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giovedì 23 gennaio 2014

23 gennaio 1973: Roberto Franceschi


Il 23 Gennaio di trentotto anni fa Roberto Franceschi veniva colpito alla testa dal proiettile che lo portò alla morte il 30 Gennaio dello stesso anno.
Roberto, studente ventunenne di Economia Politica presso la Bocconi di Milano, all'ottima riuscita negli studi aveva sempre affiancato l'impegno politico, che lo aveva portato, già durante gli anni del Liceo, a militare nel MS (Movimento Studentesco), gruppo politico di impostazione leninista nato nel '68 negli atenei milanesi.
La sera del 23 Gennaio del 1973 era prevista un'assemblea del MS proprio presso la Bocconi; assemblee di questo tipo erano sempre state autorizzate all'interno delle facoltà ed erano sempre state aperte non solo agli studenti ma a chiunque fosse stato interessato a parteciparvi, tant'è che quella del 23 avrebbe dovuto essere la prosecuzione di un incontro tenutosi alcuni giorni prima nello stesso luogo.
In questa occasione, però, il Rettore della Bocconi (Giordano Dell'Amore) dispose che l'accesso all'assemblea fosse limitato ai soli iscritti alla facoltà tramite esibizione del libretto universitario; per tutelarsi dalle prevedibili proteste che tale assurda imposizione avrebbe suscitato, Dell'Amore avvertì la polizia, che all'arrivo degli studenti fece trovare l'edificio circondato da un centinaio di agenti della celere.
Quando alcuni provarono ad avvicinarsi all'ingresso, determinati a partecipare ugualmente all'assemblea, e vennero bruscamente respinti dai celerini, la rabbia di studenti e lavoratori esplose in una dura contestazione che li portò allo scontro con la polizia.
Mentre il gruppo veniva allontanato e disperso dagli agenti, alcuni di questi spararono diversi colpi d'arma da fuoco ad altezza d'uomo: ad esserne raggiunti alle spalle durante la fuga furono Roberto Franceschi e l'operaio Roberto Piacentini.
Quest'ultimo venne immediatamente ricoverato e riuscì a salvarsi mentre Franceschi, nonostante il soccorso portatogli da alcuni compagni e da un medico presente sul posto, perse conoscenza e morì dopo una settimana di coma.
La notizia si diffuse velocemente e l'ondata di indignazione e rabbia che la violenza cieca e spropositata della polizia suscitò mise in difficoltà la Questura milanese, che dichiarò inizialmente che Roberto era stato colpito da un sasso lanciato da uno dei manifestanti.
Il proseguire delle indagini rivelò da subito la falsità di tale ipotesi ma la Questura tentò un secondo salvataggio affermando che l'agente responsabile dell'omicidio, Gianni Gallo, aveva sparato in stato di semi-incoscienza.
I continui tentativi da parte della polizia di falsificare il reale svolgimento dei fatti e di occultare le prove fecero sì che il primo processo nei confronti degli assassini di Roberto si aprisse solo nel Maggio del '79, a sei anni di distanza dall'omicidio.
Questo primo processo si concluse con l'assoluzione di quasi tutti gli imputati ma la vicenda giudiziaria si protrasse per oltre vent'anni, al termine dei quali furono stabilite responsabilità da parte del corpo di polizia ma non il nome dell'assassino.
Solo nel 1999 la famiglia di Franceschi ha ottenuto un risarcimento in denaro con cui è stata finanziata una fondazione intitolata al giovane militante ucciso.
L'esito del processo (la sostanziale impunità dei suoi assassini, anche grazie ai continui tentativi di insabbiamento delle prove da parte della Questura) e il tentativo di ribaltare le accuse ponendole a carico delle vittime (l'operaio Roberto Piacentini fu accusato di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni ma venne poi assolto per insufficienza di prove) rappresentano un iter tristemente noto tra i casi di omicidi compiuti per mano della polizia; tuttavia già a partire dal funerale di Roberto, partecipatissimo e carico di rabbia silenziosa, il movimento studentesco ribadì che la perdita del proprio compagno e qualsiasi altro tentativo di intimidazione li trovava determinati a non fare nessun passo indietro.














Gli assassini di Aldrovandi tornano in servizio


I poliziotti condannati per l'omicidio di Federico Aldrovandi torneranno in servizio tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio: è la decisione presa da commissioni disciplinari composte da sindacalisti, una decisione che sia il Viminale che il resto del mondo politico hanno deciso di avallare tranquillamente.
Paolo Forlani, Luca Pollastri, Monica Segatto e Enzo Pontani - i quattro agenti condannati per l'uccisione di Federico - sono quindi stati reintegrati. Per aver pestato a morte un ragazzo di 18 anni i quattro poliziotti hanno scontato sei mesi di detenzione, tornando tutti in libertà durante l'estate scorsa. I genitori di Federico non sono nemmeno stati avvertiti di questa decisione ma l'hanno appreso da alcune fonti giornalistiche; hanno chiesto di poter visionare i fascicoli con i provvedimenti disciplinari dei quattro assassini ma gli è stato negato perché secondo la legge non sarebbero 'diretti interessati'. Dopo gli insabbiamenti giudiziari, gli affronti del sindacato di polizia Coisp, le dichiarazioni infami di personaggi come Giovanardi e la condanna a pene irrisorie per gli agenti coinvolti (che hanno ovviamente goduto di tutte le attenuanti del caso), la decisione di reintegrarli in servizio è l'ennesimo schiaffo alla morte di Federico e alla battaglia che - nonostante tutto - i suoi genitori continuano a portare avanti da anni con fatica e con coraggio per ottenere giustizia.
Che i quattro assassini venissero radiati dai corpi di polizia è sempre stata una ferma e comprensibile richiesta di Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi ma a quanto pare il pestaggio gratuito di un ragazzo di 18 anni, morto sotto i colpi dei manganelli, è un fatto trascurabile per chi ha deciso di reintegrarli in servizio. Lo commenta amaramente la mamma di Federico: "Io ho letto il regolamento della polizia: la radiazione anche è prevista per il disonore alla divisa. E questo per me è alto tradimento. Basta leggerle le cose, basta volerle applicare, per me gli appigli ci sono. Ma forse non vogliono farlo».
da Infoaut