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martedì 30 giugno 2015

30 giugno 1960 Genova Manifestazione Antifascista



Come nascono le grandi lotte del luglio 1960? Il pretesto, la scintilla, è data dalla convocazione del Congresso nazionale del MSI (oggi AN) che doveva essere tenuto a Genova il 2-3 e 4 luglio 1960. Quanto la cosa fosse provocatoria lo dimostra la scelta di Genova, città medaglia d'oro della guerra di liberazione, città che era insorta unanime nel luglio 1948, all'epoca dell'attentato a Togliatti rimanendo in mano del popolo armato per due giorni. Come se ciò non bastasse, il MSI aveva preannunciato la presenza al Congresso del criminale di guerra Basile che, uccisore e torturatore di partigiani, avrebbe dovuto tornare nella città che aveva sofferto per le sue gesta efferate.

Questo congresso del MSI si poteva tenere dopo quindici anni dalla conclusione della guerriglia partigiana solo perché nel 1960 a Roma siedeva un governo democristiano presieduto da Tambroni, che era appoggiato per la prima volta dai voti dell'estrema destra. La repubblica «fondata sul lavoro» era nei suoi organi costitutivi antifascista di nome, ma non di fatto. Tra il 1948 ed il 1950 la polizia sotto il Ministro degli Interni Scelba aveva represso moti operai e contadini. Bilancio di poco più di due anni: 62 morti, 3.126 feriti, 92.169 arrestati, tutti tra gli anti-fascisti. Nel 1960, quando sale al potere il governo Tambroni di centro-destra con l'appoggio esterno dei missini, la Pubblica Sicurezza comprende 75.000 uomini, di cui 45.000 inquadrati militarmente nella Celere e nella Mobile; mentre i Carabinieri e la Guardia di Finanza ammontano a 180.000 persone. Pier Giuseppe Murgia fornisce i seguenti dati, per più versi illuminanti, dei prefetti e dei questori nel 1960. I prefetti di 1.a classe sono 64: tutti, meno due, sono stati funzionari del Ministero degli Interni del governo fascista. I vice prefetti sono 241: tutti hanno fatto la loro carriera nella burocrazia del regime fascista. Gli ispettori generali di PS sono dieci, di cui sette hanno prestato la loro opera sotto il regime fascista. I questori sono 135 di cui 120 sono entrati nella polizia sotto il fascismo. Tutto questo, a distanza di sedici anni dalla caduta del fascismo, dimostra come la burocrazia statale fosse rimasta intatta rispetto al periodo fascista.

Quando si ventila l'idea che il Congresso nazionale del MSI venga convocato a Genova, Tambroni nomina Lutri questore di quella città. Lutri, durante il fascismo, era stato capo della squadra politica di Torino ed era noto per avere arrestato durante la Resistenza numerosi esponenti partigiani di «Giustizia e libertà». In città si era, intanto, accumulata una tensione soprattutto di tipo sociale. Genova costituisce una delle sacche di vecchia industrializzazione ed ha il porto e l'intera industria in crisi a seguito della riconversione civile dell'economia di guerra completata negli ultimi anni. A Genova poi la trasformazione era stata più pesante che altrove, con la fine dell'industria di guerra e la perdita di centralità della città, che in quegli anni vede scomparire anche tutta una serie di industrie leggere, dove erano occupate anche molte donne. Chiude infatti una rete di aziende tessili, dell'abbigliamento, anche un'industria chimica come la Mira Lanza.

Appena conosciuta la volontà di convocare il Congresso missino, a metà giugno, i partiti borghesi antifascisti (PCI, PSI, PRI, PR, PSDI) iniziano la campagna contro la convocazione, affiggendo in tutta Genova un manifesto a caratteri cubitali dove si legge «MSI — FASCISMO — NAZISMO» «NAZISMO — CAMERE A GAS». Il manifesto, di poche parole, ha un grande impatto sulla cittadinanza, perché fa riferimento a esperienze dirette che tutti avevano vissuto (1). Il 19 giugno il MSI tenta l'anteprima, inaugurando una sua sede a Chiavari. La risposta della città è immediata: migliaia di lavoratori bloccano la strada dove dovrebbe aprirsi la sede, nella quale rimangono rinchiusi cinque fascisti, ed impediscono agli altri di potervi affluire. Il 24 giugno a Genova un comizio, convocato dalla CGIL, viene vietato dalla Questura.

