Powered By Blogger

domenica 30 settembre 2018

30 settembre 1977: i Nar uccidono Walter Rossi


Il 30 Settembre 1977 venne organizzato una manifestazione per protestare contro i gravi fatti avvenuti nei giorni precedenti: il ferimento di una giovane di sinistra  a opera di neofascisti.
Il clima era teso in quel periodo, le azioni fasciste contro i militanti di sinistra all’ordine del giorno.
Un gruppo di compagni del movimento si trovò in Viale medaglie d’oro, vicino ad una sezione del Movimento Sociale Italiano da cui uscirono alcuni militanti di estrema destra che, preceduti da un blindato della polizia che si trovava nelle vicinanze, avanzarono verso i manifestanti.
Dal gruppo dei neofascisti furono sparati alcuni colpi di pistola verso alcuni giovani ed uno di questi colpì Walter Rossi alla nuca che morì prima dell’arrivo in ospedale.
Insieme a lui, un’altra persona venne raggiunta dagli spari, un benzinaio che rimase ferito.
Durante i funerali che si tennero nei giorni successivi, 100 mila persone salutarono Walter sulle note dell’Internazionale.
Cortei e manifestazioni riempiono le giornate successive in tutta Italia, con sedi e ritrovi dei fascisti devastati e dati alle fiamme.
In seguito non venne preso nessun provvedimento nei confronti dei poliziotti presenti.
Con ampio ritardo, vennero arrestati 15 fascisti tra i quali Riccardo Bragaglia, risultato positivo al guanto di paraffina.
Ben presto verranno però scarcerati e prosciolti dall’accusa di omicidio volontario e tentato omicidio, e in seguito da quella di rissa aggravata.
Nel 1981 alcuni pentiti indicarono nei fratelli Fioravanti e in Alibrandi i possibili assassini.
Cristiano Fioravanti, arrestato per appartenenza ai Nar, ammise di essere stato presente ai fatti armato di una pistola, a suo dire difettosa, fornitagli da Massimo Sparti.
Attribuì ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale.
In seguito alla morte di Alibrandi in uno scontro a fuoco con la polizia, il procedimento penale fu archiviato. Fioravanti, che ora vive sotto falso nome coperto dallo Stato, venne condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa solo per i reati concernenti le armi.
Paradossalmente, la vicenda giudiziaria si è definitivamente chiusa nel 2001 con l’incriminazione di tre compagni di Walter per falsa testimonianza.
Nel 1997 è stata aperta l’ “Associazione Walter Rossi” che si occupa D’individuare i responsabili dell’omicidio, ma anche di raggiungere la verità sulle uccisioni di altri militanti della sinistra e sulle stragi e gli attentati che hanno caratterizzato il nostro paese durante gli anni di stabilizzazione violenta del potere che si è espresso attraverso la strategia della tensione.
” Per rendere giustizia alla memoria di quegli anni, sconfiggere la criminalizzazione delle lotte, opporre un rifiuto al revisionismo storico che intende relegare l’antifascismo e il comunismo fra i fatti ormai superati, che ci vorrebbe uniformati e integrati in una società basata sull’ingiustizia e l’oppressione.”

per Walter Rossi

venerdì 14 settembre 2018

Sulla nostra pelle

La prima cosa che viene alla mente dopo aver visto "Sulla mia pelle", il film di Alessio Cremonini sulla vicenda di Stefano Cucchi, è che l'omicidio poliziesco del geometra romano ci parla di una enorme questione politica. Per quanto possa sembrare scontato, è giusto ribadirlo con forza, contro il tentativo di definirlo un semplice "caso mediatico" e la riduzione a fenomeno ''di costume'' di una vicenda che è molto altro. 
Sulla nostra pelle
Non solo perché solo l'enorme numero di proiezioni autorganizzate e il battage mediatico che hanno preceduto l'uscita del film hanno fatto capire benissimo che non stiamo parlando di un caso di cronaca nera, ma di qualcosa che ha inciso su livelli ben più profondi della società, nella sua coscienza collettiva, anche se magari come rimosso.

Ma anche perché la vicenda di Stefano esprime la realtà che tanti in questo paese vivono: quella della marginalità, della voglia di rifuggirla, e degli ostacoli incontrati nel percorso. Il film descrive una cosa chiara ad ogni uomo o donna, fuori da ogni ipocrisia: la polizia è il primo ostacolo. Un ostacolo che si frappone non solo su chi la sfida apertamente, ma potenzialmente su chiunque.

È questo uno dei meriti del film, e ci fa comprendere perché - anche prima di vederlo, che coda di paglia! - le associazioni e i sindacati polizieschi già strepitassero rancorosi. La polizia, tutta la polizia, è nemica di tutti coloro che non hanno alcun guadagno dalla tenuta di questo ordine.

Non c'è retorica sulla mela marcia, nel film. Attraverso le molteplici forme in cui Stefano esprime la sua totale sfiducia nelle istituzioni, nella polizia, nel carcere, nel settore sanitario capiamo che il tratto dominante in un ragazzo vissuto in questi ultimi dieci-quindici anni è quello della mancanza di fiducia, la disillusione verso un sistema ritenuto nemico.

E la sfiducia va in primis verso chi ti può attaccare, altro che proteggere. Anche mentre stai parlando con un amico una sera. Ovvero sempre la polizia. È un film che sancisce una realtà talmente riconosciuta da essere palese agli occhi di tutti. Stefano Cucchi non è un caso di cronaca nera.

Stefano Cucchi è una delle tante vittime della guerra ai poveri in corso nel nostro paese. Quella che conduce a dotare di taser le forze dell'ordine, quella che necessita di battaglie mediatiche a favore di chi già gode della totale impunità. Quella che sgombera centinaia di senza casa che vivono nelle periferie dominate dalla speculazione, come si intravede in una delle prime scene del film quando Stefano cammina tra palazzi in costruzione che probabilmente non verranno completati mai.

Non c'è, non ci può essere una polizia democratica: perché la polizia di per sé è istituto a servizio dello Stato, il quale è costruito per servire gli interessi dei grandi gruppi economici, che sono contrapposti a quelli della stragrande maggioranza della popolazione. Non a caso uno dei cori più cantati nei cortei è diventato 'Tout le monde deteste la police'.

E tra i grandi gruppi economici ci sono anche le mafie. Lo diciamo perché la scusa dell'essere uno spacciatore o un tossico è stata usata contro Stefano tante volte negli anni, per screditarne la memoria, per inquinare il racconto dei fatti. Ed è una cartina di tornasole dello stato di cose odierne, dove dobbiamo fare lo sforzo di dire che un giovane pusher è da includere non dentro la categoria della devianza o del crimine. Bensì in quella dello sfruttamento di classe, dove Stato e cartelli del narcotraffico costruiscono in simbiosi le condizioni affinché migliaia di persone debbano ricorrere all'economia informale per sopravvivere.

Persone costrette a vivere di illegalità da un sistema che se ne nutre per costruire una identità al suo nemico, che si rinforza attraverso la continua costruzione di un deviante che ne legittimi il ruolo repressivo. Dietro la vicenda di Stefano c'è tutto questo, la volontà di ridurre uno come tutti noi ad un criminale.

Stefano non era un santo, come nessuno di noi lo è, e il racconto crudo del suo personaggio aiuta. Non è un personaggio positivo, né negativo. È uno come noi, stritolato da un orizzonte di merda. La scena in cui un fantastico Alessandro Borghi chiede di consegnargli della cioccolata vogliamo pensare che sia fatta apposta per rendere Stefano quello che è. Una vittima di un conflitto quotidiano che crea un nemico al fine di dare un senso al suo vuoto.

