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venerdì 2 dicembre 2016

2 dicembre 1968 Avola, i braccianti uccisi tra mandorli e agrumi



Avola, i braccianti uccisi tra mandorli e agrumi
2 dicembre 1968: lo sciopero contro le gabbie salariali nel siracusano trasformato dalla polizia in una caccia a uomini disarmati

«Che cosa è successo? C’è stato un gran dispiacere perché non erano morte delle bestie, ma erano stati uccisi dei compagni.»
(Dalla testimonianza resa da un anziano operaio agricolo il 3 dicembre 1968 all’inviato di “Lotte agrarie”, periodico della Federbraccianti-Cgil.)
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Avola 1968

E’ l’Italia del ‘68, scossa dalle manifestazioni degli studenti, alla vigilia di un’imponente stagione di lotte operaie. Ma è anche l’Italia dove la destra cerca e innesca provocazioni proprio per bloccare un sempre più esteso e incontrollabile movimento di masse giovanili e operaie. E’ l’Italia del dimissionario governo balneare di Giovanni Leone (in cui Franco Restivo è ministro dell’Interno).

Si prepara il primo governo di centrosinistra di Rumor e Nenni mentre il socialista Sandro Pertini è stato appena eletto presidente della Camera. E, nell’appendice di questa Italia, i trentaduemila braccianti della provincia di Siracusa sono impegnati da molte settimane (ma chi lo sa? chi ne scrive?) in una durissima vertenza con un’agraria tra le più ricche, le più potenti ma anche le più intransigenti del Mezzogiorno. Non è una vertenza qualsiasi. Intanto per la duplice posta, di evidente valenza: la parificazione delle zone salariali dell’agrumeto e dell’ortofrutta (una sottospecie delle famigerate “gabbie”), e la fine del mercato delle braccia che ha i suoi sfacciati, liberi centri di contrattazione nelle piazze di tutta la provincia e persino nel cuore della città d’Aretusa, in piazza Stesicoro. E poi perché si sa che una vittoria (o una sconfitta) nelle campagne di Siracusa non solo sarebbe decisiva per quella lotta di quei braccianti, ma farebbe da traino (o da freno) alle analoghe vertenze aperte nelle altre zone dell’Isola: dall’altrettanto ricca piana catanese alle più povere province dell’interno, dove vegetano altri agrari, parassiti.

Per la vertenza di Siracusa si è ormai alle strette. Dopo tre settimane di sciopero, i risparmi degli operai agricoli sono agli sgoccioli. Aranci e limoni marciscono sugli alberi.

Le serre sono da troppo tempo prive del riscaldamento necessario per far maturare i primaticci. Alle porte di Avola, lungo lo stradone che da Cassibile (proprio in un agrumeto di quel paese fu firmato il 3 settembre del ’43 l’armistizio che sanciva la resa incondizionata dell’Italia alle potenze alleate) porta a Ragusa, c’è un bivio per Marina di Avola.
Avola 1968

Lì, il pomeriggio di venerdì 29 novembre, un centinaio di braccianti sta seduto in terra, blocca la strada. Il sindaco socialista di Avola Giuseppe Denaro, il deputato comunista Nino Piscitello, il pretore Cassata, il segretario della Federbraccianti siracusana Orazio Agosta convincono gli scioperanti a sospendere il blocco. Andranno loro, anzi torneranno loro, per l’ennesima volta, dal prefetto D’Urso perché si decida a convocare nuove, immediate trattative. Seppur poco convinti, i braccianti vanno a casa.

Ma il prefetto, ottenuto lo sgombero, rinvia la convocazione delle parti all’indomani: «Sono stanco», fa dire e se ne va a casa. E l’indomani gli agrari non si presentano. Il prefetto ne giustificherà l’assenza prendendo per buono, e facendo proprio, un pretesto impudente: «Che volete farci? Questi blocchi stradali a intermittenza impediscono ai proprietari - chi viene da una parte e chi dall’altra - di riunirsi e di preparare le controproposte». E allora nuovo rinvio dell’incontro, prima a martedì poi, dal momento che la tensione cresce di ora in ora, l’anticipo alla sera di domenica, quando però in rappresentanza dei padroni si presenta solo un funzionario privo di qualsiasi potere di trattare e men che mai di firmare un eventuale, comunque improbabile accordo. Piscitello tempesta di telefonate la presidenza della Regione a Palermo, e soprattutto i ministri del Lavoro e degli Interni a Roma dove figuriamoci se, a crisi aperta, c’è qualcuno che ha tempo da perdere dietro alla vertenza dei braccianti di una lontana provincia.
«Costi quel che costi»

Così lunedì 2 dicembre è inevitabile che nel siracusano sia proclamato lo sciopero generale, in appoggio ai braccianti. Tutto chiuso in città, tutto fermo in provincia.

