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mercoledì 15 maggio 2019

Decreto Salvini bis: lotta e sottomissione nell’Italia odierna


Più usuale che raro, è stato annunciato dal Ministro degli Interni un nuovo decreto.
Decreto di nome e di fatto, affinché si possa nuovamente utilizzare il deus ex machina dei canoni di urgenza e necessità, in barba ad ogni canone di ragionevolezza, violando qualsivoglia principio di democrazia, scavalcando, nuovamente, il potere legislativo.
È la ratio del racimolare il consenso, o per lo più, per spargere la vox del populismo di destra, ormai in cima alle Greatest hit in vista delle elezioni europee del 26 maggio 2019.
Come la legge 132 del 2018, anche la bozza del Decreto Bis [1] ha una natura bicefala, da un lato l’immigrazione, per contrastare sbarchi, accoglienza e Signor Sindaci che aprono i porti, dall’altro il mantra che ogni sceriffo dall’animo del buon padre di famiglia preserva: la sicurezza.
Ad aprire le danze successive ai visti normativi ci sono i Ritenuti, ove si evidenzia «la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure volte a contrastare prassi elusive dei dispositivi che governano l’individuazione dei siti di destinazione delle persone soccorse in mare. Tenendo conto dei peculiari rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica scaturenti dall’attuale contesto internazionale, al contempo valorizzando le attribuzioni stabilite dall’ordinamento in capo al Ministro dell’interno quale Autorità nazionale di pubblica sicurezza».
Fa riflettere l’utilizzo di una terminologia all’interno di questa narrazione dominante: si parla di fantomatiche “prassi elusive”, e per elusivo si intende, in italiano, la capacità di evitare, di sottrarsi a qualcosa con furbizia e abilità. Quanto è assurdo riferirsi col tenore di tali parole, alle operazioni di salvataggio e all’individuazioni dei porti sicuri in cui far approdare esseri umani?
Il decreto, in concreto, prevede che, se nello svolgimento di operazioni di soccorso in acque internazionali non si rispettano gli obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali (riferendosi a navi gestite da Ong) le sanzioni previste saranno di due tipi: da 3.500 a 5.500 euro per ogni straniero trasportato e, nei casi reiterati, se la nave è battente bandiera italiana, la sospensione o la revoca della licenza da 1 a 12 mesi.
Potrebbe terminare qui, e invece, il Viminale, modificando il codice della Navigazione, scavalca il Ministero delle Infrastrutture, attribuendosi poteri che vanno ben oltre gli Interni, un’ultrattività indiscriminata, che dovrebbe più che far rabbuiare i pentastellati, falli insorgere, se non per una questione politica, per un atto di dignità personale.
Nel secondo Ritenuto, si ravvisa per il Ministro «la necessità e l’urgenza di rafforzare il coordinamento investigativo in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina, implementando gli strumenti di contrasto a tale fenomeno». Strumenti che secondo il decreto si ravvisano nel potenziamento degli agenti sotto copertura, stanziando, per tale e specifica causa, un bel milione di euro.
Spostandoci dall’altro lato del binario, la sicurezza, sovvengono delle modifiche normative di notevole importanza.
L’art. 5 effettua delle modifiche al Regio Decreto del 18 giugno 1931 n.773, che già di per sé, attraverso denominazione e data, fa comprendere il contesto sulla quale si colloca la direzione politica del "Capitano". Bello sapere che, una legge del 1931 sulla Pubblica Sicurezza oltre ad essere viva e vegeta è, ad oggi, rafforzato in peggio.
A tale normativa, denominata Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (in acronimo TULPS), all’articolo 18, rubricato “delle riunioni pubbliche e degli assembramenti in luoghi pubblici”, si aggiunge che, nel caso siano commessi i reati di cui agli articoli 635 (danneggiamento) e 419 (saccheggio e devastazione) del codice penale, durante una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico, di cui non è stato dato avviso, almeno tre giorni prima, al Questore, i contravventori sono puniti con la reclusione fino a un anno.
Il commento da farsi in ordine a questa modifica è duplice: in primis, il reato di danneggiamento semplice è stato degradato in illecito civile e dunque depenalizzato con il decreto legislativo n. 7/2016, come si interpreterà questo corto circuito? Si può ripenalizzare un fatto tipico se e solo se inserito in un determinato contesto, quale quello di una manifestazione pubblica?
In secundis, non vi era alcun dubbio che prima o poi, il reato di Saccheggio e Devastazione, già caro ai protagonisti della criminalizzazione del movimento No Tav, ritornasse in auge, e questa volta nella forma più smagliante che mai.
L’art. 5 modifica anche l’art. 24 del TULPS, quest’ultimo descrive che, qualora le tre intimazioni (che devono essere precedute, attenzione, obbligatoriamente da uno squillo di tromba) i carabinieri REALI, ordinano il discioglimento della riunione. Il Decreto Bis di Salvini inserisce un comma, inasprendo, semmai pensavate fosse possibile, le pene previste nel 1931: «Nel caso di riunioni non preavvisate o autorizzate, la pena per i contravventori è della reclusione fino a un anno».
La creazione giuridica de quo, travalica il legislatore autoritario del regime fascista, dimenticando che, TULPS in vigore o meno, l’interprete è chiamato, obbligatoriamente, a sottoporre determinati fossili normativi al vaglio di costituzionalità.
Veniamo ora ad un’altra modifica normativa, l’art. 6 del Decreto Bis modifica la legge 22 maggio 1975, n. 152, che se rinominata “Legge Reale” sovviene subito alla mente. Questa legge nasceva con la ratio di combattere e reprimere duramente quanto accadde negli Anni di Piombo, leggi che fior fiori di penalisti hanno denominato “dell’emergenza”. Secondo la normativa Salviniana è punibile con la reclusione fino a due anni chi fa uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Il Decreto bis aggiunge il 5 bis alla Legge Reale specificando che «chiunque nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, per opporsi al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che richiesti gli prestano assistenza, utilizza scudi o altri oggetti di protezione passiva ovvero materiali imbrattanti o inquinanti, è punito con la reclusione da uno a tre anni».
È infelice, ma bisogna specificarlo: questa legge è scritta male in italiano e a livello normativo, non riescono a comprendersi bene le portate di talune frasi, quali ad esempio il riferimento all’ausilio di “coloro che richiesti gli prestano assistenza”. Volendo dunque specificare una sorta di “legittimità” per il privato cittadino che aiuti le forze di pubblica sicurezza.
Il diritto penale interviene nuovamente per sanzionare «chi lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere» punendo tali fatti, equiparando incolumità fisiche e integrità di cose sullo stesso piano, con la reclusione da uno a addirittura 4 anni.
Il decreto sopprime la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28) in caso di reato di violenza, resistenza, minaccia e oltraggio commessi a danno di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni. Nient’altro che depotenziare un decreto legislativo che tanto sta facendo, ed ha fatto, per incrociare l’intento deflattivo del legislatore.
Ma come si è arrivati a tutto questo?
Molto sembra approdare direttamente dalla mente del Ministro degli Interni, specie se da oltre un mese è in giro per l’Italia in campagna elettorale ed è contrastato da movimenti sociali e agglomerazioni di cittadini provenienti dalla società civile.
Eppure questa creazione normativa non è nient’altro che la messa in opera, per scomodare Foucault, all’interno di questa pseudo-pace travagliata da una guerra continua, di un rapporto di forza perpetuo.
Siamo di fronte ad un binomio che esula dal richiamato Immigrazione e Sicurezza, la sfida, ad oggi, è quella tra lotta e sottomissione.