Il 25 giugno vi è uno sciopero generale dei portuali genovesi che sfilano dal porto fino al Sacrario dei Partigiani in Via XX Settembre, mentre una delegazione si reca in Prefettura a protestare contro la convocazione del Congresso. Contemporaneamente centinaia di professori ed assistenti della Università di Medicina, Scienze e Fisica sospendono gli esami e si recano in corteo alla Casa dello Studente, già sede delle camere di tortura delle SS. Altro comizio e relativo corteo con un migliaio di partecipanti viene organizzato dalle sezioni giovanili dei vari partiti antifascisti. Quando il corteo giunge all'altezza di Via XX Settembre, la Celere lo carica con camionette, manganelli e fumogeni. La reazione è immediata: lanci di pietre partono dal Ponte Monumentale. Scontri tra la forza pubblica e i giovani si susseguono davanti alla Chiesa di S. Stefano, in Corso Andrea Podestà, in Via Carcassi e in tutte le strade che si diramano da Via XX Settembre. I caroselli si infittiscono e si protraggono per qualche ora. Alle ore 20 l'epicentro degli scontri si sposta verso Piazza Corvetto, a Largo Lanfranco e davanti alla Prefettura.

Il 26 giugno si riuniscono tutti gli appartenenti ai Comitati di Liberazione Nazionale della Liguria e decidono le varie forme di protesta e di resistenza per impedire la convocazione del congresso missino. Poi, il primo grande comizio: nell'enorme Piazza della Vittoria parla Pertini davanti a 30.000 lavoratori. Il MSI non disarma, anzi arriva alla provocazione aperta annunciando che Carlo Emanuele Basile sarà a Genova «un'altra volta», per presiedere il congresso fascista. Basile era stato capo della Provincia di Genova durante la Repubblica di Salò ed era uno dei più odiati torturatori di partigiani.

Si giunge così al 30 giugno, con lo sciopero generale proclamato a Genova, che sarà la prova di forza contro il governo. Al mattino migliaia di donne portano tonnellate di fiori al Sacrario dei Caduti. Alle ore 15 tutti i lavoratori di Genova scendono nelle strade. Si forma un corteo, lungo chilometri, di 100.000 lavoratori che dai vicoli del porto e dalla cinta dei quartieri industriali, da Sampierdarena, da Voltri, da Conegliano, da Bolzaneto, da Sestri Ponente, invade il centro sfila in Via Garibaldi, Via XXV Aprile, Piazza De Ferrari. In piazza un sindacalista della Camera del Lavoro invita la folla a disperdersi. Nessuno gli ubbidisce; anzi i lavoratori risalgono indietro Via XX Settembre e in Piazza De Ferrari circondano cinque camionette della polizia. La Celere attacca la folla prima con un getto di acqua colorata a mezzo di autobotti, poi con lacrimogeni e caroselli. Diecine di migliaia di persone rispondono con pietre, bottiglie, tavole e sedie dei bar, sedie delle case, assi di legno dei cantieri edili, in scontri che si frazionano per tutto il centro. Colpi d'arma da fuoco partono dai celerini e un giovane rimane ferito. Epicentro degli scontri sono Piazza De Ferrari, Via Petrarca, Piazza Matteotti, Piazza Dante, sottoporta Soprana, Via Ravecca e Via Fieschi. In Piazza De Ferrari una camionetta, che non riesce a fendere la folla, viene bloccata e bruciata; un ufficiale della polizia viene gettato nella vasca della piazza e molti celerini sono malmenati e disarmati. Intanto altre tre camionette vengono incendiate in Via Petrarca, in Piazza Dante e avanti il Credito Italiano. Dai tetti alcuni poliziotti sparano, mentre un elicottero della polizia coordina e dirige l'azione. Nella stessa piazza Dante sorge una barricata formata da varie auto in sosta. Più di cento agenti rimangono feriti o contusi e feriti anche una sessantina di dimostranti. Cinquanta i lavoratori arrestati. Alle ore 20 la battaglia di strada continua con immutata intensità: si adoperano vasi da fiori, paletti e colonnine segnaletiche divelte. La demoralizzazione si impadronisce degli agenti, tantoché la questura convoca presso di sé i dirigenti dell'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) ai quali si appella per riportare la calma. Costoro girano con megafoni tra i manifestanti invitandoli a cessare gli scontri. La folla non ubbidisce subito perché ha la percezione di un tradimento e di un tranello, ma poi vede che la Celere si ritira e allora si allinea agli ordini dell'ANPI. Così il 30 giugno i lavoratori genovesi rimangono padroni delle strade, mentre carabinieri e Celere sono obbligati a ripiegare a presidio degli uffici pubblici.