Già all’alba, al solito bivio di Avola, c’è di nuovo raduno di braccianti, ben più grosso stavolta: sono almeno in cinquemila. Molti stanno seduti in strada, altri mangiano pane e formaggio nelle campagne intorno o sui muri a secco che dividono agrumeti e mandorleti. Racconterà il sindaco Denaro: «Il prefetto D’Urso mi aveva telefonato alle otto del mattino.
Avola 1968

Un vero e proprio avvertimento: il blocco di Avola deve sparire, i braccianti devono andarsene, costi quel che costi». E’ minaccia aperta, frutto non solo dell’arroganza di un funzionario (che pure rappresenta il potere centrale) ma certo anche di pressioni degli agrari su quello stesso governo sordo da settimane ai richiami sempre più allarmati di sindacati e partiti di sinistra. I braccianti non se ne vanno? E allora che siano fatti sloggiare, «costi quel che costi» come ha intimato il prefetto.

Detto e fatto: alla due del pomeriggio sei furgoni e alcune camionette della Celere scaricano al bivio di Avola novanta agenti, un’avanguardia di quel famigerato battaglione speciale di stanza a Catania che costituisce la forza d’urto sempre all’erta per le imprese peggiori (come quella del luglio ‘60, proprio nella città dell’Etna, dopo i morti di Reggio Emilia, Palermo, Licata). Il vicequestore Camperisi è pronto a dare l’ordine di sgombero. Il sindaco telefona al prefetto gridando: «Che la polizia non faccia sciocchezze! Qui stanno arrivando anche donne e bambini!». Per tutta risposta D’Urso intima a Denaro di indossare la fascia tricolore: «Lei pensi piuttosto a collaborare con la polizia! ».

Gli agenti sono già con gli elmetti, pronti a inastare i lacrimogeni sulle canne dei moschetti. Deciso a forzare il blocco con la violenza, e prevedendo la legittima reazione dei braccianti, il vicequestore Camperisi dispone persino che sia creata una trincea per l’imminente battaglia: un commando di poliziotti pone di traverso sullo stradone una betoniera. Il blocco, quello vero, ormai l’ha fatto la Celere. Ed è il via alla provocazione. I tradizionali squilli di tromba non valgono come usuale avvertimento: sono il segnale di dare il via all’aggressione senza perdere altro tempo.

Da dietro la betoniera partono a grappoli le bombe lacrimogene: dieci, venti, cinquanta.

I braccianti, colti di sorpresa, fuggono per le campagne a ripararsi dai fumi.

Ma presto si accorgono che non c’è bisogno di mettersi al riparo: il vento rispedisce al mittente i gas mettendo nei guai gli agenti, e rendendo furibondi ufficiali e vicequestore. Un lacrimogeno però esplode tra alcuni braccianti, colpendone uno.

Esasperati, i suoi compagni si difendono come possono, scardinano i muretti e ne scagliano le pietre sulla strada per impedire almeno i forsennati caroselli che le camionette hanno cominciato a fare per creare panico. Allora via radio il vicequestore Camperisi chiede immediati rinforzi. Tempo mezz’ora, da dietro un curvone alle spalle dei braccianti sbuca un altro centinaio di poliziotti, tutti armati sino ai denti come quelli che già fronteggiano gli scioperanti.
«Li stiamo ammazzando»

Ormai è guerra. Gli operai sono presi letteralmente tra due fuochi. Vomitano piombo di fronte a loro e alle loro spalle i mitra Beretta, i moschetti, e le pistole di almeno due calibri diversi, il 9 e il 7,65. Colpi a raffica, centinaia di proiettili: l’indomani Nino Piscitello scaricherà alla Camera due chili e mezzo di bossoli. Sono colpi precisi, diretti con cura ad alzo zero da quando un ufficiale - per dare l’esempio ad agenti esitanti - ha strappato di mano il moschetto ad un graduato ed ha sparato dritto contro un gruppo che tentava di ripararsi dietro un muretto.