Il grande lavoro di denuncia di Ilaria Cucchi ha permesso che una vicenda che poteva rimanere privata abbia un significato e un impatto pubblico. Il film suggerisce anche a chi, malgrado tutto, vede nello Stato e nella legalità dei pilastri della convivenza civile, che forse la vicenda è un po' più complessa. Per questo non possiamo che consigliarne la visione. 

14 settembre 2008: Milano, l'omicidio di Abba

La mattina del 14 settembre, dopo aver trascorso la notte in un locale di Milano, Abdul, John e Samir si dirigono con i mezzi pubblici in via Zuretti, vicino alla Stazione Centrale, con l'intenzione di proseguire la serata al centro sociale Leoncavallo.
Durante una breve sosta ad un bar vengono raggiunti da un furgone da cui scendono due uomini; Fausto Cristofoli di 51 anni e il figlio Daniele di 31, che ripetutamente accusano i tre ragazzi di averli derubati.
In questo gesto si può già distinguere il movente razzista che si nascondeva dietro a questi personaggi e dietro a tutta la vicenda intera: la famiglia Cristofoli infatti accusava i giovani solamente del furto dell'intero incasso della notte e non di altri articoli in vendita nel loro negozio.
Padre e figlio cominciano quindi a minacciare Abba e i suoi amici con una sbarra di ferro, lanciando epiteti tra cui "Ladri", "Sporchi negri vi ammazziamo", "Negri di merda".. costringendo i tre ragazzi a difendersi con bottiglie e bastoni.
Purtroppo Abba non riesce a sfuggire alle sprangate di Daniele Cristofoni che, dopo averlo colpito ripetutamente con l'asta di ferro usata per chiudere la serranda del negozio, lo lascia a terra agonizzante, scappando il più in fretta possibile insieme al padre.
Abdul, in coma, viene portato all'ospedale Fatebenefratelli, dove è dichiarato morto intorno alle 13:30.
I due aggressori vengono fermati qualche giorno dopo l'omicidio e condannati a quindici anni e quattro mesi, con l'obbligo di un risarcimento di centomila euro alla famiglia di Abba.
Nonostante questo episodio sia stato definito da molti una ''lite degenerata per futili motivi'', si riconosce fin da subito la vera natura della famiglia Cristofoli, caratterizzata da un feroce odio razziale.
Il giorno dopo i risultati dell'autopsia, molti sono coloro che decisero di ricordare Abba in un corteo partecipatissimo, condotto dagli stessi amici del ragazzo, facendo esplodere la rabbia per la sua morte in tutte le vie di Milano. In corrispondenza di via Zuretti, molti dei partecipanti iniziano a correre per raggiungere il bar della famiglia Cristofoli, prontamente difeso da un vasto schieramento di forze dell'ordine, riuscendo a forzare in parte il cordone e raggiungere il luogo in cui Abba era stato ucciso.
La giornata terminan con l'ascolto in piazza delle canzoni preferite da Abba, ballate e cantate a gran voce, e con il cambio del nome della via, ribattezzata ''Via Abba''.

mercoledì 12 settembre 2018

Sassari, violento pestaggio. Vittima un giovane guineano

 Casa originale dell'articolo cronache di ordinario razzismo http://www.cronachediordinariorazzismo.org/sassari-violento-pestaggio-vittima-un-giovane-guineano/

Mentre ieri l’Onu lanciava un “allarme razzismo” in Italia, si è consumato l’ennesimo episodio di violenza verso un giovane cittadino straniero. Un’altra aggressione, probabilmente a sfondo razzista, stavolta in Sardegna, a Sassari: un giovane di 22 anni della Guinea, arrivato in città come richiedente asilo e oggi studente ospite di uno Sprar, è stato picchiato con estrema violenza da un gruppo di almeno cinque ragazzi, tutti giovanissimi, in tarda serata. Il fatto è accaduto all’incrocio tra viale Berlinguer e corso Cossiga: lo studente si è fermato al semaforo per attraversare la strada ed è stato avvicinato dai ragazzi. Uno di loro gli ha sferrato improvvisamente una gomitata al fianco. Lo studente, sbigottito, ne ha chiesto la motivazione: «A casa mia faccio quello che voglio, se non ti sta bene tornatene a casa tua», avrebbe risposto l’aggressore, dandogli un pugno in faccia. E poi è partito il pestaggio, al quale hanno partecipato attivamente tre giovani, mentre altri restavano nelle vicinanze. I violenti pugni al volto della vittima sono stati fortunatamente interrotti da alcuni passanti, intervenuti per allontanare gli aggressori, che si sono subito dileguati, continuando ancora a inveire con offese nei confronti del giovane straniero. Il 118 ha portato il ragazzo al pronto soccorso. I medici gli hanno prescritto 10 giorni di cure per fratture al volto, in particolare al naso, e diverse contusioni. Gli agenti della Polizia locale, nel frattempo, hanno raccolto le numerose testimonianze delle persone che hanno assistito al pestaggio, e, in queste ore, stanno cercando ulteriori riscontri per risalire all’identità degli aggressori

Miraggi migranti

 Casa originale dell' articolo Cronache di ordinario razzismo http://www.cronachediordinariorazzismo.org/miraggi-migranti/
A volte si tratta di riscoprire prima di tutto la gioia e la ricchezza del camminare insieme: in questo frastagliato orizzonte la Rete di Cooperazione Educativa “C’è speranza se accade @” (nata intorno al pensiero e all’amicizia di Mario Lodi e Gianfranco Zavalloni, ma anche alla pedagogia critica, tra gli altri, di don Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet…), la redazione di Comune e l’Asilo Bosco Caffarella promuovono due giorni a Roma (sabato 6 e domenica 7 ottobre) di scambio e approfondimento all’interno di “Fabbrica di Roma ReAct”, festival multidisciplinare promosso dall’associazione Comunitaria all’ex Cartiera Latina (Via Appia antica 42). A questa iniziativa, parteciperà anche Lunaria, con un laboratorio sul  
“Come possiamo creare un mondo nuovo dal basso nei territori dove viviamo e nelle scuole che frequentiamo ogni giorno? La scuola e più in generale l’educazione sono destinati soltanto a imitare il proprio tempo? È evidente: abbiamo bisogno di un apprendimento diverso e diffuso oltre le pareti delle classi, aperto al territorio e al mondo, per creare prima di tutto comunità di ricerca e sperimentare pedagogie interculturali. Esperienze, reti e libri dimostrano che, nonostante gli ostacoli, è comunque possibile e che non serve per forza attendere interventi dall’alto”. Qui di seguito il programma delle iniziative organizzate da Rete di Cooperazione Educativa, la redazione di Comune e Bosco Caffarella, nell’ambito di “Miraggi migranti”, alcuni laboratori e momenti di approfondimento rivolti a insegnanti, educatori e genitori dedicati ai nessi che legano accoglienza, condivisione ed educazione.
All’interno di Miraggi Migranti, domenica 7 ottobre, sarà promossa anche la videoproiezione del film “La mia classe” (di Daniele Gaglianone con Valerio Mastandrea nelle parti del maestro di una classe di immigrati, un viaggio tra finzione cinematografica e realtà). Interverrà Gino Clemente, sceneggiatore del film. La partecipazione a questa seconda iniziativa, fortemente legata ai temi di Miraggi migranti, sarà libera e gratuita.