E' a questo punto che i dirigenti del movimento riescono a convincere i dimostranti a tornare a casa. Scrisse Scalfari: «Soltanto l'opera di persuasione dei capi delle associazioni partigiane, che avevano promosso la manifestazione, era alla fine riuscita a calmare temporaneamente gli animi e a ottenere che la gente tornasse a casa». La lotta è però solo rimandata: per il 2 luglio viene proclamato lo sciopero generale in concomitanza con l'inizio del Congresso missino. Ma il governo non vuole cedere. Il giorno prima Portoria è bloccata da un triplo sbarramento di filo spinato; in Piazza De Ferrari cavalli di frisia impediscono l'accesso ai cantieri edili; carabinieri, agenti e guardie di finanza presidiano gli edifici pubblici; il teatro Margherita (ove doveva avere luogo il congresso) è presidiato dalla polizia insieme a tutte le strade laterali, banche e stazioni ferroviarie; tre compagnie autocarrate bloccano la cintura intermedia della città. Rinforzi di carabinieri affluiscono da tutte le città del Piemonte e numerosi battaglioni di celerini sono chiamati da varie città d'Italia. In totale affluiscono a Genova 7.000 tra poliziotti e carabinieri «con l'ordine di sparare sui manifestanti». Alla Camera il Presidente del consiglio Tambroni conferma che il congresso si farà.

Ma tutta Genova nella notte tra l'1 e il 2 luglio scende ancora una volta nella lotta di strada in un clima pre-insurrezionale: venti trattori agricoli, alla testa di una colonna proveniente da Portoria, avanzano per abbattere gli sbarramenti di filo spinato con cui la polizia aveva isolato Piazza De Ferrari e Via XX Settembre. Nei quartieri del porto nella notte di vigilia si erano confezionate centinaia di bombe molotov; nella cinta industriale intorno alla città si erano ricostituite le vecchie formazioni partigiane armate pronte a scendere in città; nei quartieri del Porto, di Via Madre di Dio, di Porta S. Andrea si erano costruite barricate alte due metri di pietre e legname. Si calcola che 500.000 lavoratori fossero mobilitati e pronti a scendere al centro il 2 luglio. E' a questo punto, all'alba del giorno 2, che il governo comprende di avere perso la partita e, per evitare rotture gravi, revoca alle ore 6 del mattino al MSI, il permesso di tenere il Congresso, mentre ottiene dai partiti di «sinistra» e dai sindacati la garanzia del mantenimento dell'ordine! Nelle lotte di quei giorni vennero arrestati 98 lavoratori genovesi: di questi 23 saranno ancora detenuti il 19 agosto 1960, quando verrà celebrato il processo che irrorerà molti anni di reclusione.