Paolo Caldarella alza una mano in segno di tregua: un colpo gliela trapasserà. Poi cade Giorgio Garofalo: una fucilata gli ha forato in otto punti le anse intestinali (si salverà grazie a tre operazioni).

Un’altra fucilata spezza un femore ad Antonino Gianò. E Sebastiano Agostino è colpito al petto poco lontano da Orazio Agosta.

Quando non sono i moschetti e i mitra a farlo, sono le pistolettate che feriscono gravemente Giuseppe Buscemi, Paolo Caldarella, Rosario Migneco, Orazio Di Natale.

E’ un crescendo di violenza selvaggia, talmente insensata che a notte, all’ospedale di Siracusa, un agente colpito alla testa da una pietra continuerà per ore a gridare nel delirio: «Comandante! Comandante! E’ un’infamia... E’ il tiro al bersaglio... Lasci stare la pistola! Così li stiamo ammazzando!».

E infatti due braccianti moriranno tra atroci sofferenze.

Così viene ucciso Angelo Sigona, 25 anni da Cassibile: inseguito, braccato tra gli alberi, fucilato davanti ad un muretto. Raccolto in un lago di sangue da due compagni, non basteranno a salvarlo due interventi, prima all’ospedale di Noto e poi a quello di Siracusa. Così è ammazzato anche Giuseppe Scibilia, 47 anni da Avola, pure lui inseguito a trecento metri dal luogo degli scontri e centrato al petto. Non si saprà mai se ad ucciderlo sia stato quell’ufficiale visto da tutti (ma da nessuno identificato) mentre gridava ai suoi uomini che gli passassero i caricatori per il suo personale, allucinante western. Forse è lui il “comandante” citato nel delirio dall’agente ferito.

O forse no, perché in effetti, come racconterà più tardi Orazio Agosta, «tutti, ma proprio tutti, sparavano.

Ho visto poliziotti sparare anche contro i serbatoi delle motociclette dei braccianti perché prendessero fuoco e provocassero ancor più casino ». Venticinque minuti dureranno sparatorie e incendi e caroselli: da un lato duecento armi, dall’altro mille pietre. Da un lato, tra i braccianti, due morti e una diecina di feriti gravi; dall’altro, tra i poliziotti, quattro contusi ed un ferito, quello che nel delirio avrebbe confermato tutto l’orrore dell’impresa.

Fulminea, la notizia della tragedia scuote l’Italia intera.
Avola 1968

Immediata la proclamazione per l’indomani di uno sciopero generale dei braccianti in tutto il Paese e di tutti i lavoratori in Sicilia. Non c’è bisogno di direttive: già nella stessa serata dell’eccidio ci sono state le prime manifestazioni di protesta.

Grande è l’imbarazzo nel governo dimissionario e soprattutto tra quanti lavorano - tra difficoltà di opposta natura - alla costituzione del governo di centrosinistra. E ancor più grande è l’irritazione, tra i socialisti, quando in un primo momento la presidenza del Consiglio prova a far ricadere sui braccianti la responsabilità dell’eccidio: ovvio, sassaiola dei lavoratori in sciopero e legittima reazione di «alcuni agenti» che «trovatisi isolati, di loro iniziativa hanno fatto uso delle armi». E’ la tesi fatta accreditare ufficialmente nel telegiornale della sera, e che non spiega la gravità degli eventi.

