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sabato 15 dicembre 2018

15 dicembre 1976 la polizia uccide Walter Alasia


Il 16 Settembre 1956 nasce a Sesto San Giovanni Walter Alasia. Nato da padre e madre operai, crebbe nell’ambiente della cultura operaia e comunista di Sesto, dove venne ucciso per mano dei carabinieri il 15 Dicembre 1976, all’età di vent’anni.
Frequentò l’Itis di Sesto per due anni, per poi continuare gli studi in una scuola serale. Diventò poi operaio meccanico alla Farem, dalla quale si licenziò. Lavorò poi in un officina come installatore di apparecchiature telefoniche e infine alla stazione centrale di Milano, come scaricatore di pacchi postali. Iniziò a militare in Lotta Continua, per poi passare alla lotta clandestina nelle Brigate Rosse. Fu probabilmente uno tra gli appartenenti alle BR di cui più si parlò, sia per la sua tragica fine e la sua giovane età, sia per lo straordinario carattere e impegno che genitori, amici e compagni descrissero.
All’alba del 15 dicembre la polizia ha predisposto un’irruzione nell’ appartamento dove abita Walter Alasia.Quest’ultimo viene sorpreso e cercando di sfuggire alla cattura scatena una sparatoria con le forze dell’ordine: il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani muoiono.Saranno ambedue insigniti della Medaglia d’oro al Valor Civile alla Memoria.
Walter Alasia stesso viene ucciso nel cortile della sua abitazione dopo un tentativo di fuga dalla finestra. La colonna milanese delle Brigate Rosse prenderà il suo nome.Morì in casa della madre, che aveva peraltro dato indiretto appoggio alle azioni portate avanti dal figlio, nascondendo armi e documenti.Da subito la sua figura e quella della sua famiglia fu vittima di una campagna mediatica con cui lo si voleva per forza descrivere come un mostro, un assassino. In questa campagna di diffamazione, col quale si cercò di stravolgere, portare al negativo ogni frammento della sua vita, si distinse in maniera particolare Leo Valiani, giornalista del Corriere della Sera, che scrisse un articolo in cui si augurava che venissero identificati ed arrestati tutti i partecipanti al funerale di Walter. A quei funerali però partecipò Sesto San Giovanni, dai giovani agli anziani, dagli operai agli studenti. Questo perché, come dichiarò la sua fidanzata Ivana Cucco, Walter non era figlio di nessuna variabile impazzita. Era figlio del suo tempo e di Sesto San Giovanni, la rossa Sesto […]. Sono gli anni delle grandi lotte operaie, delle stragi di stato, delle rivolte studentesche, del Cile, del Portogallo, dell’antifascismo militante, dei gruppi extraparlamentari, delle occupazioni di case. Tutte esperienze che Walter ha attraversato fino alla scelta e alla militanza nella lotta armata, che era comunque una scelta di vita e non di morte. Una scelta ed un bisogno di liberazione tanto forte e irrinunciabile da arrivare anche a giocarsi la vita.”
Vogliamo ricordarlo riportando delle righe scritte di suo pugno
Non è neanche immergendosi nello studio e nei ‘lavori di casa’ che ti liberi e ti realizzi diversamente. Le cose che si vogliono bisogna prendersele […]. Io sono uno dei tanti che pensano di cambiare qualcosa – e non ritengo di essere un utopista come dice mio padre – quelli che dicono così vogliono nascondere la loro paura e il loro egoismo. Quindi pensa che la tua libertà te la devi costruire – questo l’unico consiglio, anche se troppo generico che posso dare.”

Salvini in visita in Israele: un inchino al sionismo

La visita del ministro è iniziata in maniera assai inusuale. Come prima tappa si è recato al confine con il Libano, direttamente dall’aeroporto di Tel Aviv con un elicottero militare israeliano. Diventa subito l’occasione per scattare alcune foto e video con le forze di occupazione Israeliana, a uso e consumo dei suoi seguaci sul web. In realtà l’agenda del ministro sembra essere più rituale e meno stravagante di quanto riportato dai giornali Italiani: arrivo a Gerusalemme, città di residenza, incontro con il patriarca latino di Gerusalemme, incontro con il ministro dell’Interno Israeliano ed a seguire una conferenza stampa, anche se unilaterale. Poi il muro del pianto, il santo sepolcro e lo Yad Vashem, il memoriale dell’olocausto, l’incontro con il primo ministro Israeliano Benjamin Netanyahu e con il ministro del turismo.

In tanti, tra giornalisti e commentatori, si sono soffermati esclusivamente sulle “gaffe” di Salvini definendolo “inesperto” “incauto” ed “inadatto” rispetto al definire Hezbollah come gruppo terroristico, ci teniamo a ricordare che Hezbollah è un partito Libanese e  che il Libano è ufficialmente ancora in guerra con Israele. D’altronde bisogna dirlo Salvini è sempre bravo a far notizia: questa visita altrimenti, anche sulla stampa nostrana, sarebbe passata inosservata. Bisognerebbe invece chiedersi perché Salvini si sia recato in Israele ed analizzare la sua agenda e le sue dichiarazioni senza piagnistei o peggio isterismi sulla sicurezza dei militari Italiani presenti in Libano.
Il segretario della lega ha fatto una scelta precisa di posizionamento perchè non è andato in visita come “rappresentante del popolo italiano” bensì come capo di un partito politico in forte ascesa in Italia. Inoltre ha preso la decisone forte di non andare nei territori Palestinesi, evitando anche Betlemme, tappa solitamente obbligatoria anche per i più strenui sostenitori del sionismo - ci andò anche Donald Trump.
Salvini ha deciso di schierarsi con Israele e contro il popolo Palestinese per varie ragioni, la prima delle quali è sicuramente quella di dover pagare un tributo ad uno stato neocoloniale occidentale estremamente influente in vista delle elezioni europee, momento cruciale per consolidare la propria posizione di potere.
Questa scelta è stata una mossa, a dire il vero, non troppo originale nel panorama italiano: prima di lui già Renzi (nel settembre 2015) e Fini (nel lontano 2003), tra gli altri, si recarono in Israele per consolidare la propria posizione di leader politici.
Particolarmente significativa è anche la tappa allo Yad Vashem, memoriale dell’olocausto, durante la quale alcuni attivisti Israeliani hanno intitolato una manifestazione contro la visita di Salvini “Yad Vashem lavatrice Israeliana”. Questo santuario per conservare la memoria dei crimini nazisti contro il popolo ebraico infatti ha il potere di lavare i panni sporchi di coloro i quali, più o meno ambiguamente, si accostano a movimenti di estrema destra, razzisti e antisemiti.
Matteo Salvini ha il problema oggi diripulirsi dalle accuse di antisemitismo per le amicizie ambigue di quei “bravi ragazzi” che si definiscono fascisti del terzo millennio. Quale migliore lavatrice allora se non il monumento alla memoria dell’olocausto e la benedizione della nazione ebraica “in terra santa”? D'altronde sappiamo bene che non c’è nessuna contraddizione sostanziale tra estrema destra e sionismo. Infatti come ben sottolinea un articolo di Ramzy Baroud e Romana Rubeo per Aljazeera c’è un forte legame tra l’alt-right Americana, l’estrema destra Europea e il sionismo.

Milano 15 dicembre 1969 – Una finestra aperta in questura… l’omicidio di Pinelli

Terminate le scuole elementari, Giuseppe “Pino” Pinelli dovette andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere. L”inizio della sua militanza politica risale al periodo della Resistenza: fu giovane staffetta partigiana.
Il 12 dicembre 1969 a Milano nella sede della banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, alle 16,37, scoppiò una bomba che causò la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Nella stessa ora a Roma scoppiarono altre bombe. Infine, nella banca Commerciale di Milano venne trovata una borsa contenente una bomba che venne fatta esplodere in tutta fretta, eliminando una prova preziosa per le indagini.
Immediatamente, a dimostrazione di un disegno già preordinato, le indagini, pur senza alcun indizio, seguirono la pista anarchica. Il commissario Luigi Calabresi, già alle 19,30 (3 ore dopo la strage), fermò alcuni anarchici davanti al circolo di via Scaldasole.
Nella notte del 12/12/1969 vennero illegalmente fermate circa 84 persone, tra cui Giuseppe Pinelli.
La sera del 15, dopo 3 giorni di continui interrogatori, Giuseppe Pinelli morì volando dal 4° piano della questura.
Subito la polizia, per bocca del questore Marcello Guida (nel 1942 uomo di fiducia di Benito Mussolini e direttore del confino politico di Ventotene), comunicò che Pinelli si era buttato di sotto perchè “l’alibi era crollato”.
Qualche giorno dopo si scoprì che a mezzanotte meno due secondi (2 minuti prima della caduta di Pinelli) venne chiamata un’autoambulanza. Inoltre, la stanza dell’interrogatorio, larga 3,56×4,40 metri e contenente vari armadi e scrivania e la presenza di 6 persone, rendeva impossibile uno scatto di Pinelli verso la finestra. La stranezza fu che la finestra fosse aperta, trattandosi di dicembre e di notte. Pinelli cadde scivolando lungo i cornicioni. Non si dette quindi nessuno slancio; cadde senza un grido e senza portare le mani a protezione della testa, come se fosse già inanimato.
Tutti questi elementi raccolti in una controinchiesta portata avanti dai compagni e dalle compagne portarono poi alla luce la verità, e cioè che Pinelli fu assasinato.
Noi accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice fascista. Accusiamo il questore e i dirigenti della polizia di Milano di aver dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che “era caduto”. Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver redatto alcun verbale edi interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale verbale che venisse in seguito tirato fuori è da considerarsi falso. Accusiamo la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l’inchiesta si svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli avvocati della difesa.”