SABATO 6

1) LunariaPrevenzione del razzismo (sab 6, ore 15/18)
Alcuni casi esemplari (maturati dall’esperienza del Libro bianco sul razzismo e da Cronachediordinariorazzismo.org
2) CemeaLe forme del gioco dal singolare al plurale (sab 6, ore 15/18)
La lingua come contesto educativo
3) AsinitasFare scuola, fare pensiero, fare anima (sab 6, ore 15/18)
La narrazione come strumento educativo

4) Ass. AltramenteIo leggo, dunque sono (sab 6, ore 15/18)
Pezzettini (festa della lettura) tutto l’anno
5) Caritas di Roma (…) (sab 6, ore 15/18)

DOMENICA 7

6) Lìscìa Sulle tracce di Tik (dom 7, ore 10/13)
Laboratorio di ludopedagogia
“Tik” è un’assemblea politica, una ricerca e una sperimentazione che dal 2016 Liscìa porta avanti sul tema delle migrazioni con il metodo della ludopedagogia (giocare per conoscere conoscere per trasformare)
7) Ass. Matura Infanzia/Circ. G. Rodari La radio-scuola (dom 7, ore 10/13)
Una radio per fare scuola fra oralità, tecnologia e scrittura
Inventare, produrre, comunicare i saperi attraverso centri d’interesse, apprendimento cooperativo e grammatiche fantastiche. La radio-scuola fra oralità, tecnologia e scrittura
8) ZaLabFlying Roots. Video partecipativo (dom 7, ore 10/13)
La percezione delle identità, l’altro, lo straniero
Videoproiezione dedicata a un progetto di cinema sociale che si è svolto nel quartiere Esquilino, dedicato ad adolescenti per lo più di seconda generazione.
9) Movimento di Cooperazione Educativa Il nome (dom 7, ore 10/13)
Un buon avvio d’accoglienza di una persona è fare spazio nella testa al suo nome
Il nome porta una confidenza e la confidenza porta a sentirsi a casa, anche quando la tua casa è lontana. Nel nostro nome rileggiamo storie familiari, gli affetti più intimi, l’infanzia. Ma ogni nome rimanda anche a una “cultura” e a una storia collettiva. Un viaggio tra gestualità, narrazioni, manipolazione di materiali e uso di linguaggi teatrali
10) Roberta Ventura. Alfabetizzazione al conflitto (dom 7, ore 10/13)
Sperimentiamo la gestione nonviolenta del conflitto (interpersonale e sociale)
Cosa si intende per “conflitto”? Da cosa nasce e a quali conseguenze può portare? Laboratorio/training con attività e giochi di simulazione sul conflitto a livello micro (relazioni interpersonali) e macro (quello che J. Galtung definisce “violenza strutturale”) e sulla gestione nonviolenta del conflitto secondo D. Dolci (laboratori di maieutica)
11) Anna Maria Bruni. L’altro di me (dom 7, ore 10/13)
Tre ore di laboratorio teatrale per scoprire se stessi attraverso gli altri
Siamo tutti connessi. Di più, ognuno è parte dell’altro. Dentro lo specchio io posso vedere una moltiplicazione esponenziale di me, che come cerchi nell’acqua appartengono al mio centro come io appartengo a loro. Posso lasciarmi incantare dal mio aspetto, preoccuparmene e occuparmene, e posso guardare oltre. Lo specchio è lì… Un laboratorio teatrale per scoprire se stessi attraverso giochi di relazione
12Sabrina D’OrsiVivere semplice (dom 7, ore 10/13)
Un incontro con l’autrice del libro “Vivere semplice. Con i figli, con se stessi”
Un momento di confronto sulla necessità che i genitori facciano la loro parte a proposito di educazione interculturale, accoglienza, inclusione sociale, solidarietà con le scelte degli insegnanti.
13) Liberi NantesPietralata open, giochi in campo (dom 7, pomeriggio)
Giochi, sport, divertimento per tutti e tutte, migranti e non, grandi e piccoli
Al campo Campo Sportivo XXV Aprile, Pietralata: un pomeriggio di giochi in campo. Una giornata all’insegna del gioco e del divertimento per tutte e tutti, bambini compresi. Palla in campo e giochi a sorpresa. Nel corso dell’iniziativa saranno presentati i risultati del nostro progetto Erasmus+ S(up)port Refugees Integration interamente dedicato alle donne migranti coinvolte con diverse discipline sportive
Per partecipare è necessario prenotarsi in anticipo (proposta quota/donazione di 10 euro a laboratorio-incontro, 15 euro per due laboratori-incontri, uno il sabato e uno la domenica). È possibile prenotare – a partire da martedì 11 settembre – con PAYPAL oppure con un BONIFICO (l’IBAN IT58X0501803200000000164164; Banca Pop. Etica, Roma; nella causale bisognerà indicare il numero di laboratorio-incontro scelto). Subito dopo occorre inviare una email a carmosino@comune-info.net segnalando nome, cognome, numero e titolo del laboratorio-incontro (per l’evento numero “13” promosso da Liberi Nantes, l’unico non ospitato all’ex Cartiera Latina di Via Appia antica, non occorre la prenotazione ma molta voglia di mettersi in gioco).

12 settembre 1977 Biko assassinato in carcere




Steve Biko nacque il 18 dicembre 1946 e fu un noto militante nella lotta contro l’apartheid e lo sfruttamento della popolazione nera sudafricana e appartenete al Black Consciousness Movement (BCM).
Nel 1972 fu espulso dall’università di Natal a causa della sua militanza. Fu costretto quindi a rimanere nel distretto di King William’s Town, gli fu vietato di parlare in pubblico, scrivere o parlare con i giornalisti e frequentare più di una persona alla volta. In più fu vietato a chiunque di citare qualsiasi suo scritto.
Durante il suo soggiorno coatto nel distretto di King William’s Town iniziò a coinvolgere la popolazione nera e le altre minoranze etniche in collettivi autorganizzati
Nonostante la repressione Biko e il BCM ebbero un ruolo fondamentale nell’organizzazione della rivolta di Soweto del giugno 1976, durante la quale studenti neri erano scesi in piazza contro la politica segregazionista del National Party, per essere poi duramente repressi dalla polizia, che uccise diverse centinaia di persone durante i dieci giorni di scontri. Dopo la rivolta, per i funzionari razzisti sudafricani, divvenne fondamentale l’eliminazione fisica di Biko.
L’occasione venne quando Biko fu fermato in un posto di blocco della polizia e arrestato con l’accusa di terrorismo il 18 agosto 1977. In caserma fu interrogato per ventidue ore di fila, picchiato e torturato dagli ufficiali di polizia Harold Snyman e Gideon Nieuwoudt nella stanza interrogatori 619.A causa del vile pestaggio Biko entrò in coma.
A questo punto i due sbirri lo ammanettarono e caricarono nudo nel bagagliaio della loro Land Rover per portarlo al carcere di Pretoria distante 1100 Km. Morì il 12 settembre 1977 a causa di una vasta emorragia cerebrale appena arrivato a Pretoria.
La polizia subito spiegò la morte come la conseguenza di un ipotetico sciopero della fame, ma l’autopsia rivelò le ferite del pestaggio tra cui quella mortale alla testa. Nonostante le prove evidenti del brutale omicidio la polizia riuscì ad insabbiare la storia.
Solo i gironalisti Helen Zille e Donald Woods, molto amici di Biko, qualche tempo dopo, riuscirono con un costante lavoro di controinchiesta a far emergere la verità sull’assassinio del loro amico.
Data la popolarità di Biko la notizia della sua morte si diffuse rapidamente aprendo molti occhi sulla brutalità del regime Sud Africano.
Al suo funerale parteciparono decine di migliaia di persone.
I giornalisti che indagarono su questa storia furono costretti a scappare dal Sud Africa a causa delle persecuzioni della polizia e nessuno dei due poliziotti omicidi fu mai processato dal governo razziata bianco nè dal successivo governo “democratico”.

martedì 11 settembre 2018

A un anno dall’alluvione – Una sola grande opera: la messa in sicurezza dei territori