per GIORGIANA MASI...ASSASSINATA il 12 MAGGIO 1977 DALLA 'DOTTRINA DI KO...

Salvini annuncia il Decreto Sicurezza bis: ulteriore stretta su migranti e manifestazioni

Il 10 maggio il Ministro degli Interni Salvini ha rilasciato la futura bozza del secondo Decreto Sicurezza. Il Decreto-legge prevede un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza costiera e di gestione dell’ordine pubblico, colpendo con pene pecuniarie chi presta aiuto e salva i migranti in mare e aumentando le pene detentive connesse a fatti avvenuti durante le manifestazioni.
La bozza si suddivide in tre parti, la prima inerente l’immigrazione, la seconda l’ordine pubblico e la terza la risoluzione degli arretrati amministrativi nell’esecuzione delle condanne penali definitive.
Per quanto riguarda la questione sbarchi, verranno colpite direttamente le persone, organizzazioni e semplici imbarcazioni che presteranno aiuto ai barconi con migranti presenti nel Mediterraneo. Questo viene fatto attraverso la formulazione di una pena pecuniaria, che può variare tra i 3500 e 5500 euro per ogni migrante aiutato, e di sequestro dell’imbarcazione medesima fino ad 1 anno con revoca di licenza di navigazione. Tutto questo può avvenire nel caso le navi non rispettino il diritto di navigazione internazionale, ovvero non lascino le persone salvate nel porto sicuro più vicino al punto di navigazione. Per le autorità porti sicuri sono considerati anche quelli libici, a dispetto delle condizioni disumane con coi sono trattati i migranti nei centri di detenzione del paese nordafricano e della situazione stessa del territorio, ormai in guerra civile dal 2011. Obiettivo del decreto è dunque quello di obbligare le navi che prestano soccorso a riportare le persone in Libia, eliminando così gli sbarchi sulla penisola.
Ulteriore modifica è l’allargamento dei poteri del Ministro dell’Interno che potrà limitare, per motivi di ordine pubblico, la navigazione e il transito di qualsiasi imbarcazione all’interno delle acque territoriali nazionali. Questo articolo prevede quindi una limitazione dei poteri del Ministero dei Trasporti e da a Salvini il controllo pressoché totale delle frontiere.
Un ultimo articolo, inerente la questione immigrazione, sostiene lo stanziamento di un milione di euro annui fino al 2021 per le operazioni sotto copertura delle forze dell’ordine con l’obiettivo di individuare i migranti e i soggetti che li aiutano. Il tutto attraverso il coordinamento con le forze di polizia libiche e l’intervento diretto su tale territorio.
La parte che riguarda la gestione dell’ordine pubblico prevede un inasprimento delle pene per reati avvenuti nell’ambito di manifestazioni. In particolare si sostiene la reclusione fino ad un anno nel caso di: manifestazioni non preavvisate o autorizzate e nel caso di atti di danneggiamento o ascrivibili al reato di devastazione e saccheggio. Si punisce inoltre con pena fino ai due anni l’uso di caschi nell’ambito di manifestazioni e con pena da 1 a 3 anni l’uso di scudi o oggetti di protezione passiva per proteggersi dalle cariche degli agenti di polizia; punito inoltre l’uso di qualsiasi oggetto pirotecnico, per es. i fumogeni, con pene da 1 a 4 anni di reclusione. Infine viene aumentata la pena massima per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale da 3 a 4 anni.
Il decreto-legge si sofferma poi sugli stanziamenti per l’ordine pubblico per le Universiadi a Napoli nel 2019, autorizzando quindi la spesa di 1 milione e 200 mila euro, e infine proroga l’abrogazione dell’art. 57, che sostiene la responsabilità penale del direttore di un mezzo di stampa per quanto pubblicato dal suo periodico, al 1 gennaio 2020 al posto che il 18 maggio 2019. Un ultimo stanziamento di fondi di 25 milioni e 660 mila euro è formulato poi per la costituzione di un commissario straordinario, con relativi 800 dipendenti, per l’esecuzione dei provvedimenti di condanna penale definitivi.
Il decreto è ad oggi solo una bozza e deve essere ancora vagliato dal Consiglio dei Ministri. Se dovesse essere approvato così come formulato finora, rappresenterebbe un ulteriore stretta sulla libertà di movimento, di manifestazione e di espressione del dissenso, già profondamente colpite con il Decreto Sicurezza approvato dal Parlamento il 27 novembre 2018.