martedì 11 dicembre 2018

I detenuti che muoiono

Contributo dei membri dell’associazione Yairaiha della sezione As1 di Voghera
Quella che stiamo per raccontarvi è la storia di Peppe, detenuto ergastolano da circa trent’anni. La sua storia non è unica ma piuttosto rappresentativa di tanti come lui, sparsi per le molteplici sezioni di “Alta Sicurezza” nelle patrie galere della nostra bella Italia.
Peppe è un sessantenne che ha trascorso metà della sua vita in carcere. Finito dentro per reati di criminalità organizzata per i quali i giudici, ritenutolo colpevole, lo hanno condannato al carcere a vita senza possibilità di benefici.
L’ho incontrato per la prima volta circa 15 anni fa nel carcere di Voghera. Ero stato trasferito qui perché giorni prima avevo ottenuto la revoca del 41bis, il cosiddetto “carcere duro”. Peppe era giunto a Voghera circa un paio di anni prima di me e si era ambientato ed adattato discretamente, come ebbi a notare fin da subito.
Cordialissimo, fu il primo detenuto ad accogliermi in sezione facendomi sentire a mio agio ed attenuando, non di poco, tutti i disagi dovuti al cambiamento sia del carcere che delle persone nuove che bisogna imparare a conoscere ma, soprattutto,  rendendomi meno duro l’impatto drastico conseguente al passaggio da una situazione di totale isolamento ad una di maggiore apertura che, se non vissuta con moderata adesione si rischia il disorientamento.
La prima impressione che ebbi di Peppe fu quella di un uomo energico, atletico e per nulla abbattuto dai circa 15 anni di carcere fino ad allora scontati. Notai successivamente che frequentava regolarmente la palestra e quasi tutti i giorni faceva la corsetta ai passeggi del carcere. Si manteneva in forma per intenderci.
Ricordo il suo viso rubicondo, incorniciato da una barba nera spruzzata qua e la da qualche tonalità di grigio che cominciava ad incedere. Insomma, per farla breve, Peppe era allora un uomo che, come è solito dirsi, sprizzava salute da tutti i pori. Trascorso poco più di un anno dal mio arrivo a Voghera, fui trasferito in un altro carcere e questo determinò l’ovvia conseguenza di perdere di vista Giuseppe.
Passarono molti anni da allora e, per una strana coincidenza del destino, mi ritrovai di nuovo qua, nella stessa sezione da cui ero partito anni prima. E chi ritrovo? Peppe! Molte cose erano cambiate da allora però. Per prima cosa stentai parecchio a riconoscere nella figura che ora avevo davanti quella di Peppe: non era possibile, dissi fra me e me, che quella era la stessa persona conosciuta anni prima. Innanzi a me avevo, ormai, l’immagine di Peppe sbiadita. È stato come ritornare su un luogo dopo tempo e rivedere un vecchio manifesto affisso alla parete di cui a mala a pena si riesce a distinguere i contorni dell’immagine ritratta.
Il viso, ora pallido, portava i segni di un certo patimento che non sarebbero sfuggiti neanche ad un occhio poco esperto. La barba, ora bianchissima e non più curata come un tempo, conservava soltanto qualche residua ed impercettibile macchiolina di pepe. I pochi capelli rimasti, bianchi e radi, come radi erano ormai i denti, incorniciavano il corpo esile che un tempo fu energico e vitale.
Ma ciò che mi scosse profondamente fu notare il leggero e continuo tremolio delle sue braccia e il balbettio che accompagnava i suoi discorsi. Dapprima non ebbi il coraggio di chiedergli il perché sia per pudore che per discrezione. Lascia che fosse lui a parlarmene quando ne avrebbe avuto voglia di farlo. Lo fece quasi subito: gli avevano diagnosticato il morbo di Parkinson. Era ancora nella fase iniziale (così gli avevano detto i medici) e la buona cura che gli avevano prescritto avrebbe rallentato la degenerazione della patologia che, come sappiamo, è questa una delle sue caratteristiche.  Oggi lo stadio della sua malattia è molto degenerato tanto che ha serie difficoltà nella deambulazione, nell’uso della parola e delle mani. Ormai al limite dell’autosufficienza al punto che gli è stato assegnato un “piantone”, ovvero un altro detenuto che con regolare mansione lavorativa, lo affianca per le quotidiane esigenze inerenti l’igiene e l’alimentazione.
Peppe, oltre alle cure mediche e del corpo, avrebbe bisogno di un’altra cura, altrettanto importante e fondamentale: la cura dell’anima e dello spirito che solo le persone a lui care sarebbero in grado di assicurargli. Ma, a causa delle disastrose condizioni economiche, non vede la moglie e i figli da diversi anni. L’unica fonte di reddito che fino a qualche anno fa assicurava una sopravvivenza accettabile alla sua famiglia era il lavoro della figlia, ora disoccupata. Riescono a malapena a vivere grazie alla pensione dell’anziana madre, provvidenziale ammortizzatore sociale, in questa società dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Peppe ha già scontato una congrua pena, non sarebbe il caso di valutare un graduale rilascio per consentirgli di curarsi meglio e circondato dall’affetto dei suoi familiari? Il diritto alla salute è garantito (dovrebbe) dalla nostra costituzione. Ma siamo certi che in questo caso, come in tanti altri, sia rispettato? O bisogna ancora perseverare nella cinica ed ipocrita linea, adottata da diverso tempo ormai, secondo la quale i detenuti malati, spesso terminali, vengono rilasciati pochi mesi, se non giorni, prima del decesso.
L’amara riflessione che ci suscita questa dolente storia è che, purtroppo, Peppe non si chiama Dell’Utri e non ha al suo fianco uno stuolo di valenti e combattivi avvocati pronti a battersi, giustamente, per il proprio assistito. Speriamo solo che Peppe non vada ad allungare la lunga lista dei decessi in carcere o quelli che avvengono a pochi giorni dal rilascio, sarebbe una ulteriore sconfitta dello stato di diritto ma, ancor di più del senso di Humanitas che, purtroppo, pare passare sempre più in secondo piano rispetto al continuo sventolio della bandiera dell’esigenza della sicurezza.
A chi potrebbe nuocere un uomo affetto da morbo di Parkinson in stato avanzato?
Di seguito potrete leggere una lista parziale dei detenuti deceduti a poco tempo di distanza dalla scarcerazione o sospensione della pena:
  • Giuseppe Caso, ergastolano, 24 anni di carcere. Ultimo carcere Catanzaro. Pena sospesa e morto in ospedale dopo pochi giorni;
  • Franco Morabito, ergastolano, morto di tumore a 48 anni, con tutti gli organi in metastasi, nell’ospedale di Voghera a distanza di un mese dalla sospensione della pena. In carcere veniva curato per coliche renali;
  • Luigi Venosa, ergastolano, morto per cancro dopo 27 anni di carcere. Pena sospesa il giorno prima del decesso;
  • Giuseppe Vetro, ergastolano ricorrente, detenuto in regime di 41 bis. In carcere dal 2000, deceduto nel 2008 presso la sezione clinica/detentiva di Milano Opera a causa di un carcinoma in fase terminale (speranze di vita prossime all’1%). il tumore gli venne diagnosticato trenta giorni prima di morire, non gli venne concessa la sospensione della pena ne di essere assistito o nemmeno salutato dai propri familiari. Questi ultimi vennero informati dell’avvenuto decesso due giorni dopo;
  • Antonio Verde, era detenuto nel carcere di Catanzaro, tumore al pancreas trascurato e diagnosticato tardivamente. Morì dopo quattro mesi dalla sospensione della pena.
  • Giovanni Pollari, morte istantanea dopo circa 20 anni di carcere;
  • Michele Rotella, detenuto nel carcere di Catanzaro e morto in ospedale, da detenuto, per Clostidrium difficilis. Aveva perso oltre 20 kg al momento del ricovero in ospedale. Morì dopo poche ore dal ricovero. I familiari seppero della morte recandosi a colloquio.
  • Sebastiano Sciuto, ergastolano, morto per cancro dopo 27 anni di carcere. Pena sospesa 9 giorni prima del decesso;
  • Sebastiano Rampulla, morto dopo pochi giorni dalla sospensione della pena;
  • Gaspare Raia, ottantenne ergastolano, morto nel 2017 dopo più di 25 anni di carcere. Tumore in fase avanzata, arresti domiciliari concessi pochi giorni prima della morte;
  • Cosimo Caglioti, di anni 30, un’incompatibilità carceraria diagnosticata e sottovalutata, le cure approssimative, i soccorsi che non arrivano, il defribillatore chiuso a chiave. Muore a soli 30 anni nel carcere di Secondigliano.
  • Salvatore Veneziano, arrestato nel 1993, morto nel novembre del 1997 per AIDS (contagiato in carcere). Ad agosto era uscito dal carcere di Spoleto dove era stato sottoposto al regime di 41 bis. Scontava una pena di 8 anni;
  • Salvatore Bottaro, ergastolano detenuto dal 1990, affetto da cancro al pancreas, pena sospesa nel 2004. Apprese dai medici che gli rimanevano 6 mesi di vita, si suicidò;
  • Salvatore Profeta, morto in ospedale ai primi di settembre dopo 10 giorni di ricovero. Detenuto ingiustamente per 18 anni in 41bis con l’accusa, da parte di un falso pentito, di essere tra gli esecutori della strage di via D’Amelio, venne scagionato, rilasciato nel 2015 e arrestato nuovamente nel 2016, sempre sulla base di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia. Al momento della morte era detenuto presso il carcere di Tolmezzo con una condanna non definitiva ad 8 anni. Il questore di Palermo ha vietato il funerale pubblico. Un dispositivo questo di negare il funerale in chiesa ormai consolidato negli anni.
L’elenco sarebbe ancora lunghissimo e, pertanto, ci siamo limitati a riportare solo alcuni fra i tanti di morte per pena in carcere. La maggior parte della popolazione condannata alla pena dell’ergastolo ostativo o ad una pena trentennale ha una età che supera i 70/80 anni, gran parte è sottoposta al regime di 41bis con tutte le restrizioni che  vanno ad impedire una precoce diagnosi e, quando questa avviene, ormai le possibilità di intervento sono ridotte al minimo. Chiudiamo ribadendo quanto detto all’inizio: il diritto alla salute dovrebbe essere garantito a tutte le persone per Costituzione e le recenti sentenze della Corte europea sono state chiarissime anche per quanto riguarda i detenuti in 41 bis, ma in Italia si preferisce pagare le penali piuttosto che attuare lo stato di diritto. Il prossimo 10 dicembre, 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti Umani, digiuneremo per l’abolizione dell’ergastolo e per il rispetto di tutti i Diritti Umani violati.
I membri dell’associazione Yairaiha del circuito AS1 di Voghera    

