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lunedì 22 ottobre 2018

E’ sposato con una italiana, il giudice lo dichiara inespellibile ma finisce lo stesso in un centro espulsioni. L’incredibile vicenda di Diego Ndoudi

Capita anche questo. Va in questura a ritirare il permesso di soggiorno, la polizia lo "impacchetta" e lo spedisce in un centro espulsioni. E pazienza se è sposato con una donna italiana ed è stato dichiarato inespellibile dal giudice. E’ successo lo scorso giugno ad un cittadino congolese, Diego Dieumerci Ndoudi. La moglie ha contattato la redazione di Melting Pot ma ci ha chiesto di mantenere il silenzio sino a che il marito non fosse uscito dal centro, per evitargli guai peggiori. Oggi, Diego, è stato finalmente rimesso in libertà. E’ tornato dalla moglie, ci ha lasciato una intervista video e possiamo raccontare la sua vicenda.
E partiamo da quel giorno in questura quando, invece di vedersi consegnare il permesso di soggiorno, si trova chiuso in una stanza, pronto per essere spedito nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Potenza. La moglie, toscana di Grosseto, viene avvisata con un sms e corre in questura solo per scoprire che non può neppure avvicinarsi al marito.
"Il giudice ha detto che non può essere espulso, mica che ha diritto al permesso di soggiorno", le dice un poliziotto. Va in scena insomma, il solito teatrino del poliziotto buono e poliziotto cattivo.
"Sì, te lo portiamo al centro di espulsione di Potenza, ma vedrai che te lo rimandano a casa in un paio di giorni. Stai tranquilla" la tranquillizza il primo. "Gente così deve tornarsene a casa sua. Vi va bene che tu sei sua moglie e soltanto per questo gli abbiamo concesso il permesso di mandarti un sms e non lo abbiamo imbarcato immediatamente a Fiumicino - le dice il secondo, che puntualizza - Della sentenza del giudice, a noi, non ce ne frega nulla".
Dieumerci Ndoudi ha 28 anni. E’ congolese e lo chiamano tutti Diego perché il padre è un tifoso di Maradona. Nel 2010 è convolato a nozze con una ragazza toscana che che lavorava in un progetto di cooperazione sociale locale in Congo. Finito il periodo di lavoro all’estero, la moglie è tornata in Italia e Diego è andato con lei. Ma il loro, più che un matrimonio, è una odissea barcamenata tra soprusi e assurdità burocratiche.
La moglie ce l’ha raccontata quando Diego era ancora rinchiuso nel centro espulsioni di Potenza. Comunicavano con un cellulare del quale doveva gestire con parsimonia la carica, in quanto non gli era concesso di collegarlo ad una presa di corrente. Un cellulare con la telecamera rotta. "Pare che sia la prassi, altrimenti la polizia non potrebbe riconsegnare il telefono ai migranti. Non è consentito scattare foto delle strutture" ci ha spiegato la moglie quando ci ha chiesto di allertare la rete di legale di LasciateCIEntrare.
Come sia potuto succedere che un cittadino straniero regolarmente sposato con una italiana, possa essere espulso, ce lo ha spiegato così: "All’inizio del nostro matrimonio tutto era filato alla perfezione. Diego aveva imparato l’italiano, preso la patente e anche trovato lavoro come operaio nel settore degli infissi. Lui, nel suo Paese, lavorava il legno. Era uno scultore. Poi l’azienda è andata in crisi e lui è rimasto a casa. Ha avuto dei problemi con la giustizia: in questo periodo, si è preso qualche denuncia perché ogni volta che i carabinieri lo fermavano per un controllo, lui reagiva".
In questo periodo accade poi un episodio fondamentale. Una signora viene scippata da due neri e la polizia ferma Diego che era nelle vicinanze. La signora lo scagiona subito, spiegando che non era lui uno dei due ladri, ma Diego viene ugualmente portato in caserma per accertamenti. Ammanettato mani e piedi le prende di santa ragione.
"Ne esce con otto punti di sutura alla testa e una denuncia per resistenza - racconta la moglie -. L’accusa di scippo cade subito perché tutti i testimoni concordano nell’affermare che non era stato lui. La stessa signora scippata lo scagiona. Ma gli rimane comunque una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. Diego era su una bicicletta senza lucchetto e non voleva abbandonarla per seguire in questura i poliziotti".
Così Diego Dieumerci Ndoudi va a processo e, come recidivo, si becca 4 anni "esemplari" tra carcere e comunità.
"Pensavamo che fosse tutto a posto ed invece è cominciato il calvario". Diego va su e giù decine di volte per gli uffici della questura di Grosseto a chiedere quello che è solo un suo diritto: restare a vivere nel Paese della moglie. Ed invece ogni volta il personale dell’ufficio tira fuori una novità: prima deve avere un avvocato, poi torna con l’avvocato e non lo ricevono. Ad un certo punto lo mandano dai sindacati, non si è capito a far cosa. In un giorno solo lo fanno tornare ben cinque volte, sempre per una carta che manca. Lo mandano anche a Roma, alla sua ambasciata, a farsi rinnovare il passaporto. La cosa va avanti per mesi. Alla fine gli dicono che è tutto a posto, che gli daranno il permesso di soggiorno, e che torni domani (venerdì 15 giugno ndr.) alle ore 9 che gli consegneranno le carte. Lui ci va e lo tengono, senza dirgli nulla, sino alle tre del pomeriggio, quando improvvisamente gli sequestrano cellulare e documenti e gli dicono che sarà immediatamente portato al centro espulsioni di Potenza per essere successivamente rispedito in Congo. Diego credeva che stessero preparando il suo permesso di soggiorno ed invece stavano scrivendo il decreto di espulsione.
Solo, alla sera, mentre lo portano al pronto soccorso per la visita di prassi, la polizia gli consente di mandare un sms alla moglie che lo raggiunge là con l’avvocato. "Non me lo hanno fatto neppure vedere, mio marito. I poliziotti ci hanno dato risposte assurde e il nostro avvocato è rimasto scioccato di fronte a tanta arroganza. Una sentenza del giudice non vale dunque più niente? E come possono arrogarsi il diritto di separare una famiglia? Ho potuto vederlo solo all’uscita, mio marito, mentre lo caricavano nella volante. Ho fatto appena in tempo a porgergli un panino perché neppure da mangiare gli hanno dato".
Oggi, quattro mesi dopo, possiamo scrivere che la vicenda è finita bene. Diego è stato liberato ed è potuto tornare dalla sua compagna. Non tutto però è risolto, c’è ancora un ricorso in Cassazione depositato perché la Questura ancora non rilascia il permesso di soggiorno. Diego sta anche avviando una attività come falegname ed artigiano del legno nella sua Grosseto. Ma dentro, gli rimangono ancora le ferite dei tanti soprusi subiti e una domanda che non ha trovato risposta. Perché tutto questo?