A La Sapienza non si passa


Doveva esserci un comizio di Forza Nuova a Piazzale Aldo Moro, è finita con migliaia di persone che lo hanno impedito prendendosi la piazza nonostante le intimidazioni della polizia.
Qualche decina di militanti fascisti si sono fatti una passeggiata scortati dalla camionette, sommersi dagli insulti dei passanti e abitanti della zona. L'università non l'hanno neanche vista da lontano, non un gran risultato per chi si professa “salvatore della patria”.
L'intransigenza e la determinazione delle migliaia di giovani, docenti, ricercatori che si sono mosse in corteo dall'interno della città universitaria fino a strappare Aldo Moro è stato l'elemento, non scontato e decisivo della giornata. Mimmo Lucano arrivando ad Aldo Moro ha preso parola davanti alle migliaia di giovani ed è stato poi accompagnato alla conferenza che ha visto una grandissima partecipazione.
Tra i fatti del Salone del Libro e quelli della Sapienza è stato messo un punto. Dove ci sono i fascisti non può esserci libertà di opinione. La Sapienza non è stata difesa dall'amministrazione universitaria, non dalle istituzioni democratiche, ma dal protagonismo e dall'attivazione degli studenti, dei ricercatori, dei docenti che fin da subito ci hanno messo la faccia e hanno reagito con decisione alla chiamata di Forza Nuova. La Sapienza è antifascista non per un caso fortuito ma grazie all'impegno quotidiano di chi in questi anni ha sempre messo in campo tutto il necessario per cacciare i fascisti. Oggi è stata segnata un'altra pagina di antifascismo importante
Di questo va preso atto e da questo bisogna ripartire.
Il Rettore Gaudio si è nascosto dietro frasi di circostanza, appellandosi a vaghi problemi di ordine pubblico. Un atteggiamento inaccettabile che è stato contestato lungo tutta la durata della giornata. Il tentativo del rettore di farsi bello davanti alle telecamere serve a poco, in questi giorni si è preso la responsabilità di essere indifferente rispetto a quello che stava accadendo.
D'altra parte l'operato delle forze dell'ordine è stato ancora una volta intimidatorio. Dalla militarizzazione della città universitaria chiudendo gli accessi di quasi tutti i cancelli, alle camionette e reparti schierati contro gli studenti. La rapida passeggiata concessa e coccolata dalla Questura è stata fermata dal presidio che si è spostato immediatamente in direzione dei fascisti. In fondo il Ministro Salvini aveva già dichiarato di voler garantire la libertà di espressione ai fascisti. Il dispositivo securitario posto contro gli studenti è stato completamente disinnescato. La grande partecipazione ha ridicolizzato il divieto di piazzale Aldo Moro annunciato al concentramento della minerva dalla polizia.
In migliaia hanno detto chiaramente che non ci sono divieti per chi l’università la vive.
Il convegno con Mimmo Lucano si è tenuto con una partecipazione straordinaria.
Di questa giornata ci teniamo stretti l'entusiasmo, l'energia e la forza che sono state messe in campo da tutte e tutti noi.
Avevamo promesso che Forza Nuova non sarebbe entrata nella città universitaria e che non sarebbe neanche arrivata ad Aldo Moro, e cosi è stato.
Sapienza Clandestina

mercoledì 1 maggio 2019

O Cara Moglie #primomaggio

Per tutti coloro che ancora muoiono di lavoro... #primomaggio

1 maggio 1900 nasce Ignazio Silone

1 Maggio 1941 esce "Quarto potere" di Orson Welles

1 Maggio 1994 la morte di Ayrton Senna

1 Maggio 1945 Il suicidio di goebbels

1 maggio 1886 lo sciopero dei lavoratori di Chicago

1 Maggio 1947 la strage di Portella della Ginestra

domenica 28 aprile 2019

Estate 1944. Le stragi nazifasciste da non dimenticare ·


 

E’ in corso una vera e propria offensiva di recupero del fascismo: dalla spiaggia di Chioggia, ai campi estivi neo–nazisti, ai manifesti inneggianti alla bontà di governo di Mussolini.

Più in generale il clima è di allentamento al riguardo dei principi fondamentali dell’antifascismo, sulle sue ragioni profonde, sulla realtà storica dei fatti.

Ha contribuito a questa sorta di rilassatezza culturale l’attacco alla Costituzione tentato nel corso die mesi scorsi e (provvisoriamente?) respinto con il voto del 4 Dicembre 2016.

Per questi motivi è bene tener viva la memoria, perché senza di essa si smarrisce l’identità repubblicana dell’Italia: il profondo significato etico e politico di questa identità conquistata con la lotta.

Queste le ragioni del tentativo di rinnovo del ricordo contenuto in questo intervento, partendo dalle due stragi–simbolo compiute dai nazifascisti nell’estate del 1944 a Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto.

Intervento che si conclude con l’elenco delle 139 stragi compiute su tutto il territorio nazionale per un totale (secondo l’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia) di circa 23.000 vittime



Sant’Anna di Stazzema

All’inizio dell’agosto 1944 Sant’Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come “zona bianca”, ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione, in quell’estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide[10], gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case.

In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l’effettuazione con pieno successo di una “operazione contro le bande” da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella “zona 183”, dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l’ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell’operazione 270 “banditi” erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 “uomini sospetti” assegnati al lavoro coatto. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che “altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande” erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca

I nazistifascisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni(23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell’ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone.

Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona.

La ricostruzione degli avvenimenti, l’attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l’Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all’ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al pubblico ministero Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant’Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra.

Prima dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, impiccate, financo bruciate con i lanciafiamme.

Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portarono avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido furono fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), mentre a Bergiola i nazisti fecero 72 vittime.

MARZABOTTO

Dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema avvenuta il 12 agosto 1944, gli eccidi nazisti contro i civili sembravano essersi momentaneamente fermati. Ma il feldmaresciallo Albert Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che l’appoggiavano. Già in precedenza Marzabotto aveva subito delle rappresaglie, ma mai così gravi come quella dell’autunno 1944.

Capo dell’operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, comandante del 16º battaglione esplorante corazzato (Panzeraufklärungsabteilung) della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. La mattina del 29 settembre, prima di muovere all’attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. «Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Pànico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all’assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole», e fecero terra bruciata di tutto e di tutti.

Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 197 vittime, di 29 famiglie diverse tra le quali 52 bambini. Fu l’inizio della strage: ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. La violenza dell’eccidio fu inusitata: alla fine dell’inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini.

Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il numero delle vittime civili si presentava spaventoso: circa 770 morti. Le voci che immediatamente cominciarono a circolare relative all’eccidio furono negate dalle autorità fasciste della zona e dalla stampa locale (Il Resto del Carlino), indicandole come diffamatorie; solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l’entità del massacro.

13 giugno, la strage di Niccioleta

Il 13 giugno 1944, i reparti tedeschi e fascisti irruppero a Niccioleta per punire i suoi abitanti che, come in molte zone del grossetano, avevano disertato di presentarsi ai posti di polizia fascisti e tedeschi di Massa Marittima, in seguito ad un manifesto affisso in tutti i comuni della provincia di Grosseto, firmato da Giorgio Almirante. Sei minatori (Ettore Sergentoni, con i figli Aldo e Alizzardo, Rinaldo Baffetti, Bruno Barabissi e Antimo Ghigi) vennero fucilati subito nel piccolo cortile dietro il forno della dispensa, largo non più di tre metri. Il minatore Giovanni Gai riuscì a fuggire nella macchia, grazie ad un attimo di distrazione di un fascista di Porto Santo Stefano, Aurelio Picchianti, che si stava arrotolando una sigaretta. Altri 150 operai furono portati a Castelnuovo di Val di Cecina, e la sera del 14 giugno, 77 minatori vennero giustiziati sulla strada per Larderello, 21 deportati in Germania e gli altri liberati. In tutto perirono nella strage 83 operai di Niccioleta. Tra i cadaveri si scoprì tempo a dietro che c’erano anche i componenti della famoso gruppo partigiano la “Banda di Ariano”: Gianluca Spinola, Vittorio Vargiu, Franco Stucchi Prinetti e Francesco Piredda assassinati dai nazifascisti sempre il 14 giugno.



Elenco degli eccidi e delle stragi riconosciute (da Wikipedia)

A

Strage di Acerra
Eccidi dell’alto Reno

B

Eccidio di Barletta
Strage della Benedicta
Eccidio di Bergiola Foscalina
Eccidio della Bettola
Strage della valle del Biois
Massacro di Biscari
Bombardamenti di Foggia del 1943
Eccidio di Borga
Strage di Borgo Ticino
Eccidio di Boves
Eccidio di Braccano
Bus de la Lum

C

Eccidio di Cadè
Strage di Caluso
Strage di Campagnola
Strage del palazzo Comunale di Campi Bisenzio
Strage di Canicattì
Eccidio di Capistrello
Strage di Castello
Strage di Castiglione
Strage di Cavriglia
Eccidio del Colle del Lys
Eccidio di Cravasco
Strage di Cumiana

E

Eccidi di San Ruffillo
Eccidio di Santa Giustina in Colle
Eccidio de La Storta
Eccidio dei conti Manzoni
Eccidio dei XV Martiri di Madonna della Pace
Eccidio del Castello dell’Imperatore
Eccidio del Ponte dell’Industria
Eccidio del pozzo Becca
Eccidio dell’Aldriga
Eccidio della caserma Mignone
Eccidio della famiglia Arduino
Eccidio delle Fosse Reatine
Eccidio di Argelato
Eccidio di Bari
Eccidio di Cadibona
Eccidio di Caffè del Doro
Eccidio di Cavazzoli
Eccidio di Cibeno
Eccidio di Civitella
Eccidio di Codevigo
Eccidio di Crespino sul Lamone
Eccidio di Gardena
Eccidio di Guardistallo
Eccidio di Maiano Lavacchio
Eccidio di Malga Bala
Eccidio di Massignano
Eccidio di Monte Manfrei
Eccidio di Monte Sant’Angelo
Eccidio di Pessano
Eccidio di Piavola
Eccidio di Pietralata
Eccidio di Portofino
Eccidio di Pratolungo
Eccidio di San Michele della Fossa
Eccidio di San Piero a Ponti
Eccidio di Schio
Eccidio di Trivellini
Eccidio di Valdagno
Eccidio di Vallarega
Eccidio di Vattaro
Eccidio di via Aldrovandi
Eccidio di Malga Zonta

F

Strage di Falzano
Eccidio dell’aeroporto di Forlì
Strage di Forno
Strage delle Fosse del Frigido
Eccidio di Fragheto

G

Bombardamento di Grosseto
Strage di Grugliasco e Collegno

L

Eccidio di Salussola
Strage di Lasa
Strage di Leonessa

M

Martiri di Fiesole
Martiri ottobrini
Strage di Marzabotto
Strage di Matera
Strage della cartiera di Mignagola
Strage della Missione Strassera
Strage di Monchio, Susano e Costrignano
Eccidio di Montalto
Eccidio di Montemaggio

N

Eccidio di Nola

O

Operazione Ginny
Operazione Piave
Operazione Wallenstein

P

Eccidio di Procchio
Eccidio del Padule di Fucecchio
Strage di Pedescala
Strage di Penetola
Eccidio del Pian del Lot
Eccidio di piazza Tasso
Strage di Piazzale Loreto
Eccidio di Pietransieri
Eccidio di Ponte Cantone
Eccidio del ponte di Ruffio
Strage della Portela

R

Rastrellamenti di Villa d’Ogna
Eccidio della Righetta
Strage di Rionero in Vulture
Eccidio della Romagna
Eccidio di Ronchidoso
Strage di Rovetta

S

Eccidio di San Giacomo Roncole
Strage di San Polo
Eccidio di Sant’Anna di Stazzema
Eccidio di Scalvaia
Strage del collegino di Sesto Fiorentino
Strage di Solcio di Lesa
Eccidio di Soragna
Eccidio di Spino d’Adda
Strage del Duomo di San Miniato
Strage del pane
Strage della caserma di Anghiari
Strage della corriera fantasma
Strage della famiglia Einstein
Strage di Barbania
Strage di Corrubbio
Strage di Costa d’Oneglia
Strage di Gorla
Strage di Oderzo
Strage di San Benedetto del Tronto
Stragi di Ziano, Stramentizzo e Molina di Fiemme