martedì 20 novembre 2018

Italia: 828 “reati di odio” nel 2017 secondo Osce/Odihr

Casa originale dell'articolo Cronache di ordinario razzismo http://www.cronachediordinariorazzismo.org/italia-828-reati-di-odio-nel-2017-secondo-osce-odihr/
Il 16 novembre, in occasione della Giornata Internazionale della tolleranza, dichiarata dall’UNESCO nel 1995 per ricordare i principi ispiratori della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, OSCE/ODIHR ha reso pubblici i dati del 2017 sui cosiddetti reati d’odio, noti anche come “hate crimes” in 39 paesi del mondo, compresa l’Italia (come riportato nella guida dell’OSCE “Perseguire Giudizialmente i Crimini d’Odio”, pubblicata nel 2016, “il pregiudizio verso un gruppo, la motivazione basata sul pregiudizio, ovvero la bias motivation, è l’elemento che contraddistingue i reati ispirati dall’odio dagli altri reati e li rende un fenomeno che desta particolare preoccupazione per le autorità nazionali e le Organizzazioni Internazionali). Di questi, 34 i paesi che hanno fornito delle statistiche ufficiali, mentre 23 quelli che hanno fornito dati delle forze dell’ordine, disaggregati in base alle motivazioni del crimine.
Queste cifre ufficiali sono integrate e completate, poi, dalle relazioni prodotte da 124 gruppi della società civile (includendo fra questi, oltre alle numerose associazioni anche le informazioni prodotte dalla Santa Sede, dall’UNHCR, dall’IOM e dalle missioni OSCE), che coprono 47 Stati partecipanti.
I dati sugli incidenti riportati e raccolti da tutte queste fonti possono essere cercati, filtrati e scaricati in modo completo sul sito dell’ODIHR per paese, per motivazione di pregiudizio e per tipo di incidente.
In Italia, nel 2017, i reati di odio comunicati a Odihr dalle Forze dell’ordine sono 1048 (in costante aumento dal 2013 in poi, in particolare con una variazione accentuata proprio fra il 2016 e il 2017), dei quali ben 828 (quasi raddoppiati rispetto al 2016) sono quelli che hanno alla base un movente razzista e xenofobo (79% sul totale dei casi riportati). A questi si aggiungono i 96 incidenti di matrice razzista segnalati dalla società civile.
Tra i reati di matrice razzista, destano una particolare preoccupazione i casi di l’incitamento all’odio (ben 337 casi riportati in Italia nel 2017) e le violenze fisiche (117 i casi rilevati).
ODIHR ricorda che i dati relativi ai reati d’odio in Italia, raccolti dalle autorità preposte in applicazione della legge e dal Ministero dell’Interno, non sono disponibili pubblicamente e non sono facilmente accessibili. Inoltre, osserva che l’Italia non ha riferito (come numerosi altri stati EU, fra i quali Francia e Germania) il numero di procedimenti giudiziari e di informazioni sui casi di reato di odio già condannati. Fa eccezione il Regno Unito, che con puntualità e precisione riporta anche il numero di procedimenti e sentenze (su 95552 casi riportati dalle forze dell’ordine, 14535 sono i reati perseguiti sul piano giudiziario e 11987 si sono conclusi con una sentenza).
La sottostima del fenomeno razzista, tuttavia, come anche noi abbiamo spesso sottolineato, è la lente attraverso la quale leggere questi dati. Innanzitutto, molte vittime non si fanno avanti per denunciare i reati d’odio, per una serie di motivi, che vanno dalle barriere linguistiche alla sfiducia nelle autorità o per paura di ulteriori aggressioni e violenze. In secondo luogo, i dati indicano che non tutti gli incidenti segnalati alle autorità sono riconosciuti come potenziali reati di odio razzista, o registrati e trattati come tali. Infine, è spesso difficile rintracciare e seguire i casi di reati di odio in tutte le fasi, dalla denuncia alla condanna, a causa di diverse procedure di registrazione o classificazione (ad esempio, le forze di polizia possono utilizzare definizioni diverse rispetto ai pubblici ministeri).
Per aiutare tutti gli Stati europei a cogliere meglio queste difficoltà, l’ODIHR ha pubblicato anche una metodologia (ad integrazione del programma INFAHCT – Information Against Hate Crimes Toolkit) su come condurre indagini sulla “vittimizzazione”, che possono aiutare a mappare il livello dei differenti reati di odio non dichiarati e le esperienze dirette che le vittime hanno avuto con organismi di giustizia quando sono riusciti a sporgere denuncia.