(La cronaca degli eventi è tratta da Renzo Del Carria: Proletari senza rivoluzione. Vol.V, ed. Savelli 1977, pagg. 13-19)

(1) Va ricordato, per correttezza storica e politica, che il Pci (togliattiano) tra l'agosto 1939 e il giugno 1941, sulla scia del patto Hitler-Stalin, prese le difese della Germania nazista di contro agli imperialisti democratici. La sua riconversione democratico-imperialistica avvenne dopo la rottura del patto scellerato, provocato dell'invasione tedesca della Russia.



Fonte: http://capireperagire.blog.tiscali.it/2005/06/29/genova__30_giugno___2_luglio_1960_1554214-shtml

http://www.fdca.it/repressione/ge-1960.htm




30 giugno 1960 Genova Manifestazione Antifascista



Come nascono le grandi lotte del luglio 1960? Il pretesto, la scintilla, è data dalla convocazione del Congresso nazionale del MSI (oggi AN) che doveva essere tenuto a Genova il 2-3 e 4 luglio 1960. Quanto la cosa fosse provocatoria lo dimostra la scelta di Genova, città medaglia d'oro della guerra di liberazione, città che era insorta unanime nel luglio 1948, all'epoca dell'attentato a Togliatti rimanendo in mano del popolo armato per due giorni. Come se ciò non bastasse, il MSI aveva preannunciato la presenza al Congresso del criminale di guerra Basile che, uccisore e torturatore di partigiani, avrebbe dovuto tornare nella città che aveva sofferto per le sue gesta efferate.

Questo congresso del MSI si poteva tenere dopo quindici anni dalla conclusione della guerriglia partigiana solo perché nel 1960 a Roma siedeva un governo democristiano presieduto da Tambroni, che era appoggiato per la prima volta dai voti dell'estrema destra. La repubblica «fondata sul lavoro» era nei suoi organi costitutivi antifascista di nome, ma non di fatto. Tra il 1948 ed il 1950 la polizia sotto il Ministro degli Interni Scelba aveva represso moti operai e contadini. Bilancio di poco più di due anni: 62 morti, 3.126 feriti, 92.169 arrestati, tutti tra gli anti-fascisti. Nel 1960, quando sale al potere il governo Tambroni di centro-destra con l'appoggio esterno dei missini, la Pubblica Sicurezza comprende 75.000 uomini, di cui 45.000 inquadrati militarmente nella Celere e nella Mobile; mentre i Carabinieri e la Guardia di Finanza ammontano a 180.000 persone. Pier Giuseppe Murgia fornisce i seguenti dati, per più versi illuminanti, dei prefetti e dei questori nel 1960. I prefetti di 1.a classe sono 64: tutti, meno due, sono stati funzionari del Ministero degli Interni del governo fascista. I vice prefetti sono 241: tutti hanno fatto la loro carriera nella burocrazia del regime fascista. Gli ispettori generali di PS sono dieci, di cui sette hanno prestato la loro opera sotto il regime fascista. I questori sono 135 di cui 120 sono entrati nella polizia sotto il fascismo. Tutto questo, a distanza di sedici anni dalla caduta del fascismo, dimostra come la burocrazia statale fosse rimasta intatta rispetto al periodo fascista.

Quando si ventila l'idea che il Congresso nazionale del MSI venga convocato a Genova, Tambroni nomina Lutri questore di quella città. Lutri, durante il fascismo, era stato capo della squadra politica di Torino ed era noto per avere arrestato durante la Resistenza numerosi esponenti partigiani di «Giustizia e libertà». In città si era, intanto, accumulata una tensione soprattutto di tipo sociale. Genova costituisce una delle sacche di vecchia industrializzazione ed ha il porto e l'intera industria in crisi a seguito della riconversione civile dell'economia di guerra completata negli ultimi anni. A Genova poi la trasformazione era stata più pesante che altrove, con la fine dell'industria di guerra e la perdita di centralità della città, che in quegli anni vede scomparire anche tutta una serie di industrie leggere, dove erano occupate anche molte donne. Chiude infatti una rete di aziende tessili, dell'abbigliamento, anche un'industria chimica come la Mira Lanza.