T

Eccidio di Tavolicci
Eccidio di Testico
Eccidio del Torrazzo
Strage di Treschè Conca
Triangolo della morte (Emilia)
Strage del Turchino

U

Strage di Serra Partucci

V

Eccidio di Valdobbiadene
Eccidio di Vercallo
Eccidio dell’ospedale psichiatrico di Vercelli
Eccidio di Vinca


http://contropiano.org/news/politica-news/2017/08/12/estate-1944-le-stragi-nazifasciste-non-dimenticare-094699?fbclid=IwAR0ypcv8T_o9uUEHrRgHMUtlhFrD2q1ENyloc1n1hniBh7yoPirhaUYc4Ns

28 aprile 1971 la rivista Il Manifesto diventa quotidiano

28 aprile 1980 Renato Vallanzasca e Corrado Alunni evadono da San Vittore

28 aprile 1945 viene fucilato benito mussolini


Il 28 aprile 1945 Walter Audisio ufficiale addetto al Comando generale del CVL, col nome di battaglia di “Colonnello Valerio”, ricevette l’ordine di recarsi a Dongo, per eseguire la sentenza capitale decretata dal CVL nei confronti di Benito Mussolini, sulla base del decreto emesso, il 25 aprile 1945, dal CLN Alta Italia. L’art. 5 del decreto diceva: ” I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di avere contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il fascismo, compromessa e tradita la sorte del Paese e d’averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi, con l’ergastolo”.
Sull’esecuzione del capo del fascismo a Giulino di Mezzegra, il Colonnello Valerio ebbe a raccontare:
 “… cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra benito mussolini:
Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. “Credo che mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui. La petacci gridò enfatica: “mussolini non deve morire”. Dico alla petacci che s’era appoggiata a mussolini: “Togliti di lì se non vuoi morire anche tu“. La donna capisce subito il significato di quell’anche e si stacca dal condannato. Quanto a lui, non disse una sola parola: non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie, non un grido, nulla.
Tremava livido di terrore e balbettava con quelle grosse labbra in convulsione: “Ma…ma…ma…ma signor colonnello. Ma…ma…ma signor colonnello“. “Nemmeno a quella donna che gli saltellava vicino, che si muoveva di qua e di là, disse una sola parola. No: si raccomandava nel modo più vile, per quel suo grosso corpo tremante: solo a quello pensava: a quel grosso corpo appoggiato al muretto”. “(…) Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato. Manovro l’otturatore, ritento il tiro ma l’arma non spara. Passo il mitra a Guido (Aldo Lampredi, ndr.), impugno la pistola: anche la pistola si inceppa. Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, aspettandomi, malgrado tutto, una qualunque reazione. Ogni uomo normale avrebbe pensato di difendersi ma mussolini era al di sotto di ogni uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile con la bocca semiaperta e le braccia penzoloni. Chiamo a voce alta il Commissario della 52a che viene di corsa a portarmi il suo Mas. Adesso gli sono di fronte, come prima: egli non si è mosso, continua il suo balbettio di invocazione. Vuol salvare solo quel grosso corpo tremante. E su quel corpo scarico cinque colpi“. “Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. Non era ancora morto, gli tirai una seconda raffica di quattro colpi. La petacci, fuori di sé, stordita, si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a terra. mussolini respirava ancora e gli diressi, sempre col Mas, un ultimo colpo al cuore. L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva troncato netto l’aorta. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945“.
Il 29 aprile il suo cadavere viene esposto impiccato a testa in giù, accanto a quelli della stessa petacci e di altri gerarchi, in piazzale Loreto a Milano, dove viene lasciato alla disponibilità della folla, che infierisce sul cadavere. In quello stesso luogo, otto mesi prima i nazifascisti avevano esposto e dileggiato, quale monito alla Resistenza italiana, i corpi di quindici Partigiani uccisi : Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo Del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo e Vitale Vertemati