A Milano il 1° dicembre manifestazione regionale contro i CPR e il DL Salvini

Sabato 1° dicembre manifestiamo contro la chiusura del centro di accoglienza di via Corelli, che lascia sulla strada i suoi abitanti e senza lavoro i suoi operatori, e la minaccia di trasformarlo nuovamente in un centro di detenzione per migranti.
Punire col carcere una persona non per le azioni che ha commesso, ma per una condizione che non ha scelto come la nazionalità, è un orrore giuridico che distrugge i principi di eguaglianza davanti alla legge e di responsabilità personale; eppure da quando nel 1998 la legge Turco-Napolitano introdusse per la prima volta la detenzione amministrativa, cioè non conseguente a fatti penali, questo orrore è realtà anche nel nostro paese.
Vent’anni dopo, è doveroso chiedersi che frutti ha portato la scelta di una politica di chiusura, basata sulla finzione della gestione dei flussi migratori e il controllo poliziesco delle persone migranti: ha davvero messo sotto controllo le migrazioni? Aumentato il benessere degli e delle abitanti di questo paese? Reso più giusta e salda la costruzione europea? Fermato la minaccia del terrorismo o l’emergere del razzismo?
Sono stati invece vent’anni di trattamenti inumani e degradanti. Questo lo attestano anche le due condanne della Corte Europea per i Diritti Umani e la recentissima denuncia del garante per i detenuti, nonché le rivolte e i gesti di protesta spesso estremi, come ad esempio le bocche cucite col fil di ferro al CIE di Roma.
Purtroppo l’indignazione pubblica non ha avuto come conseguenza dei reali cambiamenti. È ora di affrontare la realtà: questa politica di gestione dell’immigrazione, perseguita a livello italiano ed europeo da governi di diverso colore politico con ostinata miopia, è stata un totale fallimento.

In questo senso riteniamo che gli ex CIE, ribattezzati dallo scorso governo CPR, siano la punta dell’iceberg di un insieme di leggi liberticide che si sono dimostrate un totale fallimento da qualsiasi prospettiva le si voglia affrontare. Il recente decreto Salvini si pone in continuità con quanto compiuto negli scorsi vent’anni, alimentando il circuito negativo che relega oggi centinaia di migliaia di persone al di fuori di uno stato di diritto, precarizzando ulteriormente la vita di chi è immigrato in Italia con quella che di fatto è la negazione di diritti che dovrebbero essere garantiti dalla costituzione a tutti coloro che vivono in Italia.

Per riaprire una via verso un futuro di pace e benessere per il nostro paese e per l’Europa intera non c’è altra via che ribaltare il piano di discussione pubblica attorno alle migrazioni, che tra talk show televisivi, social network e una sfrontata retorica xenofoba e razzista di molti leader politici italiani ed europei ha creato il mostro che oggi ci ritroviamo ad affrontare. Quello che sta accadendo sulla pelle degli immigrati oggi non è nient’altro che un trampolino di lancio per quello che un domani potrà essere applicato a tutti e tutte.
Cambiamo questo approccio ora, partendo dall’apice di tutte le contraddizioni, impedendo che queste carceri per innocenti vengano riaperte e facendo chiudere quelle esistenti. L’indignazione non basta più: il 1° dicembre invitiamo tutte le associazioni, i cittadini, i comitati, i collettivi, i sindacati e i partiti a partecipare a una grande manifestazione che, partendo da piazza Piola, termini di fronte a quello che vogliono trasformare in Lager.
#maipiùlager #nocpr #refugeeswelcome #nooneisillegal #pontinonmuri #restiamoumani

lunedì 22 ottobre 2018

E’ sposato con una italiana, il giudice lo dichiara inespellibile ma finisce lo stesso in un centro espulsioni. L’incredibile vicenda di Diego Ndoudi

Capita anche questo. Va in questura a ritirare il permesso di soggiorno, la polizia lo "impacchetta" e lo spedisce in un centro espulsioni. E pazienza se è sposato con una donna italiana ed è stato dichiarato inespellibile dal giudice. E’ successo lo scorso giugno ad un cittadino congolese, Diego Dieumerci Ndoudi. La moglie ha contattato la redazione di Melting Pot ma ci ha chiesto di mantenere il silenzio sino a che il marito non fosse uscito dal centro, per evitargli guai peggiori. Oggi, Diego, è stato finalmente rimesso in libertà. E’ tornato dalla moglie, ci ha lasciato una intervista video e possiamo raccontare la sua vicenda.
E partiamo da quel giorno in questura quando, invece di vedersi consegnare il permesso di soggiorno, si trova chiuso in una stanza, pronto per essere spedito nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Potenza. La moglie, toscana di Grosseto, viene avvisata con un sms e corre in questura solo per scoprire che non può neppure avvicinarsi al marito.
"Il giudice ha detto che non può essere espulso, mica che ha diritto al permesso di soggiorno", le dice un poliziotto. Va in scena insomma, il solito teatrino del poliziotto buono e poliziotto cattivo.
"Sì, te lo portiamo al centro di espulsione di Potenza, ma vedrai che te lo rimandano a casa in un paio di giorni. Stai tranquilla" la tranquillizza il primo. "Gente così deve tornarsene a casa sua. Vi va bene che tu sei sua moglie e soltanto per questo gli abbiamo concesso il permesso di mandarti un sms e non lo abbiamo imbarcato immediatamente a Fiumicino - le dice il secondo, che puntualizza - Della sentenza del giudice, a noi, non ce ne frega nulla".
Dieumerci Ndoudi ha 28 anni. E’ congolese e lo chiamano tutti Diego perché il padre è un tifoso di Maradona. Nel 2010 è convolato a nozze con una ragazza toscana che che lavorava in un progetto di cooperazione sociale locale in Congo. Finito il periodo di lavoro all’estero, la moglie è tornata in Italia e Diego è andato con lei. Ma il loro, più che un matrimonio, è una odissea barcamenata tra soprusi e assurdità burocratiche.
La moglie ce l’ha raccontata quando Diego era ancora rinchiuso nel centro espulsioni di Potenza. Comunicavano con un cellulare del quale doveva gestire con parsimonia la carica, in quanto non gli era concesso di collegarlo ad una presa di corrente. Un cellulare con la telecamera rotta. "Pare che sia la prassi, altrimenti la polizia non potrebbe riconsegnare il telefono ai migranti. Non è consentito scattare foto delle strutture" ci ha spiegato la moglie quando ci ha chiesto di allertare la rete di legale di LasciateCIEntrare.
Come sia potuto succedere che un cittadino straniero regolarmente sposato con una italiana, possa essere espulso, ce lo ha spiegato così: "All’inizio del nostro matrimonio tutto era filato alla perfezione. Diego aveva imparato l’italiano, preso la patente e anche trovato lavoro come operaio nel settore degli infissi. Lui, nel suo Paese, lavorava il legno. Era uno scultore. Poi l’azienda è andata in crisi e lui è rimasto a casa. Ha avuto dei problemi con la giustizia: in questo periodo, si è preso qualche denuncia perché ogni volta che i carabinieri lo fermavano per un controllo, lui reagiva".
In questo periodo accade poi un episodio fondamentale. Una signora viene scippata da due neri e la polizia ferma Diego che era nelle vicinanze. La signora lo scagiona subito, spiegando che non era lui uno dei due ladri, ma Diego viene ugualmente portato in caserma per accertamenti. Ammanettato mani e piedi le prende di santa ragione.
"Ne esce con otto punti di sutura alla testa e una denuncia per resistenza - racconta la moglie -. L’accusa di scippo cade subito perché tutti i testimoni concordano nell’affermare che non era stato lui. La stessa signora scippata lo scagiona. Ma gli rimane comunque una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. Diego era su una bicicletta senza lucchetto e non voleva abbandonarla per seguire in questura i poliziotti".
Così Diego Dieumerci Ndoudi va a processo e, come recidivo, si becca 4 anni "esemplari" tra carcere e comunità.
"Pensavamo che fosse tutto a posto ed invece è cominciato il calvario". Diego va su e giù decine di volte per gli uffici della questura di Grosseto a chiedere quello che è solo un suo diritto: restare a vivere nel Paese della moglie. Ed invece ogni volta il personale dell’ufficio tira fuori una novità: prima deve avere un avvocato, poi torna con l’avvocato e non lo ricevono. Ad un certo punto lo mandano dai sindacati, non si è capito a far cosa. In un giorno solo lo fanno tornare ben cinque volte, sempre per una carta che manca. Lo mandano anche a Roma, alla sua ambasciata, a farsi rinnovare il passaporto. La cosa va avanti per mesi. Alla fine gli dicono che è tutto a posto, che gli daranno il permesso di soggiorno, e che torni domani (venerdì 15 giugno ndr.) alle ore 9 che gli consegneranno le carte. Lui ci va e lo tengono, senza dirgli nulla, sino alle tre del pomeriggio, quando improvvisamente gli sequestrano cellulare e documenti e gli dicono che sarà immediatamente portato al centro espulsioni di Potenza per essere successivamente rispedito in Congo. Diego credeva che stessero preparando il suo permesso di soggiorno ed invece stavano scrivendo il decreto di espulsione.
Solo, alla sera, mentre lo portano al pronto soccorso per la visita di prassi, la polizia gli consente di mandare un sms alla moglie che lo raggiunge là con l’avvocato. "Non me lo hanno fatto neppure vedere, mio marito. I poliziotti ci hanno dato risposte assurde e il nostro avvocato è rimasto scioccato di fronte a tanta arroganza. Una sentenza del giudice non vale dunque più niente? E come possono arrogarsi il diritto di separare una famiglia? Ho potuto vederlo solo all’uscita, mio marito, mentre lo caricavano nella volante. Ho fatto appena in tempo a porgergli un panino perché neppure da mangiare gli hanno dato".
Oggi, quattro mesi dopo, possiamo scrivere che la vicenda è finita bene. Diego è stato liberato ed è potuto tornare dalla sua compagna. Non tutto però è risolto, c’è ancora un ricorso in Cassazione depositato perché la Questura ancora non rilascia il permesso di soggiorno. Diego sta anche avviando una attività come falegname ed artigiano del legno nella sua Grosseto. Ma dentro, gli rimangono ancora le ferite dei tanti soprusi subiti e una domanda che non ha trovato risposta. Perché tutto questo?