Un anno fa, nella notte tra il 9 e il 10 settembre, l’alluvione colpiva Livorno facendo nove vittime e creando gravi danni ad abitazioni, ponti, strade, impianti industriali, con effetti disastrosi che ancora segnano la nostra città.
Le responsabilità di quanto successo non sono da riferire alla natura, ma a chi governa, gestisce e sfrutta il territorio. Anni di scempio, di saccheggio, di sfruttamento e ricerca di profitto si sono sommati a responsabilità contingenti e a inadempienze palesi, mentre l’opera delle autorità e del commissario per l’emergenza nominato dal governo sono state invisibili.
A distanza di un anno che cosa è cambiato? Cosa è successo nel corso del mandato del commissario del governo per l’emergenza?
L’amministrazione comunale di Livorno ha presentato il nuovo piano regolatore, che prevede un’ulteriore privatizzazione di spazi e beni pubblici, accompagnata da colate di cemento per centri commerciali, come quella che si prepara alla Stazione Marittima. Al contempo non sono stati fatti significativi interventi per la messa in sicurezza del territorio, in particolare per l’adeguamento delle casse di espansione. Ma la situazione è disastrosa a vari livelli, basti pensare al sistema fognario di Livorno, inadeguato alla normale amministrazione, come reso evidente dai ripetuti e frequenti divieti di balneazione in mare, figuriamoci in situazioni di emergenza.
L’amministrazione comunale di Collesalvetti ha negato ogni possibile relazione tra il grave inquinamento da idrocarburi pesanti riscontrato subito dopo l’alluvione da analisi nel cortile di alcune abitazioni della frazione di Stagno e la contigua raffineria ENI, anch’essa allagata. L’acqua e il fango che inondavano il cortile delle abitazioni e la raffineria erano in diretta relazione attraverso aperture nei muri perimetrali dell’impianto industriale, come segnalato da un dossier redatto dalle Brigate di Solidarietà Attiva e da alcuni abitanti di Stagno. Nonostante ciò, non ci risulta che sia stata data informazione su alcun Piano di Emergenza della raffineria in caso di alluvione, né che sia stato effettuato alcun intervento di contenimento e bonifica dell’inquinamento.
La Chiesa per il suo ruolo nell’economia livornese, anche di tipo speculativo, è tra i responsabili dei disastrosi effetti dell’alluvione, basti pensare alla cementificazione di Montenero tra gli anni ‘90 e 2000 con l’Aula Mariana e il terminal per i pellegrini. Ora sta mettendo le mani su un altro angolo delle Colline Livornesi, l’Eremo della Sambuca. Mentre si propone di guidare i livornesi in un superamento spirituale del dramma dell’alluvione, la Chiesa prepara nuove speculazioni e nuovi disastri.
Con l’avvicinarsi del doloroso anniversario dell’alluvione allo spot si alterna la farsa.
Emerge lo scandalo degli appalti truccati e la magistratura impone gli arresti per un ex dirigente della protezione civile e il titolare della Tecnospurghi. Affari da profittatori, come molti altri nauseanti casi simili, perché la speculazione sulle catastrofi c’è sempre, più o meno legale, solo che i governanti, le autorità, i padroni della terra e del cemento ne escono sempre puliti.
L’amministrazione comunale a pochi giorni dal 10 settembre cerca l’applauso annunciando che il governo sarebbe sul punto di dare il via ai finanziamenti dei rimborsi per cittadini e imprese che hanno fatto richiesta per i danni.
Il primo anniversario dell’alluvione diventa una parata, un maxievento in cui spicca una “passeggiata della pacificazione” dal mare fino all’Eremo della Sambuca organizzata dalla parrocchia della Valle Benedetta. Ma di che pacificazione si parla?
È ben chiaro a molti abitanti di Livorno, come a quelli di Genova che pochi giorni fa hanno contestato la visita dei papaveri istituzionali, che le tragedie che si succedono sempre più frequentemente non sono catastrofi ambientali, ma hanno la loro causa nella speculazione, nei rapporti di proprietà, nell’azione dei governi.
Una capillare opera di salvaguardia, vigilanza e messa in sicurezza del territorio ridurrebbe l’impatto degli eventi eccezionali e darebbe occasioni di lavoro all’enorme massa di disoccupati. La politica del Governo va nel senso opposto, destina alle spese militari, agli industriali, alle banche e alla Chiesa le enormi risorse sottratte ai lavoratori e ai cittadini, con una tassazione che pesa sui ceti meno abbienti e sui consumi. Chiunque occupi la poltrona di sindaco, si scontra con i vincoli di bilancio e con gli interessi della proprietà fondiaria. Né le autorità e gli enti pubblici, né le compagnie private possono garantire la sicurezza idrogeologica del territorio, perché seguono il profitto e gli interessi delle classi privilegiate, che si scontrano sia con l’ecologia sia con la salute e la sicurezza delle persone. Il governo e la proprietà dunque sono i principali ostacoli per ridurre i rischi ambientali sui territori, per ridurre l’impatto degli eventi eccezionali. È l’ora di farla finita con la devastazione statale e capitalista, nella prospettiva di una società libera ed ecologica.
L’attività sviluppata invece da organismi di base come le Brigate di Solidarietà Attiva è stata fondamentale, sia nelle attività di soccorso immediato alle popolazioni, sia nel supporto alla nascita di comitati, sia nell’opera di inchiesta e controinformazione. L’iniziativa dal basso ha mostrato il legame tra speculazione edilizia e riduzione delle aree per le casse d’espansione, e l’enorme rischio sanitario e ambientale connesso all’inquinamento.
UNA SOLA GRANDE OPERA: LA MESSA IN SICUREZZA DEI TERRITORI

FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it
COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO collettivoanarchico@hotmail.it – collettivoanarchico.noblogs.org