sabato 27 aprile 2019

27 aprile: morte di Antonio Gramsci e Danilo Montaldi

Il 27 aprile 1937 muore, nella clinica di Quisisana a Roma, Antonio Gramsci, dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste.
Il 27 aprile 1975, in un mondo radicalmente mutato in soli 37 anni, moriva invece Danilo Montaldi, anch’egli, come Gramsci, militante comunista, intellettuale e scrittore. Apparentemente una distanza abissale separa i due personaggi: autore di fama mondiale, inserito ufficialmente nel canone della letteratura e della storiografia italiane, il primo, sconosciuto ai più il secondo; protagonista della stagione classica del movimento comunista (dal 1917 agli anni precedenti la seconda guerra) l’uno, partecipe della crisi storica del progetto marxista-leninista tradizionale (dopo il 1945) l’altro. Gramsci visse la fase ascendente della dittatura del proletariato nell’URSS, sposando anche una rivoluzionaria bolscevica, Julia Schucht, da cui ebbe due figli; Montaldi maturò la scelta di abbandonare il PCI nel 1946, proprio a causa della consapevolezza della degenerazione burocratica che aveva interessato successivamente il socialismo sovietico, nella sua fase discendente. Nonostante queste e altre differenze biografiche, culturali e politiche, molti aspetti permettono di accostare le due figure nel segno della caratteristica più importante e tipica dell’intellettuale militante/comunista tra primo e secondo novecento: il tentativo di precisare una strategia per la distruzione della società capitalista, regolarmente in contrasto con le stesse organizzazioni ufficiali della politica socialista e comunista.
Gramsci era nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, e si era trasferito a Torino per motivi di studio, in estrema povertà, nel 1911. Arrivò nella città sabauda con 45 lire in tasca, avendo speso 55 lire per il viaggio delle 100 dategli dalla famiglia; negli anni successivi sarebbe sopravvissuto grazie a una delle 19 borse di studio da 70 lire mensili messe a disposizione dall’università di Torino per gli studenti poveri del Regno. Negli anni dell’università supera le posizioni sardiste, immettendole nella più ampia e globale idea socialista; presso il numero 12 dell’odierno corso Galileo Ferraris frequenta la federazione giovanile socialista e la sede dell’Avanti, dove inizierà la sua carriera di scrittore grafomane, furioso e tenace, producendo in dieci anni migliaia di pagine di riflessione politica, filosofica e di costume. In quegli anni è anche molto impegnato come critico teatrale (anche se ignorato dal mondo ufficiale dell’arte), risultando il primo critico ad aver scoperto e valorizzato il teatro di Luigi Pirandello (ben prima del più noto critico Adriano Tilgher, come lo stesso Gramsci rivendicava con orgoglio).
Nel 1917 segue gli eventi russi e diviene fervente sostenitore della rivoluzione bolscevica; nel 1919 fonda il giornale Ordine Nuovo; tra il 1919 e il 1920 definisce la linea dei giovani militanti socialisti che, a differenza del ceto politico del partito, appoggiano e promuovono le lotte operaie del biennio rosso che, con particolare forza a Torino, Milano e Genova procedono all’occupazione armata delle fabbriche e in molti casi alla loro autogestione e direzione produttiva. Dopo che l’assalto operaio al potere di fabbrica fallisce a causa dell’immobilismo/tradimento della dirigenza socialista, nel 1921 è parte del gruppo di militanti che, a Livorno, accoglie le indicazioni dell’Internazionale Comunista, proclamando la necessità di formare un’organizzazione rivoluzionaria costituita da avanguardie dedite alla promozione del conflitto operaio, per una presa del potere di tipo sovietico, fondando il Partito Comunista d’Italia e, successivamente, il giornale l’Unità. Dopo aver compiuto diversi viaggi in Unione Sovietica come rappresentante della sezione italiana dell’Internazionale, e dopo aver trascorso periodi come esule, soprattutto a Vienna, a causa delle prime repressioni fasciste dopo il 1922, torna in Italia con l’immunità parlamentare, essendo stato eletto deputato il 6 aprile 1924.
Poche settimane dopo, il 10 giugno, una banda di fascisti uccide un deputato socialista, Giacomo Matteotti, e gran parte dell’opinione pubblica è turbata e scandalizzata dall’accaduto. Per protesta tutti i gruppi d’opposizione abbandonano i lavori parlamentari, ma tra essi è solo quello comunista, capitanato da Gramsci, che chiede di fare l’unica cosa sensata, ossia proclamare lo sciopero generale. I socialisti temono che il ricorso allo sciopero favorisca il desiderio diffuso di una rivoluzione di tipo bolscevico, i liberali e i cattolici temono socialisti e comunisti molto più dei fascisti, e si appellano sterilmente al Re come supposto garante di una legalità che il delitto Matteotti avrebbe infranto. Tutto questo produce uno stallo durante il quale aumenta la tensione reale nel paese, finché, il 12 settembre, il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram, per vendicare Matteotti, il deputato fascista Armando Casalini, e si scatenano le ondate della repressione più dura, con lo scioglimento di tutti i partiti d’opposizione e l’arresto di militanti e dissidenti. Lo stesso Gramsci sarà arrestato dopo due anni di sforzi nell’opposizione politica al fascismo, e si dedicherà in prigione alla scrittura della sua opera più famosa e internazionalmente conosciuta, i Quaderni del carcere.
Una delle tesi contenute nei Quaderni, quella della necessità di conquistare la direzione politica della società attraverso un’egemonia culturale antagonista, verrà riletta in modo moderato dal PCI del dopoguerra, passato nelle mani di Togliatti, interessato a bloccare, su ordine di Stalin, ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Una tesi ben più complessa e articolata viene banalizzata come grimaldello ideologico volto all’annacquamento della pratica rivoluzionaria (occorre conquistare l’egemonia culturale in primo luogo, quindi la presa del potere politico è rimandata…) a tutto vantaggio della coesistenza pacifica tra due superpotenze capitaliste, l’URSS (capitalismo di stato) e gli USA (capitalismo di mercato). È in questi anni che Danilo Montaldi, nato nel 1929 a Cremona, esce dal PCI di cui era militante e si dedica ad un’attività organizzativa continua e inusuale, attraverso la frequentazione attiva di gruppi cui non aderisce formalmente (Partito Comunista Internazionalista, Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) o la fondazione di gruppi che talvolta successivamente abbandona (Gruppo di Unità Proletaria, 1957, e Gruppo Karl Marx, 1966).
Se Gramsci concepì il suo compito come quello della fondazione del comunismo in Italia, inteso come prospettiva specifica nel panorama socialista (consistente, in base all’insegnamento di Lenin, nel rifiuto totale della guerra e nella direzione politica del conflitto sociale allo scopo di provocare una presa diretta del potere), Montaldi si mosse in un quadro dove la stessa soggettività comunista organizzata era divenuta compatibile con la società capitalista, trasformandosi in conservazione sociale burocratica dove era al potere e in involucro retorico di una sostanziale socialdemocrazia dove era all’opposizione. In particolare il compito del militante del dopoguerra è non solo costruire organizzazioni alternative (di qui le critiche di Montaldi ai trotzkisti, che a questo si limitavano), ma anzitutto indagare direttamente le condizioni di lavoro e di lotta della classe operaia. Negli anni della ricostruzione postbellica l’operaio è chiamato a vendere la sua forza lavoro al capitale in nome di uno sforzo presentato come trasversale alle classi, ma l’interesse alla ricostruzione è l’interesse del capitale, poiché l’operaio non può che trarre giovamento dalla distruzione del sistema esistente.
L’antagonismo operaio non va però, per Montaldi, imposto intellettualmente e astrattamente dall’avanguardia ai lavoratori; l’operaio non è oggetto di studio e di intervento dei comunisti, semmai soggetto, esattamente come loro. Egli si dedica quindi a una ricerca sul campo circa le reali condizioni e aspirazioni operaie e contadine, impegnandosi affinché fossero essi stessi a raccontarsi e ad esprimere la loro realtà, negli anni in cui la sinistra ufficiale maturava invece quel distacco reale dalla classe di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. Ne saranno risultato opere come Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati (1960, con Franco Alasia), Autobiografie alla leggera (1961) e Militanti politici di base (1971). Questo attivismo in cui l’agitazione politica e l’inchiesta diventano una cosa sola costituirà il nocciolo della pratica che verrà battezzata “con-ricerca” da Romano Alquati e, assieme alle analisi fortemente anticonformiste della soggettività operaia di Raniero Panzieri, apriranno la strada alla grande stagione dell’operaismo italiano che, mettendo al centro la classe e il suo conflitto reale contro l’accumulazione capitalistica (anche e soprattutto al di fuori dagli orizzonti del partito e del sindacato), imporrà all’attenzione delle nuove generazione il problema della conquista dell’autonomia operaia.
È qui, a ben vedere, che Gramsci e Montaldi si incontrano: entrambi hanno dovuto non soltanto vivere la contrapposizione del comunismo alle forze riformiste o democratiche – o fasciste – ma anche quella tra classe oppressa e organizzazioni esistenti della sinistra: in riferimento al tradimento del PSI durante il biennio rosso il primo, e in relazione al tradimento del PCI con la politica della coesistenza democratica il secondo. I germi dei loro scritti, come spesso accade, non hanno ancora prodotto tutta la potenza dei loro frutti (anche a causa di una loro banalizzazione scolastica, come nel caso di Gramsci, o della loro espulsione dai circuiti editoriali ed educativi, come nel caso di Montaldi) nonostante abbiano già influenzato molte generazioni; lette in prospettiva storica, restano un esempio irrinunciabile di abnegazione militante e di intelligenza rivoluzionaria. L’anticonformismo politico e l’autonomia di pensiero di entrambi è caratterizzata da ciò che il vero comunista sa di dover sempre far propria, ossia l’attitudine all’eresia, anche rispetto alla propria stessa tradizione di pensiero.
Per questo tra le righe più potenti di Gramsci resteranno sempre quelle, splendide, da lui dedicate all’Ottobre Rosso: “La rivoluzione dei bolscevichi è […] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico […] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili”.