Appena conosciuta la volontà di convocare il Congresso missino, a metà giugno, i partiti borghesi antifascisti (PCI, PSI, PRI, PR, PSDI) iniziano la campagna contro la convocazione, affiggendo in tutta Genova un manifesto a caratteri cubitali dove si legge «MSI — FASCISMO — NAZISMO» «NAZISMO — CAMERE A GAS». Il manifesto, di poche parole, ha un grande impatto sulla cittadinanza, perché fa riferimento a esperienze dirette che tutti avevano vissuto (1). Il 19 giugno il MSI tenta l'anteprima, inaugurando una sua sede a Chiavari. La risposta della città è immediata: migliaia di lavoratori bloccano la strada dove dovrebbe aprirsi la sede, nella quale rimangono rinchiusi cinque fascisti, ed impediscono agli altri di potervi affluire. Il 24 giugno a Genova un comizio, convocato dalla CGIL, viene vietato dalla Questura.

Il 25 giugno vi è uno sciopero generale dei portuali genovesi che sfilano dal porto fino al Sacrario dei Partigiani in Via XX Settembre, mentre una delegazione si reca in Prefettura a protestare contro la convocazione del Congresso. Contemporaneamente centinaia di professori ed assistenti della Università di Medicina, Scienze e Fisica sospendono gli esami e si recano in corteo alla Casa dello Studente, già sede delle camere di tortura delle SS. Altro comizio e relativo corteo con un migliaio di partecipanti viene organizzato dalle sezioni giovanili dei vari partiti antifascisti. Quando il corteo giunge all'altezza di Via XX Settembre, la Celere lo carica con camionette, manganelli e fumogeni. La reazione è immediata: lanci di pietre partono dal Ponte Monumentale. Scontri tra la forza pubblica e i giovani si susseguono davanti alla Chiesa di S. Stefano, in Corso Andrea Podestà, in Via Carcassi e in tutte le strade che si diramano da Via XX Settembre. I caroselli si infittiscono e si protraggono per qualche ora. Alle ore 20 l'epicentro degli scontri si sposta verso Piazza Corvetto, a Largo Lanfranco e davanti alla Prefettura.

Il 26 giugno si riuniscono tutti gli appartenenti ai Comitati di Liberazione Nazionale della Liguria e decidono le varie forme di protesta e di resistenza per impedire la convocazione del congresso missino. Poi, il primo grande comizio: nell'enorme Piazza della Vittoria parla Pertini davanti a 30.000 lavoratori. Il MSI non disarma, anzi arriva alla provocazione aperta annunciando che Carlo Emanuele Basile sarà a Genova «un'altra volta», per presiedere il congresso fascista. Basile era stato capo della Provincia di Genova durante la Repubblica di Salò ed era uno dei più odiati torturatori di partigiani.

