingegneria.
Nel caso specifico di Genova, la scelta degli enti locali, dei Ministri dei Trasporti via via succedutisi e, ovviamente, nel proprio interesse, di Autostrade per l’Italia, è stata quella di investire studi e risorse economiche nel progetto della Gronda autostradale. È difficile pensare che questo non abbia alcun rapporto con la sottovalutazione criminale della gravità della situazione del viadotto Polcevera e con le decisioni prese sul futuro del medesimo.

(1) http://www.autostrade.it/documents/10279/4408513/Relazione_finanziaria_semestrale_2018_ASPI.pdf
(2) Condotte Spa ha fatto sparire, dopo il disastro, dal proprio sito web il riferimento a tale opera nel proprio portfolio. Tuttavia, se ne trova ancora traccia a questo indirizzo: http://cc.bingj.com/cache.aspx?q=http%3a%2f%2fwww.condotte.com%2fit%2fopere%2fopere.aspx%3fid%3d17&d=4720269646105387&mkt=it-IT&setlang=it-IT&w=1IzYarSc-plih-TS0MycCLb-t6eTU0CW. Si legge che: « Il viadotto Polcevera rappresenta il primo esempio di ponte strallato in calcestruzzo costruito in Europa. Opera di caratteristiche tecniche ancora oggi attuali, fu realizzata in un contesto urbano, fitto di insediamenti preesistenti».
Fino al 1970 Condotte d’Acqua è stata di proprietà dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede e di Bastogi.
(3) https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_14/ingegnere-che-2016-diceva-il-ponte-morandi-fallimento-dell-ingegneria-deve-essere-sostituito-eafec83c-9fb4-11e8-9437-bcf7bbd7366b.shtml
(4) Gara 200/A10 http://www5.autostrade.it/applica/gare/gareapp.nsf/vwBDESDT/3ADE03ABCBEFAB35C1258282004A763A?opendocument&initPos=3&lang=IT&Lavori
(5) http://www.urbancenter.comune.genova.it/sites/default/files/Gronda_relazione_descrittivadeitracciati.pdf
(6) Comunicato del Coordinamento dei Comitati, 2 marzo 2009: “Noi non siamo ideologicamente contro la Gronda, ma ci battiamo in favore di una mobilità diversa e finalmente sostenibile. (…) Ci rendiamo perfettamente conto che la situazione dei trasporti cittadini non è più accettabile, ma il voler costruire una nuova autostrada in mezzo alle case, devastando un territorio già pesantemente martoriato negli ultimi decenni, anziché risolvere i problemi non farà che aumentarli in maniera esponenziale, con ricadute pesantissime sulle generazioni future”. “…per noi opzione zero significa rifiutare i 5 tracciati proposti perché è fondamentale che si parta da una fotografia della situazione attuale, la si aggiorni con dati e proiezioni derivanti dai progetti già partiti e da quelli definiti o in via di cantierizzazione in ambito urbano, da quelli realizzabili con risorse relativamente modeste”
(7) La CGIL in particolare ritenne l’opera necessaria “… per rispondere puntualmente alle necessità (del territorio genovese), non solo di crescita economica (poiché) (…) rappresenta un positivo contributo sul piano del miglioramento ambientale attraverso il minor impatto del traffico, soprattutto pesante sulla città” https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/02/Gronda-Relazione-conclusiva-della-Commissione.pdf
(8) https://www.grondadigenova.it/wp-content/uploads/2018/05/Articolo-il-Secolo-XIX-29-maggio-2018.pdf