27 aprile 1976 Gaetano Amoroso

 
Gaetano Amoroso, insieme ad altri compagni del Comitato rivoluzionario antifascista di porta Venezia, fu aggredito e accoltellato la sera del 27 aprile 1976, in via Uberti, da un gruppo di fascisti.
Aveva 21 anni, lavorava all’Acfa come disegnatore di fibbie e, studente-lavoratore, di sera frequentava l’ultimo anno del corso serale presso la Scuola artistica del Castello che oggi porta il suo nome.
Era entrato giovanissimo a far parte della lega degli artisti del Vento rosso, organismo di massa del Partito comunista marxista leninista, nella quale aveva trovato il modo di esprimere le sue esigenze politiche e artistiche, dipingendo murales.
Nella fabbrica, in cui lavorava col padre, si era impegnato con altri operai in una autogestione di mesi contro la chiusura della stessa; nel quartiere si batteva contro le speculazioni edilizie, partecipando all’ occupazione della casa di piazza Risorgimento.
La presenza fascista all’interno del quartiere in cui viveva e una forte spinta antifascista dopo l’uccisione di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi lo spinsero a creare ed organizzare, insieme ad altri compagni, il Comitato antifascista di porta Venezia.
Fu a causa del suo impegno democratico e antifascista che, la sera del 27 aprile venne aggredito da un gruppo di noti squadristi (Cavallini, Folli, Cagnani, Pietropaolo, Terenghi, Croce, Frascini, Forcati), tutti provenienti alla sede del Msi di via Guerrini.
Gli otto assassini fascisti furono arrestati poche ore dopo il fatto: l’accusa iniziale di aggressione fu trasformata, quando il 30 aprile Gaetano morì per le ferite subite, in quella di omicidio premeditato e tentato omicidio pluriaggravato, quest’ultima per il ferimento di due compagni di Amoroso.http://www.pernondimenticare.net/chi-siamo/306-gaetano-amoroso
materiali storici
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Striscia di Gaza,15 ragazzini tra i 60 feriti nella Grande Marcia del Ritorno

"Agenzia stampa Infopal - www.infopal.it"  Decine di cittadini palestinesi sono rimasti feriti, venerdì, quando l’esercito di occupazione israeliano ha aperto pesantemente il fuoco contro i manifestanti che hanno preso parte alla Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza.
Portavoce del ministero della Sanità, Ashraf al-Qidra, ha reso noto che 60 palestinesi sono stati feriti dai colpi israeliani, tra cui 15 bambini, un paramedico e un giornalista.
A decine sono rimasti asfissiati dai gas lacrimogeni.
Centinaia di palestinesi hanno manifestato lungo il confine tra la Striscia di Gaza e i territori palestinesi occupati del 1948 nel 56° venerdì della Grande Marcia del Ritorno.
I Palestinesi della Striscia di Gaza hanno lanciato la Grande Marcia del Ritorno il 30 marzo 2018 per chiedere il ritorno dei rifugiati nelle loro terre e case la fine del blocco di 13 anni sull’enclave.
Dall’inizio delle proteste, l’esercito israeliano ha ucciso 284 palestinesi e ha ferito oltre 32.000 altri.