Si giunge così al 30 giugno, con lo sciopero generale proclamato a Genova, che sarà la prova di forza contro il governo. Al mattino migliaia di donne portano tonnellate di fiori al Sacrario dei Caduti. Alle ore 15 tutti i lavoratori di Genova scendono nelle strade. Si forma un corteo, lungo chilometri, di 100.000 lavoratori che dai vicoli del porto e dalla cinta dei quartieri industriali, da Sampierdarena, da Voltri, da Conegliano, da Bolzaneto, da Sestri Ponente, invade il centro sfila in Via Garibaldi, Via XXV Aprile, Piazza De Ferrari. In piazza un sindacalista della Camera del Lavoro invita la folla a disperdersi. Nessuno gli ubbidisce; anzi i lavoratori risalgono indietro Via XX Settembre e in Piazza De Ferrari circondano cinque camionette della polizia. La Celere attacca la folla prima con un getto di acqua colorata a mezzo di autobotti, poi con lacrimogeni e caroselli. Diecine di migliaia di persone rispondono con pietre, bottiglie, tavole e sedie dei bar, sedie delle case, assi di legno dei cantieri edili, in scontri che si frazionano per tutto il centro. Colpi d'arma da fuoco partono dai celerini e un giovane rimane ferito. Epicentro degli scontri sono Piazza De Ferrari, Via Petrarca, Piazza Matteotti, Piazza Dante, sottoporta Soprana, Via Ravecca e Via Fieschi. In Piazza De Ferrari una camionetta, che non riesce a fendere la folla, viene bloccata e bruciata; un ufficiale della polizia viene gettato nella vasca della piazza e molti celerini sono malmenati e disarmati. Intanto altre tre camionette vengono incendiate in Via Petrarca, in Piazza Dante e avanti il Credito Italiano. Dai tetti alcuni poliziotti sparano, mentre un elicottero della polizia coordina e dirige l'azione. Nella stessa piazza Dante sorge una barricata formata da varie auto in sosta. Più di cento agenti rimangono feriti o contusi e feriti anche una sessantina di dimostranti. Cinquanta i lavoratori arrestati. Alle ore 20 la battaglia di strada continua con immutata intensità: si adoperano vasi da fiori, paletti e colonnine segnaletiche divelte. La demoralizzazione si impadronisce degli agenti, tantoché la questura convoca presso di sé i dirigenti dell'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) ai quali si appella per riportare la calma. Costoro girano con megafoni tra i manifestanti invitandoli a cessare gli scontri. La folla non ubbidisce subito perché ha la percezione di un tradimento e di un tranello, ma poi vede che la Celere si ritira e allora si allinea agli ordini dell'ANPI. Così il 30 giugno i lavoratori genovesi rimangono padroni delle strade, mentre carabinieri e Celere sono obbligati a ripiegare a presidio degli uffici pubblici.

E' a questo punto che i dirigenti del movimento riescono a convincere i dimostranti a tornare a casa. Scrisse Scalfari: «Soltanto l'opera di persuasione dei capi delle associazioni partigiane, che avevano promosso la manifestazione, era alla fine riuscita a calmare temporaneamente gli animi e a ottenere che la gente tornasse a casa». La lotta è però solo rimandata: per il 2 luglio viene proclamato lo sciopero generale in concomitanza con l'inizio del Congresso missino. Ma il governo non vuole cedere. Il giorno prima Portoria è bloccata da un triplo sbarramento di filo spinato; in Piazza De Ferrari cavalli di frisia impediscono l'accesso ai cantieri edili; carabinieri, agenti e guardie di finanza presidiano gli edifici pubblici; il teatro Margherita (ove doveva avere luogo il congresso) è presidiato dalla polizia insieme a tutte le strade laterali, banche e stazioni ferroviarie; tre compagnie autocarrate bloccano la cintura intermedia della città. Rinforzi di carabinieri affluiscono da tutte le città del Piemonte e numerosi battaglioni di celerini sono chiamati da varie città d'Italia. In totale affluiscono a Genova 7.000 tra poliziotti e carabinieri «con l'ordine di sparare sui manifestanti». Alla Camera il Presidente del consiglio Tambroni conferma che il congresso si farà.

Ma tutta Genova nella notte tra l'1 e il 2 luglio scende ancora una volta nella lotta di strada in un clima pre-insurrezionale: venti trattori agricoli, alla testa di una colonna proveniente da Portoria, avanzano per abbattere gli sbarramenti di filo spinato con cui la polizia aveva isolato Piazza De Ferrari e Via XX Settembre. Nei quartieri del porto nella notte di vigilia si erano confezionate centinaia di bombe molotov; nella cinta industriale intorno alla città si erano ricostituite le vecchie formazioni partigiane armate pronte a scendere in città; nei quartieri del Porto, di Via Madre di Dio, di Porta S. Andrea si erano costruite barricate alte due metri di pietre e legname. Si calcola che 500.000 lavoratori fossero mobilitati e pronti a scendere al centro il 2 luglio. E' a questo punto, all'alba del giorno 2, che il governo comprende di avere perso la partita e, per evitare rotture gravi, revoca alle ore 6 del mattino al MSI, il permesso di tenere il Congresso, mentre ottiene dai partiti di «sinistra» e dai sindacati la garanzia del mantenimento dell'ordine! Nelle lotte di quei giorni vennero arrestati 98 lavoratori genovesi: di questi 23 saranno ancora detenuti il 19 agosto 1960, quando verrà celebrato il processo che irrorerà molti anni di reclusione.