Tripoli: il volto nascosto dell’Italia in guerra

Nessun intervento militare delle forze speciali italiane in Libia. Questo il messaggio ripetuto più volte dal Governo tra il 3 e il 4 settembre scorso. Facile dichiarare che non vi è l’intenzione di promuovere un intervento militare a Tripoli quando sono già presenti, considerando solo le cifre ufficiali della missione militare MIASIT, 400 unità delle forze armate italiane. Appare singolare dunque tutto questo impegno del Governo per smentire la notizia, riportata da alcuni organi di stampa, secondo cui a Roma sarebbe stata in corso la valutazione di un intervento delle forze speciali a sostegno del governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, la cui stabilità è minacciata da scontri armati in in atto tra differenti gruppi di potere nella stessa capitale.
Ma cosa sta succedendo a Tripoli? Il 2 settembre il governo di al-Sarraj ha proclamato lo stato di emergenza per l’inasprirsi dei combattimenti nella capitale. Gli scontri armati erano iniziati il 26 agosto, quando la Settima Brigata di Tarhuna, sottoposta al ministero della difesa, si è ribellata al suo stesso governo attaccando le milizie del ministero dell’interno. Il conflitto è aumentato, altre milizie si sono unite alla brigata “ribelle”, e da Zintan alcune forze si sono attestate fuori dalla città di Tripoli, mentre altre forze da Misurata sono giunte a Tripoli a sostegno del governo. I “ribelli” secondo fonti giornalistiche dichiarano di aver intrapreso l’azione militare per “ripulire Tripoli dalle milizie corrotte” che grazie alla posizione di influenza avrebbero ricchi conti bancari mentre le persone comuni sono costrette alla carenza di cibo e alle lunghe code per avere stipendi miseri.
In questo contesto il 1 settembre un colpo di mortaio ha colpito un edificio vicino all’ambasciata italiana a Tripoli, il giorno successivo con lo stato d’emergenza e l’inasprimento degli scontri l’ambasciata italiana è stata quasi del tutto evacuata, e viene presidiata dai carabinieri paracadutisti del Tuscania. Scoppia allora la questione sui media italiani, ci si accorge all’improvviso che in Libia c’è una guerra in corso e che lo stato italiano c’è dentro fino al collo. Il governo nega la chiusura dell’ambasciata e nega le voci riguardo all’invio di forze speciali, mentre attacca la Francia che avrebbe provocato questa azione militare per sostenere il parlamento di Tobruk di Khalifa Haftar che è indicato come patrocinatore dei “ribelli”. Proprio l’attacco alla Francia è al centro della dura critica dei partiti di opposizione al governo Conte, che viene da questi anche accusato di immobilismo rispetto alla situazione libica. Il governo italiano, potendo contare già su un significativo dispositivo militare impiegato sul terreno, può presentarsi come “moderato” e annuncia la convocazione di una conferenza di pace sulla Libia da tenersi in Italia (probabilmente in Sicilia) a novembre. Nel contempo il 4 settembre l’inviato speciale dell’ONU in Libia, Ghassan Salamé, convoca le parti e viene stabilita una tregua. Questa soluzione è sostenuta dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e da uno specifico appello di Francia, UK, USA e Italia. Ma al di là delle dichiarazioni il conflitto a Tripoli continua, e anche se il governo al-Sarraj non sembra più direttamente a rischio, il 9 settembre il numero delle vittime negli scontri era salito a 78, mentre i feriti sarebbero 313 e i dispersi 16. Vi sono notizie di gravi violenze nei confronti di civili, in particolare migranti, molti dei quali in Libia vivono in condizioni disperate nei lager voluti dallo stato italiano, 400 persone sarebbero riuscite a fuggire dal carcere di Aine Zara a Tripoli durante gli scontri.
Questi eventi si inseriscono in un quadro molto complesso, in cui lo scontro tra potenze mondiali e regionali alimenta la lotta per il potere in Libia. La popolazione subisce le atrocità, le sopraffazioni, la distruzione e la miseria causate dai conflitti per l’influenza politica e militare e dalla guerra per il controllo delle risorse, quelle energetiche soprattutto. In Libia si scontrano gli interessi degli stati e delle multinazionali dell’energia, si scontrano i gruppi di potere del paese per la costruzione di un nuovo stato, grande promessa delle potenze mondiali, con tutte le questioni connesse a questi processi: i diritti sulle concessioni delle risorse, il riconoscimento internazionale, la creazione e la gestione di forze di sicurezza, la gestione di una banca centrale.
Andare più a fondo necessiterebbe di uno spazio molto più ampio di un semplice articolo, e sicuramente il nostro punto di vista resterebbe comunque ristretto, necessariamente mediato dalle agenzie di stampa e dai proclami dei governi.
Qual’è il ruolo dell’Italia? Lo stato italiano nel 2011 ha avuto un ruolo fondamentale nelle operazioni militari, e in particolare nei bombardamenti, condotti prima dalla “coalizione dei volenterosi” e poi coordinati dalla NATO con l’operazione “unified protector”. L’Aeronautica Militare definisce l’impegno nelle operazioni in Libia nel marzo del 2011 come “il più imponente dopo il 2° Conflitto Mondiale”. Operazioni che hanno visto impegnata l’aviazione italiana in 1900 raid e 456 bombardamenti, tenute nascoste alla popolazione dall’allora governo Berlusconi. Certo l’intervento del 2011 ha messo a rischio gli interessi economici di una parte della classe dirigente italiana, molte aziende italiane hanno dovuto lasciare il paese africano a causa della guerra, ma per qualcuno probabilmente l’intervento militare contro Gheddafi era un rischio da correre per ottenere migliori condizioni e maggiori profitti. L’ENI ad esempio, pur risentendo delle sorti alterne della regione, è stata l’unica grande compagnia a mantenere la produzione in Libia, e nel 2015 aveva il controllo di un terzo della produzione di gas e petrolio nel paese, mentre prima del 2011 ne controllava solo un quinto. Pensiamo poi alla grande mobilitazione militare che è seguita al 2011. Con le operazioni Mare Nostrum, Mare Sicuro, Ippocrate, Sofia, Sea Guardian e MIASIT il ruolo dell’Aeronautica e della Marina è divenuto centrale, e possiamo supporre che un tale sviluppo di queste forze armate e l’impegno di mezzi navali e aerei abbia mosso molti interessi. Sarebbe da considerare quanto grandi aziende del settore difesa e sicurezza come Finmeccanica/Leonardo, che tra l’altro ha dovuto abbandonare il suolo libico nel 2011, siano state invece avvantaggiate dagli eventi bellici in Libia e nel Mediterraneo. Inoltre per quanto il trattato tra Italia e Libia del 2008 fosse vantaggioso per le classi dirigenti dei rispettivi paesi, senza la fine del regime di Gheddafi l’Italia non avrebbe probabilmente potuto mai schierare la propria flotta come avvenuto con le operazioni Mare Nostrum o Mare Sicuro, figuriamoci dislocare direttamente delle truppe in Libia e esercitare la propria influenza politica su governi e centri di potere locali.
Per questo negli ultimi anni in Libia lo stato italiano è stato sempre presente con forze militari e di sicurezza, in modo formale o informale. Innanzitutto contractor (quelli che si chiamavano mercenari) tra cui quelli della STAM, azienda di sicurezza che farebbe parte del Consorzio CRISS della Link University, che ha avuto come presidente nel 2016 l’attuale ministro della difesa Elisabetta Trenta. Poi con le forze speciali, secondo i media già almeno dal 2016. Infine con le missioni militari.
Una cosa è certa. Pur se con diverse sfumature e con i soliti contrasti tra partiti, la classe politica, e in particolare i partiti che siedono in parlamento, sono tendenzialmente tutti concordi sulla necessità di salvaguardare gli “interessi nazionali dell’Italia” in Libia. Riassumibili in “sicurezza energetica” e “controllo dei flussi migratori”. Queste sono le parole che utilizzano gli esponenti della maggioranza e i parlamentari dell’opposizione quando intervengono nelle sedi istituzionali, qualcuno talvolta aggiunge la “sicurezza dalla minaccia terroristica”. Ma alcuni, come il ministro degli esteri Moavero durante l’audizione congiunta delle commissioni esteri e difesa di Camera e Senato, giungono ad utilizzare citazioni coloniali, definendo la Libia la “quarta sponda” del paese e sostenendo che sia “molto connaturato il destino della Libia a parte del destino anche della nostra nazione”. Nella stessa audizione l’ex ministro PD Minniti afferma che “la Libia è in qualche modo l’espressione più plastica di cosa significa interesse nazionale fuori dai confini del nostro paese.”
Dal 1945 fino ad oggi avevamo visto guerre terribili che per giustificazione ideologica, ponevano le motivazioni più fantasiose e creative, sempre piene di bontà. Dall’equilibrio tra le potenze alla responsability to protect, per ogni guerra si trovava una legittimazione giustissima grazie al pieghevolissimo diritto internazionale. Oggi forse siamo di fronte a qualcosa di diverso, forse quando l’ideologia diviene la salvaguardia del crudo interesse nazionale, significa che la classe dirigente sta davvero giocando la carta della guerra imperialista.
Opporsi al militarismo e all’imperialismo dell’Italia, e in particolare alla guerra dell’Italia in Libia significa opporsi alla classe politica e dirigente che ci sfrutta e ci governa. Opporsi all’infamità del nuovo colonialismo italiano in Africa, significa anche opporsi al razzismo italiano, che proprio nel colonialismo ha avuto uno dei suoi fondamenti.
Per questo rilanciare su più livelli la lotta antimilitarista è fondamentale, e la manifestazione che si terrà a Gorizia il 3 novembre prossimo, contro le celebrazioni guerrafondaie e militariste della prima guerra mondiale, sarà un appuntamento molto importante.
Dario Antonelli