Diamo la cittadinanza onoraria a Domenico Lucano per una Riace in ogni città

«Un invito alle Amministrazioni comunali ad avviare la procedura per il conferimento della cittadinanza onoraria di Domenico Lucano, sindaco di Riace e simbolo dell’esperienza-modello di Riace“.
E’ questa la proposta che Re.Co.Sol – la Rete dei Comuni Solidali – e “Io Sto con Riace” promuovono per rispondere con la solidarietà e degli atti concreti al divieto di dimora imposto a Lucano, un militante di base e poi sindaco che durante la sua vita «ha dimostrato come le migrazioni se gestite nel modo corretto possano essere una risorsa per il rilancio e la rinascita delle comunità locali».
Dalla pagina Facebook di “Io sto con Riace” si legge:
«Il 6 Ottobre è stata una giornata storica per Riace e per l’Italia: 10.000 persone erano fianco a fianco per sostenere Domenico Lucano e quel suo modello politico che ha rigenerato anziché desertificare, unire invece che dividere, far nascere invece che far morire, reso pubblico e comune anziché privatizzare.
Si pensava che i domiciliari fossero un colpo troppo forte per un Sindaco che non si è arricchito con l’accoglienza, non ha rubato, non ha avvantaggiato propri familiari per costruire un sistema personalistico, non ha mai usato il Potere per se stesso.
E invece no.
Il divieto di dimora è stato il corpo inferto più grande, più umiliante per chi ha agito per 20 anni col solo scopo di far rinascere la propria città ormai pronta a scomparire come quelle centinaia di piccoli comuni sfaldati da emigrazioni e assenza di lavoro. »
«Per questi motivi – continua la proposta – si è pensato di legare assieme la difesa di Riace con la necessità di far esportare i principi del modello in ogni città e riconoscere il lavoro svolto da primo cittadino di Mimmo Lucano.
Per queste ragioni Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali​ ha lanciato una proposta molto importante: dare la cittadinanza onoraria a Domenico Lucano.»
E’ possibile scaricare il testo di riferimento che tutti i consiglieri comunali, Sindaci dei quasi 300 sindaci aderenti alla Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali, e non solo, possono utilizzare e proporre nel proprio Consiglio Comunale.

Firenze, 26 ottobre: manifestazione per lo Sciopero Generale


Il 26 ottobre si terrà un importante sciopero nazionale di tutte le categorie pubbliche e private, contro bassi salari, ritmi e carichi di lavoro sempre più elevati, l’aumento di precarietà contrattuale, disoccupazione e sottoccupazione, l’innalzamento dell’età pensionabile, lo smantellamento della sanità pubblica, contro privatizzazioni, appalti e delocalizzazioni, la strage di morti sul lavoro e contro le politiche razziste del governo che umiliano i diritti di uomini e donne, nostri compagni di lavoro.

Anche in Toscana lo sciopero sarà organizzato da Cub, Usi, Sgb, Sicobas e partecipato a livello nazionale da svariate realtà di lotta in molti settori e territori.
Basta disoccupazione; basta politica dei sacrifici, chiesta dai sindacati confederali, che abbatte i salari e distrugge i servizi con il welfare aziendale e che serve solo ad arricchire i padroni.

È ora di tornare protagonisti come lavoratori e come studenti battendosi contro la scuola dei padroni e difendendo i nostri interessi e non le poltrone dei dirigenti sindacali.
• Per aumenti veri di salari e pensioni
• Per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e lavorare meno per lavorare tutti!
• Per ridurre fortemente l’età pensionabile e abolire la Legge Fornero, abolire il Jobs act e ripristinare l’articolo 18
• Per eliminare l’alternanza scuola/lavoro e qualsiasi tipo di lavoro precario
• Per i diritti universali alla salute, alla casa, alla scuola, alla mobilità pubblica
• Per l’abolizione di spese militari e missioni all’estero
• Per la tutela dei territori contro le grandi opere inutili, dannose e costose
• Per il diritto di sciopero e le libertà sindacali
• Contro l’aumento dei prezzi di luce, gas, acqua, carburante, e spese istruzione
• Contro la repressione nei luoghi di lavoro, nei quartieri, a scuola
• Contro il decreto razzista voluto da Salvini, per abolire le leggi Bossi/Fini e Minniti/Orlando

Uniti si può, uniti si vince!