(La cronaca degli eventi è tratta da Renzo Del Carria: Proletari senza rivoluzione. Vol.V, ed. Savelli 1977, pagg. 13-19)

(1) Va ricordato, per correttezza storica e politica, che il Pci (togliattiano) tra l'agosto 1939 e il giugno 1941, sulla scia del patto Hitler-Stalin, prese le difese della Germania nazista di contro agli imperialisti democratici. La sua riconversione democratico-imperialistica avvenne dopo la rottura del patto scellerato, provocato dell'invasione tedesca della Russia.



Fonte: http://capireperagire.blog.tiscali.it/2005/06/29/genova__30_giugno___2_luglio_1960_1554214-shtml

http://www.fdca.it/repressione/ge-1960.htm




30 giugno 1927: le mondine in sciopero



Questo canto di lotta di fine ottocento e inizio novecento, che ancora oggi rimane famoso e anima la cultura popolare e militante, è stato composto dalle mondine del nord-ovest italiano, per chiedere la diminuzione della giornata lavorativa da dodici a otto ore.
Il 30 giugno 1927, 10.000 mondine scioperano nel vercellese, novarese e biellese, per difendere il proprio salario dalla riduzione del trenta percento, che agrari e dittatura fascista vogliono apportare.
Le mondine, sono le donne che nelle risaie lavorano per otto- dodici ore al giorno per “modare” il riso, con i piedi e le braccia totalmente immersi nell’acqua e martoriate dal sole e dagli insetti. Il lavoro della mondina inizia a giugno e finisce a metà luglio, ed è pagato una miseria, anche perchè essendo un lavoro “per donne” è sottinteso che sia pagato ancora meno di quello dei braccianti.
Il lavoro in risaia è duro, anzi durissimo, e costringe spesso le donne, molte giovanissime, a vivere nei casolari delle cascine vicine ai campi di riso. Questa situazione di miseria e sfruttamento offre però alle donne la possibilità di vivere un periodo dell’anno libere dal maschilismo domestico e quotidiano, offrendo reali possibilità di vivere momenti socialità femminile altra rispetto a quella vissuta dalle donne costrette a tornare in famiglia dopo il lavoro.
I primi scioperi delle mondine risalgono alla metà dell’ottocento, ma quello del 30 giugno del ’27 è fra i più significativi del ciclo di lotte contadine sotto la dittatura fascista.
Da febbraio, a causa di una diminuzione dei prezzi del riso, il padronato agrario, in accordo con i rappresentanti dei sindacati fascisti, decide di diminuire i salari delle mondine del trenta percento.
Fra le mondine, le organizzazioni clandestine dei lavoratori e il PCI clandestino, si iniziano a tenere assemblee e riunioni in molti cascinali delle campagne di Vercelli, Novara e Biella.
La parola d’ordine è: difendere il salario!
Viene stampato il giornale clandesitino dei contadini poveri e delle mondine: “La Risaia”. Viene chiesto a tutte le mondine di iniziare a scioperare, e da aprile iniziano i primi blocchi del lavoro in risaia, sempre seguiti da una durissima repressione poliziesca.
Il 30 giugno sono 10.000 le mondine che scioperano e che manifestano nelle campagne. La repressione fascista porta 100 di loro, fra cui anche molti contadini , ad essere arrestate, e una decina a essere condannate ad alcuni mesi di carcere.
La mobilitazione delle mondine spaventa talmente tanto il fascismo che le riduzioni del salario vengono ridimensionate notevolmente.
Anche se questa lotta ottiene solo una vittoria parziale, ha il merito di radicare l’organizzazione comunista nelle campagne della bassa piemontese e aiuta il movimento antifascista di resistere e crescere.