domenica 12 agosto 2018

Cronologia enciclopedica degli anni più belli, difficili e duri

di Fiorenzo Angoscini
Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Nuova edizione aggiornata, Edizioni Bietti, Milano, febbraio 2018, pag. 541, € 17,00
A distanza di cinque anni dalla pubblicazione della prima edizione (marzo 2013) e della sua ristampa (giugno 2013) l’autore ha rimesso mano alla monumentale opera di ricostruzione di fatti ed avvenimenti che hanno contraddistinto il periodo italiano (con alcune appendici internazionali1 ) che va dall’anno 1969 fino al 14 dicembre 2017 (la ‘prima’, e ristampa, si fermavano al 1° marzo 2013, «Roma: nel corso di una rapina in via Carlo Alberto viene ucciso Giorgio Frau». Ex militante di LC e, dal 1984, vicino alle Unità Comuniste Combattenti). Quel giorno «la Commissione Moro convoca una conferenza stampa per commentare la produzione di un elaborato di 300 pagine che si conclude così: “Le attività condotte restituiscono a Moro un grande spessore politico e intellettuale e fanno emergere il suo martirio laico, nel quale si evidenziarono le sue qualità di statista e di cristiano”.
Steccanella, professionista forense, cultore di molte altre discipline che, poi, spesso finalizza in interessanti pubblicazioni, ha già dedicato ricerche, tempo e libri alle sue passioni personali: la musica lirica e rock, lo sport, in particolare al calcio, all’attività ed avvenimenti politici tra i più vari.
Al di la del titolo, che potrebbe far pensare che si sono presi in considerazione solo episodi di ‘lotta armata’, l’antologia, in realtà, tratta e ricorda episodi significativi e drammatici, ma anche di cronaca bianca, che si sono susseguiti nel ‘bel paese’. Infatti, ogni anno-titolo di testatina è accompagnato da informazioni e notizie sui più importanti dischi e film prodotti quell’anno, chi ha vinto l’Oscar per il cinema, quale squadra di calcio si è aggiudicata lo scudetto tricolore (quando si disputano, ogni quattro anni, anche il Campionato Europeo e quello Mondiale, fino al 1970 Coppa Rimet), chi ha trionfato al festival di Sanremo…
Per motivi d’importanza politica e, probabilmente, anche per forza di penetrazione mediatica, la premessa a questa nuova edizione (diversa da quella delle edizioni precedenti) ha come data, ed inizio, l’avvenimento di giovedì 16 marzo 1978: azione di via Fani e sequestro del leader DC Aldo Moro. Così, l’abbiamo già detto, come termina la ricostruzione temporale: con la presentazione della relazione della Commissione di inchiesta sul rapimento e sulla morte dell’esponente democristiano.
Tra questo inizio-fine, non cronologico ma d’importanza assoluta poiché indubbiamente il rapimento del presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana è stata la più eclatante e significativa azione di guerriglia condotta nel periodo considerato, troviamo quello che l’ha preceduto e seguito. Non solo la formazione e il radicarsi di organismi-organizzazioni armate e guerrigliere (Gap di Feltrinelli e sua propaggine genovese: 22 Ottobre; le Brigate Rosse, Prima Linea e tutto l’arcipelago piellino, Azione Rivoluzionaria, le azioni di cellule ed organismi di quartiere, le brigate di qualche fanatico-folle in cerca di celebrità e rapido pentimento) costituite per sferrare l’attacco al cuore dello stato, ma anche stragi nelle banche, nelle piazze, sui binari, nelle stazioni; uccisioni di manifestanti durante cortei e manifestazioni operaie e studentesche, fascisti che accoltellano ed ammazzano militanti politici, tentativi di colpi di stato. Non è solo un calendario di fatti e misfatti. Spesso, a corredo di alcune ‘situazioni’ particolari, Davide Steccanella, ripropone articoli ed interviste di quotidiani e settimanali, stralci di documenti di organizzazioni combattenti, completando l’insieme con sostanziose e complete note ed interessanti rimandi.
E’ un utile calendario di ricostruzione storico-cronologico, ma non è solo un elenco di date e di avvenimenti.
Una preziosa testimonianza, un buon ricordo per tutti gli smemorati passati, presenti e futuri.
Non nutriamo soverchia fiducia e rosee aspettative. Soprattutto da parte di chi ha contribuito, con complicità attiva o passiva a determinare morti e seminare sospetti.
Mentre, con rispetto e vicinanza, pur nelle rispettive diversità, ci riconosciamo in tutti coloro che «Volevano cambiare il mondo: facevano politica».
Peccato soltanto per l’appendice finale, Dialogo con un ‘cattivo maestro’, che merita davvero poche battute e nessun giudizio a causa della superficialità e dell’opportunismo dei giudizi contenuti in un’intervista a Luca Colombo, il cattivo maestro tra i fondatori delle Formazioni Comuniste Combattenti, destinati soltanto a giustificarne le scelte personali e giudiziarie davanti all’intervistatore, Giovanni Sordini.