Contatti:
cub-trasporti@libero.it; usisanita.careggi@gmail.com

L'estrema destra sta conquistando anche la Svezia

di Mattia Gallo
https://www.globalproject.info/it/mondi/lestrema-destra-sta-conquistando-anche-la-svezia/21677
L’affermazione del partito di destra dei Democratici Svedesi, durante la recente tornata elettorale nel paese scandinavo, s’iscrive in un trend europeo di affermazione sociale ed elettorale dei partiti di destra in tutta Europa. Allo stesso tempo, nel paese del Welfare State e dei diritti civili avanzati, quest’ascesa politica assume delle specificità. Di seguito un’intervista a Petter Nilsson, attivista politico di sinistra svedese che vive a Stoccolma e membro del Center for Marxist Social Studies (Centro di studi sociali marxisti) situato proprio nella capitale svedese. Lavora inoltre per il Left party a Stoccolma. Ha scritto doversi articolo sul magazine Jacobin sulla situazione politica svedese.
Quali sono le cause principali che hanno portato all’emergere di un partito xenofobo di destra in Svezia come I Democratici Svedesi, addirittura vicini a diventare il partito guida della nazione? Quali settori della società hanno espresso il loro consenso nei loro confronti?
La principale forza motrice dell'ascesa dei Democratici Svedesi è una questione molto discussa nel dibattito pubblico in Svezia e si articola approssimativamente in due posizioni principali: o l'attenzione è rivolta alla classe e all'economia in cui la crescita di tale formazione politica è spiegata dall’aumento delle differenze di classe in Svezia che ha portato a una classe lavoratrice scontenta, o l'attenzione è rivolta alla "cultura" e la spiegazione è che un piccolo paese abbastanza omogeneo ha avuto alti livelli di immigrazione non europea che - in concomitanza con questa tendenza nel resto d'Europa - ha attivato un razzismo latente.
Io penso che la verità sia in mezzo.
Il declino del robusto stato sociale e la relativa decrescita di certi settori della classe operaia, insieme a una svolta centrista dal movimento operaio tradizionale nei Socialdemocratici e nei Sindacati, hanno sviluppato una base sociale conscia dell’immiserimento della propria condizione di vita. A questo va aggiunto che negli ultimi anni non ci sono stati grandi interventi da parte del Governo per quanto riguarda la politica economica e come abbiamo visto anche in altri paesi d’Europa, il capro espiatorio per l’impoverimento della popolazione è diventato l’immigrazione. Quindi sì, ci sono persone in Svezia che sono razziste e che lo sono state a lungo - ma in precedenza questi sentimenti non erano stati organizzati politicamente e inoltre gli elettori ritenevano che i principali conflitti politici riguardassero l'occupazione, l'istruzione e la sanità - non l'immigrazione. Quindi, quando la dimensione della classe non è organizzata, apre la porta al populismo di destra, che viene poi codificato nella forma dei conflitti culturali.
Ci sono due importanti movimenti elettorali per i Democratici Svedesi; il primo 5-8% proveniva da settori economicamente più benestanti e si concentrava in aree con tradizioni di xenofobia e partiti populisti di destra locale. Mentre nel secondo caso va considerato che negli ultimi quattro anni hanno anche preso una parte più ampia dei voti tradizionali della classe operaia dalla Confederazione Sindacale (LO) e dalle aree in cui i partiti populisti di destra non avevano fatto progressi prima. Al momento non c'è quindi un elettore tipico, anche se c'è una grande sovra presentazione di maschi e un grado inferiore di persone con solo l'istruzione primaria o secondaria.
Il partito dei Democratici Svedesi è un partito di centro – destra con posizioni rigide sulla questione dei migranti, o è un partito di destra vero e proprio?
Nel complesso, i Democratici Svedesi sono un classico partito di destra con un'agenda che include l'abbassamento delle tasse, la deregolamentazione dei diritti dei lavoratori, il sostegno al mercato e così via. Ma la principale forza trainante del partito, che è anche l'unico problema cui tengono davvero, è l'anti-immigrazione. Ciò significa che a volte possono collocarsi in qualsiasi area politica per alcune scelte politiche, specie se sembra dare loro guadagni a breve termine, a volte semplicemente perché in realtà non hanno nessuna visione politica al di fuori della questione immigrazione.
La Svezia è vista ancora oggi da molti intorno al mondo come un modello di Welfare State. È vero che le cose sono cambiate negli ultimi decenni?
La Svezia ha avuto così alti livelli di welfare state universale negli anni '70 e '80 ma ancora oggi c’è un alto livello di benessere in Svezia. Ma bisogna tenere a mente che la Svezia ha avuto anche le differenze di classe in più rapida crescita all'interno dell'OCSE negli ultimi decenni, e un'enorme spinta alla privatizzazione e alla deregolamentazione. Ad esempio, la Svezia è ora l'unico paese al mondo che consente alle imprese private di approfittare dell'istruzione primaria.
È vero che negli ultimi anni in Svezia si è registrato un incremento dell’immigrazione? Come ha reagito a questo la popolazione? Che tipo di politica sull’immigrazione è stata portata avanti dai partiti che hanno guidato il paese negli ultimi anni?
C'è stato un grande picco di migrazione nel 2014-2015 dovuto principalmente alla guerra in Siria. Durante questi due anni, la Svezia ha registrato rispettivamente 80.000 e 160.000 arrivi, con un forte impatto su un paese di meno di dieci milioni. I sistemi di welfare, in particolare i sistemi di arrivo, non hanno avuto il tempo di soddisfare le nuove richieste, ma ci fu una grande attivazione della società civile per accogliere i rifugiati. Questo alla fine ha portato a un limite dell'immigrazione nel 2015 e dopo questo picco, i livelli sono tornati ai livelli precedenti di circa poche migliaia al mese.
L'ascesa dei Democratici Svedesi sembra indicare un aumento dei sentimenti anti-immigrazione, ma il quadro è complicato. Gli studi sembrano dimostrare che esiste un atteggiamento positivo stabile nei confronti dell'immigrazione in Svezia, ma non si può negare che nel dibattito pubblico, i punti all’ordine del giorno della discussione e gli argomenti dei politici si siano alla fine spostati sul voler ridurre l'immigrazione. L'ascesa dei Democratici Svedesi ha anche significato che alcune delle loro politiche sono state adottate in una certa misura da altri partiti, principalmente quelli dalla parte destra dello spettro politico e in particolare dai moderati e dai Cristiano - Democratici.
Il precedente governo ha iniziato con un atteggiamento progressista verso l'immigrazione - in quello che divenne un infame discorso il primo ministro socialdemocratico annunciò che "nella mia Europa non costruiamo muri per tenere la gente fuori", e nel 2015 fecero proprio questo. Purtroppo questa è una tendenza generale in tutta Europa e in un'analisi generale si può affermare che la Svezia ha accettato molti più rifugiati di altri paesi europei pro capite. Ma non è l’unico. Alla fine la questione è che la Svezia - così come altri paesi europei - deve rendersi conto che i grandi flussi migratori saranno un dato di fatto del futuro, e tutte le forze progressiste devono mettersi insieme per affrontare questa questione in un modo che consente di salvare la vita delle persone e di rafforzare anche gli stati sociali nei paesi beneficiari.

¡Si se puede! Giù la frontiera e la carovana migrante entra in Messico

di Christian Peverieri 
https://www.globalproject.info/it/mondi/si-se-puede-giu-la-frontiera-e-la-carovana-migrante-entra-in-messico/21680
Una marea umana, giovani, donne, vecchi e bambini nella giornata di venerdì hanno forzato i blocchi posti alla frontiera tra Guatemala e Messico al grido di “¡Si se puede, Guatemala!” e hanno superato il confine dopo aver resistito anche al lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia federale messicana.
Fanno parte della #CaravanaDeMigrantes partita da San Pedro Sula, Honduras, il 13 ottobre e che da quasi una settimana sono in viaggio con destinazione gli Stati Uniti, terra promessa e co-responsabile della violenza e della povertà nel paese per l’appoggio al presidente Juan Orlando Hernandez. Fuggono, infatti, da un paese, dove non ci sono possibilità, dove si rischia quotidianamente la vita per la violenza, dove i ragazzini rischiano ogni giorno di essere cooptati dai gruppi criminali. Fuggono perché non c’è speranza, fuggono perché è meglio l’incognita di un viaggio terribile e pericoloso che la certezza di restare tra la violenza e la povertà. Nemmeno un anno fa l’Honduras ha provato a venire fuori da questa crisi appoggiando la candidatura a presidente di Nasralla ma un’incredibile, e senza dubbio truccata, rimonta a dati praticamente certi aveva consegnato la rielezione a Juan Orlando Hernandez. A seguito dei brogli elettorali le contestazioni sono durate mesi ma non hanno ottenuto di rovesciare il governo fraudolento anche per l’immancabile ingerenza statunitense.
La carovana ha superato varie insidie, oltre a quelle viaggio. Hanno provato a fermarli in Guatemala arrestando il leader della carovana, Bartolo Fuentes. E nemmeno, sono servite le minacce del presidente americano Trump che ha ordinato ai presidenti di Honduras, El Salvador e Guatemala di fermarli pena il taglio degli aiuti. La carovana è giunta quindi a ridosso del confine col Messico con gli occhi puntati addosso. Ai 1500 migranti partiti dall’Honduras se ne sono aggiunti almeno altrettanti, tanto che alcuni testimoni parlano addirittura di oltre 6000 persone in attesa di varcare il confine. Un confine, quello tra Messico e Guatemala, divenuto molto importante negli ultimi anni in quanto a seguito di accordi con gli Stati Uniti ha di fatto spostato il tanto terribile “muro di Trump” proprio qui a sud, con la polizia e l’esercito messicano a fare il cane da guardia al vicino del nord.
In questa situazione, venerdì c’è stato l’arrivo alla frontiera. Già dalla mattinata alcune imbarcazioni di fortuna erano riuscite ad attraversare il rio Suchiate e a trasportare sulla sponda messicana alcuni migranti, approfittando del sostegno della manifestazione dei migranti a Tecùn Umàn.
Poi nel pomeriggio la forzatura della frontiera: i migranti fermi a Tecún Umán hanno divelto le inferriate e sono riusciti a entrare nella terra di nessuno che separa i due avamposti di polizia guatemalteco e messicana. Ad attenderli dall’altra parte però c’era la polizia federale messicana che in un primo momento li ha respinti anche con l’uso di gas lacrimogeni. Gli scontri però son ben presto finiti. Visto l’incredibile numero di persone in attesa di varcare il confine, le autorità messicane hanno riportato la calma garantendo a tutte le persone in regola con i documenti l’ingresso in piccoli e ordinati gruppi e l’accoglienza negli albergues per migranti.
messico
Il governatore del Chiapas Manuel Velasco ha già annunciato che li accoglierà. Per molti, quasi tutti, il Chiapas e il Messico restano comunque solo un luogo di passaggio. Il viaggio per loro non è finito. Ad attenderli ora un paese che negli ultimi dodici anni ha visto sparire nel nulla 35 mila persone e morire di morte violenta oltre 250 mila. Un paese che, nonostante il nuovo presidente AMLO, continuerà a presidiare le strade con polizie ed esercito e non ha nessuna intenzione di rinunciarvi. Un paese che non garantisce la sicurezza nemmeno per i propri cittadini.
messico
La carovana migranti è senza dubbio un evento importante che riapre anche in quella parte del mondo il dibattito sulla questione delle migrazioni, osteggiate in tutti i modi dai governi che le provocano. A giorni partirà da Città del Guatemala anche la carovana delle madri dei desaparecidos migranti organizzata dal Movimento Migrante Mesoamericano che da vari anni ripercorre il tragitto dei migranti desaparecidos per cercarli. La carovana terminerà i primi di novembre a Città del Messico, giorni in cui è previsto anche il Forum Sociale sulle Migrazioni.
messico