Libia. Più di 100 morti in mare. Venti i bambini

Casa originale dell’articolo Cronache di ordinario razzismo http://www.cronachediordinariorazzismo.org/libia-piu-di-100-morti-in-mare-venti-i-bambini/
Due imbarcazioni sono partite dalle coste libiche alle prime ore del primo settembre. Ciascuna con più di 160 persone a bordo di diverse nazionalità, tra cui sudanesi, maliani, nigeriani, camerunesi, ghanesi, libici, algerini ed egiziani. Uno dei due gommoni si è fermato per un guasto al motore, ma non è subito affondato, e i migranti sono stati soccorsi il giorno dopo dalla guardia costiera libica. Il secondo ha continuato la sua rotta verso l’Europa ma, dopo poche ore, ha cominciato inesorabilmente a sgonfiarsi. A bordo in pochi avevano il salvagente, e ancora meno erano in grado di nuotare.
Il bilancio di questa nuova strage del mare è enorme. Almeno un centinaio di dispersi, tra cui 20 bambini e due gemellini di soli 17 mesi. Due i corpi senza vita recuperati e 276 sono i migranti soccorsi dalla guardia costiera libica e riportati indietro. Nell’inferno.
I sopravvissuti sono stati fatti sbarcati a Khoms, 120 km a est di Tripoli, dalle motovedette libiche che li hanno poi affidati alle cure dello staff di Medici senza frontiere. All’arrivo i medici hanno trattato i sopravvissuti per gravi ustioni chimiche fino al 75% del corpo. Gli altri superstiti sono stati portati in un centro di detenzione sotto il controllo delle autorità libiche. E la notizia del naufragio è stata diffusa solo ieri proprio da Medici senza frontiere, grazie alle testimonianze dei superstiti al naufragio raccolte dalla loro operatrice in Libia, Sara Creta.
Soltanto pochi giorni fa, Paula Barrachina, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) in Libia, ha denunciato che la vita di migliaia di persone è a rischio e che l’insicurezza sta mettendo in fuga anche le poche organizzazioni non governative presenti (anche su terra, dopo quelle in mare), e che, a causa delle politiche migratorie europee di chiusura, diminuiscono i viaggi della speranza, ma cresce il rischio di incidenti mortali.
Se il numero totale degli arrivi via mare è diminuito, il tasso di mortalità delle persone che partono è nettamente cresciuto. Nel Mediterraneo centrale una persona è morta o scomparsa ogni 18 che hanno cercato di raggiungere l’Europa, tra gennaio e luglio 2018 (ne parlavamo qui).
Da fine agosto, lo ricordiamo, a largo di Tripoli, non c’è più neanche una Ong a soccorrere i barconi in avaria. Anche l’ultima nave di Proactiva Open Arms, l’organizzazione non governativa spagnola, più volte finita al centro delle invettive del Ministro dell’Interno, ha lasciato il Mediterraneo centrale. La nave Aquarius, l’imbarcazione di Sos Mediterranée e di Medici senza Frontiere, a cui sempre il Ministro dell’Interno ha negato l’attracco con 630 naufraghi a bordo, risulta ancorata a Marsiglia. A Malta, sotto sequestro, ci sarebbero invece altre tre navi di salvataggio: la Lifeline, la Sea Watch e la Seefuchs.
Salvare vite in mare è tornata a essere competenza esclusiva delle guardie costiere dei singoli Paesi. Soprattutto quella libica, malgrado sia stata più volte messa all’indice proprio dalle ong per un uso spregiudicato della forza nei confronti dei migranti.
Purtroppo, con le ong dal Mediterraneo non spariscono solo soccorritori, ma vengono meno anche occhi e orecchie “indipendenti” che non potranno più vigilare su abusi e violenze, che potranno essere perpetrati in modo indiscriminato.
Sebbene la “propaganda” voglia farci credere il contrario, ci sono dunque equazioni che non funzionano. Meno sbarchi, non significano meno morti. E meno ong presenti in mare a presidiare, non si traducono in meno partenze e in meno trafficanti.
La morte di 100 persone ce lo ricordano ancora una volta.

Il seme dell’odio

Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.
La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.

11 settembre 1973: Golpe Militare in Cile

La storia commemora anche un altro crimine contro l’Umanità
11 settembre 1973: Golpe Militare in Cile
Quel giorno le Forze Armate del Cile guidate dalle più alte autorità, misero in atto un colpo di stato militare che è ormai ricordato come il momento in cui terminò la Democrazia cilena.
10 settembre 2011 – Ernesto Celestini
Fonte: El Mundo e Educar Chile
In quel giorno Salvador Allende, Presidente della Nazione, decise di immolarsi nel mezzo del bombardamento che aveva come obiettivo La Moneda.
Con questo atto, che lo stesso presidente Allende definì “sacrificio”, la sua figura può essere considerata come martire caduto a difesa del fenomeno culturale e sociale, proposto dai partiti della sinistra. Con Allende morto, e dopo che i militari avevano occupato e immobilizzato il paese mettendolo in stato di assedio, venne dichiarata una giunta militare governativa composta da Augusto Pinochet, José Toribio Merino, Gustavo Leigh e Cesar Mendoza. Il golpe militare messo in atto nel paese, fu presentato alla cittadinanza come un ordine temporaneo che avrebbe rapidamente lasciato il posto alla creazione di un governo legittimamente eletto ma che restò al governo del Paese per altri diciassette anni. Durante questo periodo, il paese subì cambiamenti sociali epocali dal punto di vista culturale ed economico, instaurando una politica repressiva attuata dal governo che costò al Cile decine di migliaia di vite umane.
La dittatura di Pinochet
Cosa accadde dopo il colpo di stato?
Dopo il colpo di stato del settembre 1973, Pinochet instaurò in Cile un regime ferreo e sanguinoso, che provocò la morte o la scomparsa di migliaia di persone e causò la fuga di un milione di persone che cercarono rifugio principalmente in Europa. Il dittatore continuò a governare il paese fin quando fu costretto a indire un plebiscito, che perse, ma sopravvisse a qualsiasi tentativo della Giustizia di farlo rispondere per i crimini commessi contro il suo paese.
Pedagogia del terrore
L’11 settembre 1973 la sanguinaria dittatura che fu imposta al Cile concluse un periodo durato 150 anni di storia repubblicana e si impose occupando tutte le istituzioni del paese con cariche nominate direttamente dal regime, tanto da cambiare profondamente le condizioni di vita di tutti i suoi abitanti. Negli occhi di tutti i cileni rimarrà per sempre l’immagine della Moneda, il Palazzo presidenziale, in fiamme, lo stadio trasformato in lager per rinchiudere i prigionieri politici e i roghi con cui furono bruciati migliaia di libri definiti “pericolosi”
Lo stesso giorno del colpo di stato, i comandanti in capo, con Pinochet in testa, formarono una giunta militare, dichiararono che era in atto una “guerra civile” nel paese e decretarono lo stato di assedio ed il coprifuoco che furono prorogati, fatta eccezione per brevi periodi, fino al 1987.
Pinochet esercitò il potere con pugno di ferro fino al 1990, anno in cui introdusse un modello neoliberista ad oltranza che, anche se salvò l’economia, secondo dati ufficiali, lasciò in povertà più di cinque milioni di persone. Ci sono testimonianze che affermano che le forze militari continuamente presenti in strada, gli elicotteri che sorvolavano le città di notte, gli arresti alla luce del giorno, contribuirono a instaurare una “pedagogia del terrore”.
Come eredità politica, comunque, Pinochet ha lasciato una Costituzione ancora oggi, in vigore e vari grovigli autoritari che i governi democratici non sono ancora riusciti a sbrogliare, come la carica di senatore a vita, che servì al dittatore per evitare di fare i conti con la storia. Nel 1988, dopo aver negoziato con alcuni settori che si opponevano alla dittatura, Pinochet indisse un plebiscito con cui voleva legittimare il suo governo.
Persee la sua sconfitta segnò la fine di una dittatura sanguinosa.
La Carovana della Morte
Nel mese di ottobre 1973, una delegazione militare guidata dal generale Arellano Stark percorse tutto il con un elicottero Puma. Furono i giorni della Carovana della Morte. A questa sinistra ‘delegazione’ si attribuirono settantacinque omicidi, la maggioranza leader politici e sindacali, con la cui morte si voleva scongiurare una più che probabile opposizione che si sarebbe sollevata nei primi mesi del regime di Pinochet. Il dittatore sicuramente “conosceva” tutte le loro attività, infatti, non chiese di indagare sulle loro abitudini. Una volta perso il potere politico, si fece scudo della sua posizione di senatore a vita per sottrarsi all’azione della giustizia.
Stati Uniti: L’indifferenza è nella memoria
Gli Stati Uniti cercano di lasciarsi alle spalle il ricordo dell’anniversario del colpo di stato di Pinochet. Washington, che ha riconosciuto, anche se in modo molto tiepido, il suo coinvolgimento con i preparativi del golpe, ha ormai una commemorazione ben più viva nella mente degli americani e può far scorrere gli anniversari con discrezione. Il paese ha rivelato poco a poco, anche se in forma parziale, migliaia di documenti, alcuni dei quali mostrano un chiaro sostegno per l’opposizione di Allende e del collegamento con alcuni degli autori del colpo di stato, prima ancora della nomina di Allende alla presidenza. I documenti rivelano anche che gli Stati Uniti erano a conoscenza anche di un coordinamento tra il Cono Sud per la soppressione degli avversari oltre i confini: Operazione Condor.
Operazione Condor
Nei primi anni ’90 in Paraguay si sono trovati dei documenti della polizia segreta politica paraguaiana. Questi documenti, detti “archivi del terrore”, rivelarono un piano machiavellico ordito nel ’70 dai servizi di sicurezza militari dei regimi-dei paesi del Cono Sud : Argentina, Cile, Brasile, Paraguay, Uruguay e Bolivia per farla finita con gli oppositori delle loro dittature: “le sinistre, i comunisti e i marxisti”.