Federico Gervasoni nel mirino della nuova destra estrema: “Vado avanti col mio lavoro, ma c’è un brutto clima”


Si chiama Federico Gervasoni, è un giovane collega di Brescia che ha scritto un ottimo reportage e uno scoop nazionale sulla rinascita di Avanguardia Nazionale nella sua città. Il reportage è stato pubblicato da La Stampa (questo il link per accedere all’articolo http://www.lastampa.it/2018/07/31/italia/vino-risate-e-saluti-romani-avanguardia-nazionale-rinasce-in-trattoria-PHlQ6uaOBStlBWtvM50NfN/premium.html) , il giornale di cui è collaboratore, il 31 luglio e subito dopo ripreso da altre testate, tra cui Il Giornale di Brescia, Bresciaoggi e La Gazzetta di Mantova. Federico a quell’articolo ci ha lavorato dieci mesi ma ha commesso un errore, ha sottovalutato gli effetti che potevano derivare dall’aver svelato il pericoloso e illegale fenomeno della ricostituzione di organizzazioni di stampo fascista. Peggio: ha lavorato così bene che si è procurato le prove. E tutto questo a partire dal 2 luglio gli è costato una sequela di insulti e minacce pesanti, nei quali, pur non essendo mai stato fatto il nome del cronista, si parla espressamente di “pennivendolo”, “uno con tendenze all’alcol, alla droga, un tossico, suicida”; è stato inoltre postato un coltello con effige del fascio. E ancora: minacce di questo tipo “due pizze te le prendi, garantito!”, “siamo pronti, basta un cenno e agiamo tutti insieme”, “gliele do io”, “ti do una mano”. E ovviamente c’è anche una politica del posto che è citata nei pezzi e che annuncia azioni legali e dice che non si lascerà intimorire da questo “penivendolo”.

“Io vado avanti nel mio lavoro, voglio fare il giornalista e continuerò a farlo, ho 27 anni e faccio questo mestiere da otto. Tutto ciò non mi fa paura ma è ovvio che in una piccola realtà di provincia qual è Brescia questo clima è pesante”, dice Federico Gervasoni.
Poi racconta della solidarietà scattata subito dopo la sua lettera-appello al Presidente della Federazione della Stampa, Giuseppe Giulietti. “Già i colleghi de La Stampa, in particolare Davide Lessi, Gianluca Oddenino e Paolo Colonnello mi avevano manifestato tutta la loro vicinanza, ora ho sentito molti altri colleghi e so di aver fatto un buon lavoro, questo solo conta”.
Come nasce questa inchiesta su Avanguardia Nazionale?
“Circa un anno fa ho letto un pezzo su Repubblica di Paolo Berizzi (autore di NazItalia e a sua volta minacciato più volte da associazioni di estrema destra ndc) sul ritorno di formazioni fasciste e in quel caso di parlava appunto di Brescia. Così mi sono messo a leggere e a indagare e ho scoperto che c’erano queste cene settimanali alle quali partecipano militanti storici del movimento neofascista sciolto nel 1976. Si incontrano ogni giovedì a Brescia e a Roma. Tra loro anche Fadini e Borromeo, arrestati nel ’73 per aver fatto saltare col tritolo la sede del PSI. Cioè pregiudicati e nuove leve. Ho raccolto prove, materiale e inviato tutto al mio giornale che ha pubblicato il pezzo”
Adesso questa storia è al vaglio della Procura di Brescia?
“Sì, ho depositato le prove delle minacce con tutta la documentazione in mio possesso”.
Che clima c’è a Brescia e dintorni? Sappiamo che quella è una città particolare che evoca i peggiori incubi sul piano della lotta politica sporca.
“Da questo punto di vista sono preoccupato. Purtroppo, a Brescia e a Miiano negli ultimi tempi i neofascisti si sono spesso distinti per azioni violente nei confronti di colleghi e non solo. Nel caso degli avanguardisti parliamo di persone che negli anni Settanta hanno avuto ruoli di rilievo nella destra eversiva italiana.
La Federazione Nazionale della Stampa, oltre al cdr de La Stampa, l’Associazione stampa Subalpina e l’Anpi di Brescia hanno espresso solidarietà a Federico Gervasoni, mentre tanti giornalisti da tutta Italia hanno annunciato di voler riprendere e approfondire il suo scoop per tenere accesi i riflettori su quella che appare una pericolosissima deriva di minacce politiche verso la professione dei cronisti, nonché sul fenomeno delle nuove destre estreme. Inoltre è stato confermato che Fnsi e Cnog chiederanno di essere parte civile nell’eventuale processo che si aprirà a carico degli autori delle minacce in danno del cronista, come è accaduto già con i giornalisti minacciati dalle mafie. La dinamica intimidatoria di questa storia è infatti perfettamente sovrapponibile alle modalità di minaccia dei cronisti di giudiziaria dei territori contaminati dalla criminalità organizzata