Sono davvero soltanto di “alcuni agenti” i chili di bossoli raccolti sul luogo della battaglia? E poi: il fuoco non è stato aperto su lavoratori che stavano avendo la meglio sulla polizia ma su centinaia di persone disarmate e in fuga disperata per i campi. Insomma, se pure non c’è stato un ordine specifico (ma non è inteso così quello sconsiderato «sgomberare, costi quel che costi» intimato dal prefetto?), evidente era la volontà - denunciano i sindacati - di dare una lezione ai braccianti, di far loro pagare una lunga vertenza.
La “grana” di Avola

L’irritazione in casa socialista ha anche un altro motivo: Aldo Moro ha già fatto sapere che la Dc non intende rinunciare agli Interni (che resteranno in sua mano, ininterrottamente, sin dopo Tangentopoli) e meno che mai è disposta a dimissionare Franco Restivo in seguito alla “grana di Avola”, come l’ha subito definita il giornale più autorevole di un’inquieta borghesia e di un padronato reso ancor più inquieto dalle avvisaglie dell’accordo Dc-Psi. Comunque, o proprio per questo, dura poco, molto poco, il tentativo così grossolano e tanto insostenibile di cambiare le carte in tavola. Giocano molti fattori ad imporre un intervento più realistico del Viminale e del ministro Restivo in persona: la proclamazione dello sciopero generale, la preoccupazione evidente di non aggravare la tensione già altissima, un avvertimento di Sandro Pertini (discreto ma energico, com’è suo costume, ed autorevolissimo ché presiede la Camera) che anche i socialisti non intenderanno mettere il bollo su pretestuose giustificazioni, la durissima reazione dell’opposizione di sinistra che reclama la convocazione straordinaria del Parlamento.

E allora, qualche minuto dopo le dieci di sera di quello stesso 2 dicembre, uno scarno ma inequivoco comunicato del Viminale smentisce la prima, più avventata versione: salta il questore di Siracusa Politi, rimosso dal ministro Restivo e collocato a disposizione proprio «in relazione ai luttuosi fatti di Avola». Bene, ma perché solo lui e non anche il vicequestore Camperisi che ha guidato la repressione? E perché solo il questore e non anche il prefetto D’Urso che è stato l’alleato costante degli agrari e che, con quella sua telefonata al sindaco di Avola, ha anticipato la determinazione di soffocare ad ogni costo la lotta dei braccianti? All’annuncio della rimozione del questore, Leone e Restivo fanno poi seguire una nota ufficiosa non solo per esprimere «il più profondo dolore per l’accaduto» ma anche per manifestare «il fermo intendimento di fare piena luce sugli avvenimenti ». La luce non sarà mai fatta, e gli interrogativi resteranno senza risposta.

Ma l’eccidio non resterà senza conseguenze. L’indignazione è così generale, le preoccupazioni talmente diffuse, la pressione delle confederazioni sindacali tanto forte, l’allarme nel padronato così evidente che da Roma parte l’ordine della Confagricoltura di tornare a trattare. Così, proprio mentre ancora è in corso lo sciopero generale e si preparano i funerali di Scibilia e Sigona, a Siracusa si riprendono - in pratica si aprono - le trattative sempre rifiutate o rinviate dagli agrari. Si tratta ad oltranza, con l’intervento dei segretari confederali di Cgil, Cisl e Uil. Quindici ore ci vogliono per piegare le resistenze padronali, e alla fine l’accordo segnerà l’abolizione delle differenze salariali tra le due zone, l’aumento delle paghe, la rinuncia al mercato delle braccia (anche se tanto tempo dopo si ricomincerà, e stavolta saranno gli extracomunitari a patirne le conseguenze). Ma c’è anche e soprattutto un punto fermo: Avola diverrà la scintilla di una stagione politica che, comunque la si riguardi a tanti anni di distanza, porrà fine all’intervento della polizia nei conflitti sindacali. Un intervento che dal ‘47 ad allora aveva provocato quasi cento morti. Un elenco chiuso, appunto, dai nomi di Giuseppe Scibilia e di Angelo Sigona.
* * *

Quando, tanti anni dopo, Bruno Ugolini ricorderà per il suo giornale quella tragica giornata, scriverà: «Oggi, spulciando su Internet, in un sito dedicato alla storia di Avola, leggo: “Cittadina di 32mila abitanti, situata nel golfo di Noto,in territorio pittoresco e dirupato”. Non trovo cenno di quei suoi figli, Sigona e Scibilia. Eppure è merito loro se quel nome, Avola, suscita ancora tante emozioni».

Foto dell’epoca tratte dal sito della Cgil di Siracusa
Giorgio Frasca Polara
Roma, 2 dicembre 2004
da "Liberazione"
Brianza Popolare

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