27 aprile 1994 in Sudafrica le prime elezioni democratiche

27 aprile 1981 le Brigate Rosse sequestrano Ciro Cirillo

27 aprile 1960 il Togo conquista l`indipendenza

27 aprile 1937 muore Antonio Gramsci

27 aprile 1945 benito mussolini e claretta petacci vengono arrestati





gh’è chi el crapùn

venerdì 5 aprile 2019

SALO’: REVOCARE LA CITTADINANZA ONORARIA A MUSSOLINI NEL COMUNE SIMBOLO DELLA RSI

Il consiglio comunale di Salò sarà chiamato nei prossimi giorni ad esprimersi sulla richiesta di un consigliere di opposizione Stefano Zane a nome della sua lista Scelgo Salò, di revocare la cittadinanza onoraria che il commissario prefettizio con un decreto conferì a Benito Mussolini.
La vicenda assume un particolare risalto simbolico-politico perchè il comune gardesano è considerato, vedremo se a torto o a ragione, la capitale della Repubblica sociale italiana, costituita dal Duce su volere di Hitler dopo l’armistizio firmato dal Regno d’ Italia con gli Alleati l’8 settembre 1943.
Ma ha  senso togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini dopo così tanti decenni e considerato che le amministrazioni dopo la Liberazione , anche guidate da ex partigiani,  non l’hanno fatto?
Questa discussione potrebbe presto interessare anche la città di Brescia, dove non è ancora chiaro se il duce abbia ancora la cittadinanza onoraria datata 1924 o se questa sia stata cancellata dal sindaco della Liberazione Ghislandi.
Abbiamo sviscerato la questione in una trasmissione, allargando la riflessione ad altri aspetti: le reazioni scatenatesi, le attività del Centro studi sulla Repubblica sociale di Salò e della sezione a questa dedicata del Museo cittadino, Musa; del rischio che Salò diventi la Predappio del Garda e dell’eredità lasciata dall’esperienza della Rsi nella zona del lago e nella provincia bresciana; ci siamo avvalsi dei contributi di Stefano Zane, consigliere comunale con tradizione famigliare partigiana e antifascista; di Antonio Bontempi presidente dell’Anpi medio Garda e di due storici, studiosi del fascismo e della Resistenza: Mimmo Franzinelli e Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia Ascolta o scarica

Bologna, 6 aprile. Contro il razzismo di governo: Manifestazione delle/dei migranti



Migranti e richiedenti asilo, donne e uomini, non è più tempo di avere paura. È tempo di manifestare contro il razzismo del governo che ci vuole clandestini e sfruttati. È tempo di scendere in piazza contro la legge Salvini e la sua applicazione:


- Non vogliamo più aspettare mesi per avere risposte dalla commissione territoriale. Non accettiamo dinieghi dopo le persecuzioni e le violenze subite nei paesi di provenienza e durante il viaggio. Non accettiamo dinieghi mentre siamo sfruttati nei magazzini e nelle cooperative, spesso in nero o con contratti brevi tramite agenzie interinali, attraverso tirocini o lavori non pagati.

- Non accettiamo che il permesso di soggiorno sia un ricatto contro le donne migranti che, dopo aver subito violenze lungo il viaggio, sono esposte a molestie nelle strutture d’accoglienza, nelle case, nei magazzini e in altri luoghi di lavoro.

- Non accettiamo che il Comune neghi la residenza: vogliamo avere accesso ai servizi sociali e alla sanità. Non accettiamo la chiusura dei CAS: non vogliamo finire nel centro regionale di via Mattei oppure per strada perché nessuno affitta ai migranti.

- Non accettiamo l’allungamento a quattro anni dei tempi per ottenere la cittadinanza. Non accettiamo che siano concesse sempre meno carte di soggiorno. Rifiutiamo il ricatto della legge Bossi-Fini che impone ogni anno di dimostrare di avere una casa, un lavoro e un reddito sufficiente.

Mentre progetta di aprire nuovi centri di detenzione ed espulsione, questo governo razzista vuole trasformare i richiedenti asilo in forza lavoro usa e getta, senza diritti e con salari sempre più bassi, come i migranti che vivono da anni in questo paese. Per questo vogliamo per tutte e tutti, migranti e richiedenti asilo, un permesso di soggiorno, per muoverci liberamente e costruire una vita migliore!


Per la libertà dei/delle migranti!
Sabato 6 aprile, ore 16
Piazza Nettuno (Piazza Maggiore) – Bologna

Per info e adesioni: coo.migra.bo@gmail.com ; 3275782056

Coordinamento Migranti – Arci Bologna - Asahi Modena – Ass.ne senegalese Chaikh Anta Diop – Ass.ne Guineana dell'Emilia-Romagna - Ass.ne lavoratori marocchini – Ass.ne Eritrea democratica – Ass.ne Sopra i Ponti – Associazione Studenti Migranti UNIBO - Centro di Salute Internazionale e Interculturale - Circolo Anarchico Berneri - Comunità Pakistana Bologna – Diaspora Africana Modena – Diaspora Ivoriana d’Emilia Romagna – Laboratorio Smaschieramenti - Pratello R'Esiste -Scuola Italiano Aprimondo - Si Cobas - Sokos - Unione Sindacale Italiana - Vivere insieme in pari dignità

Simone di Torre Maura





Gli si crea subito una folla intorno, ma lui non si fa intimidire. Nella voce, che trema appena, c'è la consapevolezza di stare andando controcorrente, una corrente fascista e carica di odio che non lo attacca subito forse solo perché stupito della sua giovane età, e del suo coraggio.

Simone ha solo 15 anni e davanti a lui ci sono gli esponenti di Casapound. Siamo a Torre Maura, da ieri sera un campo di battaglia per l'arrivo di 70 famiglie rom ospitati dal centro di accoglienza di via dei Codirossoni. 
Casapound è arrivata quasi subito, cavalcando la protesta, alzando cori razzisti e aizzando le persone a dire bestialità come "bruciateli vivi". Bruciare vive quelle famiglie, quei bambini, chiamati 'scimmie' e prese a sassate e sputi. Scene da Medioevo.

Simone ha solo 15 anni, ma il cuore e il cervello maturi al punto da capire dove sta la verità: "questa gente è trattata come merce, nessuno deve essere lasciato indietro".
"È sempre la stessa cosa, quando ti svaligia casa un rom tutti dobbiamo andargli contro, se lo fa un italiano allora stiamo tutti zitti. Si va sempre contro la minoranza, a me non mi sta bene".
Casapound gli risponde, cerca di sminuirlo: "sei uno su cento, solo tu pensi queste cose".
"Almeno io penso" risponde Simone, "almeno io non mi faccio spingere dalle cose vostre per raccattare voti". "E perché" lo aggredisce Casapound, "quelli della tua fazione politica non ci vengono qui?". "Io non ne ho fazione politica, io so de Torre Maura, tu di dove sei?" attacca Simone, che inizia a scaldarsi, prima che una donna lo tiri via, attaccando i giornalisti: "non potete riprenderlo, è minorenne". #torremaura#antifa #apiazzaleloretoceancoraposto#fuckfascism #norazzismo