Anche se alcuni governi hanno negato l’esistenza di questo piano, i documenti decodificati della CIA indicano il contrario. Alcune organizzazioni per i diritti umani stimano che questa operazione abbia prodotto circa 30.000 vittime e molte di queste erano cilene. Come già detto, è stato stimato che oltre un milione di persone abbia lasciato il Cile dopo il colpo di stato militare del 1973. Tra gli esiliati numerosi sono stati i casi di suicidio, nevrosi e depressioni. Ancora oggi, 800.000 cileni che vivono all’estero, alcuni dei quali fuggiti durante la dittatura, cercano di recuperare la loro nazionalità.
Pinochet sopravvive
La personalità di Augusto Pinochet rimane ancora nascosta dietro i suoi occhiali scuri ed è rimasta nascosta anche dietro i tanti cavilli legali e burocratici con cui ha evitato di pagare, per i crimini contro il suo popolo, fino alla morte. Il suo aspetto che appariva scheletrico e malato a Londra durante la sua detenzione per ordine del giudice spagnolo Baltasar Garzon, era tutto il contrario di quello che mostrò al suo arrivo a Santiago, 503 giorni dopo. Quando il Boeing 707 delle Forze Armate, che lo aveva riportato nel suo paese, atterrò in Cile, abbandonò la sua sedia a rotelle che aveva usato fino a quel momento per qualsiasi movimento e si alzò attraversando la pista dell’aeroporto, come risorto.
“La storia dimostra che i dittatori non finiscono bene”, dichiarò Pinochet alla rivista The New Yorker, prima della sua morte. Ma non è sempre vero.
Note:
Gli orrori della storia non cessano mai e a volte tornano a ripetersi, tanto che in certi casi la nostra memoria stenta a trattenerli tutti.
Può anche succedere che alcune date vengano commemorate nel pensiero di un evento tanto drammatico e spettacolare che difficilmente la mente umana potrà dimenticarlo.
Come può anche succedere che, nella stessa data, si stenti a ricordare un altro evento meno determinante nella scena politica mondiale ma che ha profondamente cambiato la vita di milioni di uomini, facendo diventare tristemente comprensibile in tutto il mondo il significato di una parola “desaparecido”.

Il film su Cucchi gratuito, nonostante la censura di Facebook

"Sulla mia pelle", il film sugli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi, sbarca negli spazi autogestiti di Bologna: diverse le proiezioni pubbliche e gratuite già segnalate (per il 12 settembre da Nautilus, per il 13 da Làbas, per il 19 dall'Xm24...). Iniziative costrette, però, a fare i conti con la censura di Facebook. Come spiega Làbas: "Facebook ha eliminato decine di eventi sparsi in tutta Italia che promuovevano la proiezione gratuita di 'Sulla mia pelle', il film di Alessio Cremonini sugli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi.  Gli eventi sono stati segnalati da LuckyRed, società di distribuzione e produzione cinematografica, in accordo con NetflixItalia. Avevamo deciso di promuovere la visione collettiva di questo film perché crediamo che ci sia bisogno di fare ancora tanto nella lotta agli abusi in divisa, per creare coscienza attorno agli assassinii perpetrati dalle forze dell'ordine e perché pensiamo che il cinema sia uno strumento collettivo di tutt* e per tutt*. Per questo abbiamo deciso che la proiezione di giovedì 13 settembre si farà lo stesso: per ricordare Stefano Cucchi e perché crediamo che la cultura vada sempre e comunque condivisa. Seguiranno aggiornamenti su luogo e orario". Scrive Nautilus: "Facebook ha cancellato l`evento della proiezione di 'Sulla mia pelle - Gli ultimi sette giorni' di Stefano Cucchi! Confermiamo l`appuntamento e invitiamo tutti e tutte a condividere i post e spargere la voce. Ci vediamo mercoledì 12 alle 19 a Nautilus". Quella sera il film sarà presentato dal Cua, che sulla vicenda scrive: "La proiezione si farà lo stesso, la censura di Facebook non ci ferma! Rilanciamo l'appuntamento di mercoledì 12 settembre", un'occasione "per aprire una discussione sulle violenze della polizia e sulle responsabilità dello Stato nel tentare di nasconderle sistematicamente".
Anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha preso posizione sulla cancellazione degli eventi: "'Sulla mia pelle' aveva invaso il web. Una valanga di eventi organizzati in tutta Italia per la proiezione. La cosa mi ha fatto un enorme piacere e mi ha scaldato il cuore vedere ancora una volta quanto interesse e quanto calore ci sia intorno a Stefano e a questo bellissimo film su di lui. Devo pertanto confessare tutto il mio dispiacere e la mia amarezza per il fatto che tutto questo sia stato cancellato in un batter d'occhio da Facebook. Scomparso. Noi non abbiamo voce in capitolo, possiano forse comprenderne le ragioni ma mi dispiace e non poco".