Trento - Centinaia in marcia contro Salvini

Due volte in una settimana la Trento antirazzista ha fatto sentire la propria voce. Centinaia di persone si sono date appuntamento in Via Verdi e hanno dato vita a un vivace e corposo corteo in risposta all’ascesa di Salvini e del comizio elettorale che avrebbe dovuto tenere la sera, in sostegno della candidatura di Maurizio Fugatti.
Non è la prima volta che il leader leghista visita il Trentino, con il suo solito bagaglio di propaganda xenofoba e qualunquista, bensì la terza. Tuttavia gli effetti della sua nuova carica da Ministro degli Interni sono ben visibili: militarizzazione della città e prescrizioni della questura di ogni sorta.
Tutto questo non ha rappresentato in ogni caso alcun deterrente, Trento infatti è stata scenario di una grande manifestazione eterogenea composta da centinaia di persone: dal centro sociale Bruno, ai collettivi studenteschi, ai sindacati di base, e in generale da coloro che non potevano tollerare la presenza di Salvini e la proliferazione selvaggia della sua barbara retorica razzista. Numerosi sono stati inoltre gli interventi al microfono e i cori scanditi a gran voce da tutto il corteo.
In questa importante giornata Salvini non è stato l’unico ospite indesiderato e contestato. Il Partito Democratico trentino, infatti, ha ben pensato di concludere la propria campagna elettorale invitando Marco Minniti, che ha vestito la carica di Ministro dell’Interno durante la precedente legislatura ed è stato responsabile nell’ aver spianato la strada alle attuali politiche xenofobe e securitarie dell’esecutivo giallo-verde: la guerra alle ONG, gli accordi criminali con la Libia e le politiche securitarie con l'introduzione del daspo urbano sono solo alcuni esempi. Due facce della stessa medaglia che, secondo i partecipanti, non possono essere tollerate in città.
Il Decreto Minniti prima, il decreto Salvini poi hanno prodotto conseguenze nefaste per quanto riguarda la repressione, le condizioni giuridiche e sociali di migranti, poveri, occupanti, attivisti. Sono stati ricordati in particolare due episodi cruciali che ben rendono la situazione che stanno vivendo: dall’arresto di Mimmo Lucano e lo smantellamento del modello Riace, (attualmente studiato e preso come riferimento in tutto il mondo) al grave episodio di Lodi, dove ai bambini stranieri è stata negata la mensa scolastica.
La piazza antirazzista di ieri, non solo è stata la migliore risposta a Salvini e alle sue politiche ma ha rappresentato anche una prima vittoria: il leader leghista infatti, che aveva annunciato in pompa magna di tenere il comizio nella simbolica Piazza Dante, da sempre oggetto di speculazione razzista, per sua stessa ammissione è stato costretto a isolarsi nel quartiere fantasma delle Albere, iper militarizzato e completamente fuori dalla città per timore di contestazioni.
Dopo un breve comizio, infarcito sempre della solita becera retorica, ha lasciato la città.
Non un addio ma un arrivederci: tanto è vero che il corteo ha lanciato la prossima data nazionale il 10 novembre a Roma; tanti e tante raggiungeranno la capitale per contrapporsi alla conversione in Legge del criminale “decreto immigrazione e sicurezza”, al governo, al ddl Pillon e alla crescente ondata di intolleranza e repressione.

Alessandria - Da Macerata al #10N

Un filo lungo quasi un anno che ha vissuto un cambio di governo, un passaggio di testimone al vertice del Viminale, da Minniti a Salvini.
Un passaggio che ha accentuato l’attacco ai corpi migranti, ai corpi ultimi, ai corpi che un decennio di crisi economica, amplificato da politiche recessive, ha schiacciato e spinto sempre più in fondo alla scala sociale.
Un tentativo di esclusione senza precedenti che tramuta quei milioni di corpi nell’oggetto dell’attacco, nel tentativo di renderli invisibili.
Questo il loro attacco, questo il loro filo.
Ma. C’è un Ma avversativo e propositivo su cui, dall’epoca Minniti a quella di Salvini, si è costruita una proposta alternativa, fatta di solidarietà e resistenza. Un filo è stato tracciato da Macerata a Ventimiglia, passando per il molo di Catania a cui era attraccata la nave Diciotti e per mille altri piccoli e grandi gesti di resistenza alla barbarie.
Un filo che corre parallelo e che, non rispettando gli assiomi geometrici, vuole confliggere, farsi materiale il 10 novembre a Roma.
Lanciamo la data di Roma senza voler nascondere le fatiche di una costruzione complessa e articolata che ha trovato una sintesi nell’assemblea del 14 ottobre.
Una sintesi tra tanti e tante.
Non si può più attendere perché lo spazio politico in cui provare con coraggio a bloccare il decreto immigrazione e sicurezza è qui e ora, dopo sarà tardi, dopo i loro strumenti di attacco ai nostri corpi faranno più male. E tanto.
Le orrende anticipazioni di quello che potrebbe essere le vediamo già nell’attacco a Riace, nel deserto di navi di Ong nel Mediterraneo, nella chiusura dei porti, nella falsa retorica securitaria, nella mensa di Lodi.
Ma il nostro filo ha già, in parte, saputo rispondere.
Con la Mediterranea Saving Humans guscio di speranza nel deserto del mare che circonda la penisola, per le strade di Riace, con la raccolta fondi di Lodi.
Mille voci si sono fuse a Roma e hanno lanciato il cuore oltre l’ostacolo della rassegnazione e della paura, individuando nella data del 10 novembre il momento e lo spazio necessario per portare i nostri vissuti fatti di solidarietà, insubordinazione, disobbedienza agli occhi di tutti e tutte.
Un momento plurale, rispettoso delle storie di ogni realtà singola e collettiva, unitario perché la fase lo impone, determinato perché sono state le “mezze parole” ad aver, per ora, fatto trionfare la retorica salviniana.
-Per ritiro immediato del Decreto immigrazione e sicurezza varato dal governo. NO al disegno di legge Pillon.
– Accoglienza e regolarizzazione per tutti e tutte.
– Solidarietà e libertà per Mimmo Lucano! Giù le mani da Riace e dalle ONG.
– Contro l’esclusione sociale.
– No ai respingimenti, alle espulsioni, agli sgomberi.
– Contro il razzismo dilagante, la minaccia fascista, la violenza sulle donne, l’omofobia e ogni tipo di discriminazione.
Per queste ragioni convochiamo una MANIFESTAZIONE NAZIONALE sabato 10 novembre a Roma.
Partenza in pullman da Alessandria, per info e prenotazioni telefonare a Elio al 3349943428.
Laboratorio Sociale Alessandria

22 ottobre 1974 i funerali di Adelchi Argada


Studenti, operai, militanti ed anche rappresentanze istituzionali. Ci fu il Presidente della Giunta regionale Aldo Ferrara e Francesco Caruso per la Federazione CGIL. Una folla immensa, più di trentamila persone, di tutte le estrazioni sociali, si era riversata, dopo due giorni di lungo lutto, su Corso Numistrano. La gente già dalla prima mattina a fare la fila, in processione di fronte alla bara, di fronte alla mamma piangente, ai fratelli disperati, ai familiari e agli affetti lasciati, distrutti dal dolore, a manifestare solidarietà e cordoglio. Stretta attorno al Palazzo Municipale la casa lametina e la città oggi piange il suo figlio, figlio del suo popolo: Adelchi Sergio Argada, figlio del Sud, costretto ad emigrare negli anni della sua ‘meglio gioventù’.
Un ragazzo di vent’anni. Un proletario ucciso dai fascisti. Da ragazzo la mattina va a scuola, il pomeriggio in segheria per aiutare la famiglia.
Proprio il giorno del suo funerale, martedì 22 ottobre, il giovane compagno, operaio edile lametino, sarebbe dovuto partire per Modena e lavorare in un cantiere di quella città come altre migliaia di calabresi emigrati.
Argada è il frutto di un Sud sottosviluppato, clientelare, familista e notabil-politico, incarna l’archetipo dell’operaio di massa e il luogo comune, diffuso nella letteratura marxista, della connessione tra emigrazione e proletarizzazione. Ma nel meridione l’utopia si scontrerà con una realtà di sradicamento, stravolgimento sociale e pervasività mafiosa.
Nella Cattedrale dei S.S. Pietro e Paolo, di Papa Marcello II e Innocenzo IX, il rito funebre celebrato dal Vescovo della città Mons. Ferdinando Palatucci. A lato, davanti al Palazzo di Città, c’è ancora il palco messo su per il Festival dell’Avanti, sarà luogo da dove si terranno le orazioni funebri. A chiudere gli interventi è lo
…studente di sinistra Jovine il quale ha detto: “Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto ad una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa, non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio…”
Infine il corteo ha accompagnato la bara lungo le vie della città, fino al cimitero. Di fronte al luogo del delitto il feretro, portato a spalle dei giovani compagni del morto, si e fermato.———Migliaia di braccia alzate a pugno chiuso hanno reso omaggio in silenzio.
Nel punto in cui il giovane è caduto colpito a morte, c’è una scritta: «Qui è stato assassinato il compagno Argada». Sul muro una gigantografia ne mostra il volto aperto, leale, di lavoratore … (S)
Il cronista locale sostiene la tesi della legittima difesa e non è tenero con la figura dell’ucciso.
Un giornale, di “certa stampa siciliana” molto vicina ad ambienti neofascisti bruciato a in migliaia di copie sulla piazza del delitto il giorno dei funerali  dai giovani compagni di Adelchi Argada.
“Tutti devono morire, ma non tutte le morti hanno eguale valore. La morte di chi si sacrifica per gli interessi del popolo ha più peso del Monte Taj”; era scritto su un manifesto scritto a mano ed affisso sul muro di un edificio accanto al Municipio di Lametia.
Memoria / non è peccato fin che giova.
Dopo / è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé …

Eugenio MONTALE
Adelchi è uno dei morti della non memoria, della memoria mancata…Tra gli smemorati non vi sono solo i semplici voltagabbana del personale politico, di cui Lamezia abbonda… Coltivare la memoria è compito di una classe politica, disposta ad assumersi le proprie responsabilità. Comprendere le cause che hanno portato all’assassinio di Adelchi … significa abbandonare l’omertà sullepesanti condizioni di vita in cui sono costretti tanti nostri concittadini e i tanti migranti che la abitano… quella di Adelchi, non è una storia del passato…ma del presente.
A Milano, nel ’78, dopo quattro anni di iniziative e lotte gli dedicano una scuola. Istituto Tecnico per Geometri “Adelchi Argada.”
Il 18 ottobre 1994, a Lamezia, nel corso delle celebrazioni del ventennale, con una lettera ex studenti ed ex professori comunicano che, nel frattempo, una nuova docenza aveva cambiato idea intitolando l’istituto ad un ex sindaco di Milano (che già dava il nome ad altre quattro scuole milanesi) ma testimoniano anche ai lametini che il ricordo di Adelchi era ancora vivo, non conosceva né distanze, né tempo.

22 ottobre 1972: i treni per Reggio Calabria




Tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni Settanta diversi movimenti di rivendicazione sociali
esplosero nel sud Italia.
Le organizzazioni di estrema destra
risposero a questa ondata di protesta sociale da un lato con una serie
di attentati dinamitardi, come quello del 22 luglio 1970 che fece
deragliare il treno “Freccia del Sud” a Gioia Tauro (6 perosne morirono
nell’attentato) e quello del 4 febbraio 1970, quando venne lanciato una
bomba contro un corteo antifascista a Catanzaro; dall’altro tentando di
scatenare disordini in città.

Alla strategia del terrore si affiancava il tentativo, sempre da aprte
delle forze neo-fasciste, di cavalcare l’ondata di rivolta e di
accreditarsi come rappresentanti degli interessi della popolazione in
lotta.
Per rispondere a questi attacchi i
sindacati metalmeccanici decisero di organizzare una grande
manifestazione di solidarietà a fianco dei lavoratori calabresi. Fu tra
le prime volte che gli operai del nord e del centro scesero a
manifestare al Sud.
La manifestazione fu indetta per il 22
ottobre. I neofascisti tentarono di impedire l’arrivo dei manifestanti
con una serie di attentati, 8 in totale, nella notte tra il 21 e il 22
ottobre 1972.
Il tentativo però fallì, infatti più di
50’000 manifestanti riuscirono a raggiungere Reggio Calabria con i treni
e i treni speciali, cui si aggiunse anche una nave con 1000 operai
noleggiata dagli operai dell’Ansaldo di Genova.

sabato 20 ottobre 2018

20 ottobre 1947 hollywood, caccia alle streghe comuniste

20 ottobre 1935 termina la Lunga Marcia Cinese

20 ottobre 1944 Milano, bombe su una scuola elementare

Un fiore per Adelchi


Un fiore per ricordare Adelchi Argada
Un fiore contro intolleranza, razzismo, fascismo.
Ci vediamo tutti/e sabato 20 ottobre alle 18,30 davanti alla stele che ricorda Adelchi. Porta un fiore

20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Argada

Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare Comunista Rivoluzionario” (FPCR) viene barbaramente ucciso, il 20 ottobre 1974, a colpi di pistola dai fascisti Michelangelo De Fazio e Oscar Porchia.
Il primo studia Legge a Firenze, ragazzo di buona famiglia conosciuto sia dai fascisti del posto che da quelli dell’università toscana. Il secondo, anche lui studente, è un militante del Movimento Sociale e per un paio d’anni è stato anche il segretario del Fronte della gioventù di Lamezia.
Oltre a Sergio, nell’agguato squadrista rimangono feriti altri quattro giovani operai che sono con lui (fra cui il fratello Otello).
«Era un ragazzo di una bontà unica e di un altruismo ineguagliabile… era un buon figliolo che badava agli interessi dei lavoratori cui conosceva sacrifici e tormenti». Così ricordano a Lamezia, in tutti gli ambienti, lo studente-operaio Sergio Adelchi Argada.
Aveva superato brillantemente lo scoglio della terza media, quando per la morte del padre dovette abbandonare gli studi. Era il più piccoli di casa Argada, essendo nato dopo Otello, Ferdinando e la sorella e lavorava per consentir loro di studiare. Rosina Curcio, la madre, non ce la poteva fare a mandare avanti la famiglia; da vedova, senza alcun lascito del marito, vivevano con i modesti proventi della sua attività giornaliera.
Era uno generoso. La generosità e la solidarietà verso i compagni ha contribuito a stroncare la sua esistenza. E’ infatti morto sotto i colpi del feroce assassino, che l’ha voluto finire quand’era oramai a terra colpito all’addome, già da tre proiettili, nell’atto di bloccare la mano omicida che seguitava a sparare su Giovanni Morello, colpito per primo.
Nelle zone dell’Emilia, vicino Modena, dove appena quindicenne aveva affrontato il duro lavoro di una fonderia, s’erano registrati altri episodi che lo avevano fatto apprezzare per la sua umanità.
A Milano aveva prestato la sua attività nei cantieri edili come manovale.
Sergio faceva parte di una commissione per lo studio delle esigenze degli operai e, i alcuni congressi nazionali, come sul giornale del FPCR, cui dedicava il suo tempo libero, aveva dimostrato chiaramente, quali interventi avessero bisogno quanti contribuiscono quotidianamente allo sviluppo del Paese.
La mattina del 20 ottobre, di fronte al Comune di Lamezia, ci fu una manifestazione nell’ambito del Festival Provinciale dell’Avanti. Nella notte, scritte fasciste comparse sui muri avevano provocato forti tensioni, fino ad arrivare alle minacce ed alle mani e la questione, evidentemente, non poteva finire lì.
Alle 15.30 di quella domenica di ottobre i fratelli Argada, accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno dallo stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni appena. E quattordici furono anche i colpi che riecheggiarono per le strade di Lamezia; quattro mortali indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e aiutare l’amico ferito da un colpo alla gamba.
Il giorno dei funerali, trentamila furono le persone che scesero in piazza per salutare Sergio Adelchi
Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e, per le orazioni, venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
1977 - SCUOLA DI MILANO
1977 – SCUOLA DI MILANO
Uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: «Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio».
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funzionò: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 furono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione.
A Milano, nel 1978, dopo quattro anni di iniziative e lotte, gli dedicano una scuola: l’ Istituto Tecnico per Geometri “Adelchi Argada.”
Il 18 ottobre 1994, a Lamezia, nel corso delle celebrazioni del ventennale, con una lettera ex studenti ed ex professori comunicano che, nel frattempo, una nuova docenza aveva cambiato idea intitolando l’istituto ad un ex sindaco di Milano (che già dava il nome ad altre quattro scuole milanesi) ma testimoniano anche ai lametini che il ricordo di Adelchi era ancora vivo, non conosceva né distanze, né tempo.