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sabato 5 ottobre 2013

Qatar: the migrant workers forced to work for no pay in World Cup host c...



La faccia del capitalismo odierno è indubbiamente quella delle opere faraoniche e degli eventi intergalattici che attraggono sponsor multimiliardari da tutto il mondo. Del resto, della dimensione pubblica importa poco e di quella ambientale ancor di meno, per cui può esserci una centrale nucleare gravemente danneggiata che sversa in mare a pochi chilometri di distanza dal punto in cui dovrai organizzare un evento globale, ma tu devi fregartene e saltare come un grillo per la felicità di avere vinto all'asta un'imperdibile “occasione di sviluppo”. Il Giappone è un fulgido esempio per capire la pericolosa via intrapresa dal pensiero capitalistico nella sua fase dogmatica, ossia quella del liberismo globalizzato. 
Per fortuna la gioia dei samurai giapponesi pronti a sacrificarsi per il bene del capitalismo globale non è condivisa qui da noi, né in Italia né in Europa, dove ci sono state e ci sono battaglie contro il nucleare e contro l'insensatezza di un progetto inutile e oneroso come quello del Tav che toglie risorse preziose in un momento in cui si taglia sull'essenziale. Certo è che le ombre all'orizzonte si fanno sempre più dense e non accennano a diradarsi, infatti partono proprio dal nodo cruciale del lavoro e dei diritti, messo sotto scacco qui da noi da un processo di riforma ormai ventennale (e qualcuno, insaziabile, continua a chiederne ancora). Infatti, il neocapitalismo richiede sacrifici di sangue per erigere i suoi totem al Dio-Mammona del denaro/potere/successo (rif. Flores d'Arcais – Micromega 6/2013), rivelando così la sua identità dogmatica, ormai ridotta a divinità per l'appunto, che pretende la prostituzione di ogni attività, non ultima quella intellettuale. Il presupposto essenziale è stato raggiunto: il lavoro è stato ridotto a merce, dunque privato dei più elementari diritti e le persone stesse sono state trasformate in cose (come dimostra bene l'esempio giapponese). La teoria liberale sempre più traballante cerca di riportare tutto alla normalità, ma emergono fenomeni preoccupanti e gli stessi liberali sempre più spesso devono ammettere il cortocircuito del loro pensiero. Emerge così da un'inchiesta del britannico Guardian (http://www.theguardian.com/world/2013/sep/25/revealed-qatars-world-cup-slaves) il ritorno dello schiavismo, e dove? Nello Stato recentemente definito da Forbes (http://www.forbes.com/sites/bethgreenfield/2012/02/22/the-worlds-richest-countries/) “il più ricco al mondo”. Una classifica farlocca, basata sui dati del Pil pro-capite forniti dal FMI ci dice che in questa monarchia la crisi economica non esiste e la ricchezza sulla testa di ognuno è la più alta al mondo. Peccato che in Qatar non abbiano fatto altro che vendere risorse energetiche a un occidente drogato, e che ormai anche i sassi sappiano che il Pil pro-capite non dice proprio nulla sulla distribuzione della ricchezza, infatti scopriamo dal Guardian che in questo paradiso terrestre esiste la schiavitù. E indovinate un po' da chi è esercitata? Dalle multinazionali occidentali che sponsorizzano l'evento, of course. E sulla pelle di chi? Su chi se non sui migranti, nepalesi e indiani nella fattispecie, che si vedono sequestrare stipendi e passaporti come nuova forma d'incatenamento dell'essere umano al proprio padrone che può così arrivare fino a privare dell'acqua i suoi sottoposti, costretti a lavorare nei bollenti cantieri di Doha. Che Marx e Engels non si limitassero a ricorrere ad una metafora quando si riferivano alle “catene”, ma che volessero fare riferimento ad una forma più articolata su cui tendono ad ergersi i medesimi rapporti schiavistici mi pare evidente. Lo stesso Formenti ci ricorda proprio a partire dal caso del Qatar come capitalismo e schiavitù non siano affatto incompatibili, anzi. (vedi:http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/10/03/carlo-formenti-il-nuovo-matrimonio-tra-capitalismo-e-schiavitu/
Nel caso del Qatar prescindere dalla situazione internazionale sarebbe poi una stortura di non poco conto, e implicherebbe un esercizio d'indifferenza notevole, poiché in quei paesi la monarchia assoluta va' ancora di moda e le proteste di massa sono state represse brutalmente nel sangue. In Bahrain le “primavere arabe” sono state e vengono ancora stroncate tra torture e arresti preventivi. 
Così anche il più recente ciclo di proteste scatenatosi nelle economie emergenti la scorsa estate, curiosamente, pare aver incontrato la repressione più dura proprio nei paesi sotto l'influenza dell'occidente democratico, ossia nel regime turco di Erdogan – che fino a poche settimane fa spingeva per un uso unilaterale della forza in Siria, nonostante il serio pericolo di estensione del conflitto - e nelle monarchie degli emiri. Due cristallini esempi di “democrazia” che stanno lì a ricordarci come la stessa democrazia che oggi diamo per scontata non sia cascata dal cielo. 
Così l'occidente si trova immerso nell'ipocrisia generale, incapace di razionalizzare il problema della carneficina. Vediamo le recenti tragedie sulle nostre sponde, ma nessuno sa (alcuni sanno, ma fanno finta di non sapere) come fermare “il flusso”: trattare con Gheddafi, ammazzare Gheddafi, fare le “guerre umanitarie” ed “esportare la democrazia”, “mettere le mine” (proposta di Alba Dorata, ma qui da noi c'è chi ha proposto di “sparare ai barconi” senza che le coscienze della maggioranza si risentissero più di tanto). E' stato anche lecito sparare ogni sorta di scemenza sulle politiche migratorie, salvo poi piangere e pregare quando i migranti muoiono e la corrente del mare li fa arenare a frotte sulle nostre spiagge, portando all'evidenza il problema e smuovendo un rigurgito anche alle coscienze più assopite. L'ipocrisia può essere sopportabile fino ad un certo punto, personalmente non la sopporto più, anche perché veder morire un operaio schiavizzato al giorno nei cantieri di Doha dove si prepara un evento in cui si focalizzerà l'attenzione sulla quantità di liquidi ingerita da un miliardario in pantaloncini e si innescheranno polemiche appassionate sul fitto numero di partite in pochi giorni che gli atleti dovranno affrontare, mentre oggi si esercita il pianto pubblico per i migranti che venivano nel nostro paese a ridursi in condizioni simili a quelle degli operai in Qatar, dà il voltastomaco. Si stima che in quel cantiere nei prossimi anni moriranno più di 4000 operai, ma a noi italiani importa poco. C'è un papa anche per loro, le lacrime non costano nulla e la prossima partita dei mondiali di calcio verrà trasmessa in mondovisione. 

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