domenica 9 settembre 2018

9 settembre 1976: muore Mao Tse Tung


"Un comunista deve essere di ampie vedute, sincero, leale e attivo, deve mettere gli interessi della rivoluzione al di sopra della sua stessa vita e subordinare gli interessi personali a quelli della rivoluzione; sempre ed ovunque, deve essere fedele ai principi giusti e condurre una lotta instancabile contro ogni idea e azione errata ; deve pensare più al Partito e alle masse che agli individui, più agli altri che a se stesso . Solo così può essere considerato un comunista. Noi comunisti siamo come i semi e il popolo è come la terra. Ovunque andiamo, dobbiamo unirci al popolo, mettere radici e fiorire in mezzo al popolo"
Il 9 settembre 1976 morì Mao Tse-Tung, presidente del Partito Comunista Cinese nonché fondatore e presidente della Repubblica Popolare Cinese.
Mao soffriva, già da alcuni anni, di una malattia degenerativa neuro-motoria e di disturbi respiratori e cardiaci causati dal fumo. Ciò non gli impedì di compiere un'opera ricompositiva sia in politica interna che in politica estera nell'ultimo periodo della sua vita, portando a termine, con successi alterni, la Grande rivoluzione culturale e riallacciando i rapporti con l'Unione sovietica di Brežnev.
La morte del "grande timoniere" lasciò un'eredità politica assai frammentaria nella Cina comunista, che vedeva contrapposte le diverse anime del Partito, fino a quel momento rimaste per lo più sopite.
Alla sinistra del PCC si trovava la cosiddetta "Banda dei quattro" (nella quale si trovava anche Jiang Qing, vedova di Mao e sua quarta e ultima moglie), che si consideravano i diretti continuatori della politica di Mao e della sua Rivoluzione culturale e auspicavano la continuazione di una politica di mobilitazione della masse proletarie rivoluzionarie, in particolar modo gli studenti e le Guardie rosse.
L'ala destra era invece divisa in due gruppi: i restaurazionisti guidati da Hua Guofeng, che sostenevano il ritorno ad una pianificazione centralizzata in stile sovietico, e i riformatori, guidati da Deng Xiaoping, che volevano una revisione dell'economia cinese, basata su politiche pragmatiche, e la de-enfatizzazione del ruolo dell'ideologia nel determinare le regole politiche ed economiche.
Inizialmente lo scontro per l'eredità di Mao fu vinta dai restaurazionisti, con Hua Guofeng presidente della Repubblica Popolare fino al 1980 e segretario del PCC fino al 1981. Il 6 ottobre 1976, Hua annunciò un tentativo di colpo di Stato da parte della "Banda dei quattro", che fece arrestare insieme a numerose persone vicine alle loro posizioni. Nel 1981 i quattro furono processati e accusati di tutti gli eccessi della rivoluzione culturale e di attività anti-partito con pene che andavano dall'ergastolo al carcere a vita.
In un documento pubblicato il giorno stesso della morte di Mao Tse-Tung, i "quattro" dichiaravano:
(...)Dobbiamo continuare a portare avanti il lavoro di Mao Zedong, persistendo nella linea politica e diplomatica rivoluzionaria. Dobbiamo persistere nell'internazionalismo del proletariato e rafforzare l'unione tra i partiti e le organizzazioni politiche marxiste-leniniste in tutto il mondo, e rafforzare l'unione tra il popolo cinese, i popoli di tutti i paesi e in particolare di quelli del terzo mondo, unendo tutte le forze possibili a livello internazionale e portare avanti fino alla fine la lotta contro l'imperialismo, l'imperialismo socialista e il revisionismo moderno.
Non saremo mai alla ricerca dell'egemonia né ci comporteremo da super-potenza.
Dobbiamo portare avanti il lavoro di Mao Zedong, studiare diligentemente il pensiero di Marx, Lenin e Mao Zedong, studiare assiduamente le loro opere e lottare per rovesciare completamente la classe borghese e sfruttatrice, utilizzando la dittatura del proletariato per sostituire la dittatura della borghesia e il socialismo per sconfiggere il capitalismo, per far sì che la Cina diventi un grande paese socialista, facendo il possibile per ottenere grandi risultati per le masse e infine per realizzare il comunismo.
Contrariamente a quanto auspicato nel documento, la lotta per il potere verrà invece vinta dalla corrente di Deng Xiaoping, che intraprese una serie di riforme radicali miranti a decollettivizzare l'economia, prima rurale e poi urbana, premiando i lavoratori più attivi e preparati, mantenendo sempre con rigore il principio dell'autorità assoluta del partito contro ogni prospettiva di pluralismo e di liberalizzazione politica. La politica fortemente riformatrice di Xiaoping contribuì a trasformare la Cina nella superpotenza economica votata all'iperproduttività che conosciamo oggi.
Qualche giorno dopo la morte di Mao Tse-Tung si tennero a Pechino i funerali, seguiti con cordoglio da oltre un milione di persone. In seguito la salma del leader cinese fu esposta in piazza Tienanmen per otto giorni, per poi lì rimanere imbalsamata in un mausoleo sullo stile di quelli sovietici e vietnamiti, contrariamente alla volontà di Mao, il quale aveva richiesto di essere cremato.

9 settembre 2008 muore Stefano Brunetti



Stefano Brunetti viene arrestato l’8 settembre 2008 per rissa. Viene fermato e portato in questura dalla polizia che intende raccogliere le informazioni necessarie interrogando le persone coinvolte. Secondo la versione rilasciata dai poliziotti Brunetti, rinchiuso in camera di sicurezza, si rende protagonista di atti di autolesionismo tanto da costringere gli agenti a chiamare il medico di guardia per sedarlo. Intorno alle due di notte viene condotto nel carcere di Velletri. Il giorno dopo viene ricoverato in pronto soccorso in condizioni critiche dove il dottore Claudio Cappello gli chiede: ” chi ti ha ridotto così?” e Brunetti risponde: “mi hanno menato le guardie del commissariato di Anzio” qualche ora dopo muore. Il Pm Dott. Luigi Paoletti a seguito della denuncia avvia un’indagine che dura due anni. Il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti è così motivato: “Gli imputati sono accusati di aver cagionato in concorso tra loro la morte di Brunetti Stefano tratto in arresto dai medesimi e trattenuto presso le camere di sicurezza del commissariato fino all’accompagnamento in carcere, con atti diretti a commettere il delitto di percosse o lesioni personali, segnatamente colpendolo più volte con un mezzo contundente naturale o non naturale… con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di poteri o comunque violazioni di doveri inerenti a una pubblica funzione”. Il dott. Marella consulente medico legale della procura di Velletri che effettua l’autopsia rileva che le lesioni sono state prodotte nelle 18-20 ore precedenti il decesso ovvero nell’arco di tempo della sua detenzione nella camera di sicurezza del commissariato. La morte è stata causata da una emorragia interna provocata dalla rottura di due costole. Il processo inizia il 26 settembre 2011 presso la Corte di Assise di Frosinone dove vengono ascoltati tutti i testimoni di ambo le parti. I nomi di dei quattro sono: Salvatore Lupoli, Massimo Cocuzza, Daniele Bruno e Alessio Sparacino. Il processo si è concluso il 7 giugno 2013. Dei quattro imputati solo Salvatore Lupoli ha parlato innanzi alla corte contraddicendosi nella sua deposizione con tempi e orari e accusando i medici del pronto soccorso di Velletri di non essere intervenuti in tempo. I giudici si pronunciano i primi di ottobre, assolvendo i quattro poliziotti dopo essersi consultati per non più di 30 minuti di camera di consiglio.

sabato 8 settembre 2018

8 settembre 1974: la polizia uccide Fabrizio Ceruso


È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio!
Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa.
Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete:
La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).
Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni.
È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme.
Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.
Quel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli:
Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…
Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.
*
Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione:
La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…
Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa».
Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974.
Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.
BIBLIOGRAFIA:
Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006.
Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005
Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985.
Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013.
Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986.
Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014.
Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009.
Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010.
A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974