Diamo la cittadinanza onoraria a Domenico Lucano per una Riace in ogni città

«Un invito alle Amministrazioni comunali ad avviare la procedura per il conferimento della cittadinanza onoraria di Domenico Lucano, sindaco di Riace e simbolo dell’esperienza-modello di Riace“.
E’ questa la proposta che Re.Co.Sol – la Rete dei Comuni Solidali – e “Io Sto con Riace” promuovono per rispondere con la solidarietà e degli atti concreti al divieto di dimora imposto a Lucano, un militante di base e poi sindaco che durante la sua vita «ha dimostrato come le migrazioni se gestite nel modo corretto possano essere una risorsa per il rilancio e la rinascita delle comunità locali».
Dalla pagina Facebook di “Io sto con Riace” si legge:
«Il 6 Ottobre è stata una giornata storica per Riace e per l’Italia: 10.000 persone erano fianco a fianco per sostenere Domenico Lucano e quel suo modello politico che ha rigenerato anziché desertificare, unire invece che dividere, far nascere invece che far morire, reso pubblico e comune anziché privatizzare.
Si pensava che i domiciliari fossero un colpo troppo forte per un Sindaco che non si è arricchito con l’accoglienza, non ha rubato, non ha avvantaggiato propri familiari per costruire un sistema personalistico, non ha mai usato il Potere per se stesso.
E invece no.
Il divieto di dimora è stato il corpo inferto più grande, più umiliante per chi ha agito per 20 anni col solo scopo di far rinascere la propria città ormai pronta a scomparire come quelle centinaia di piccoli comuni sfaldati da emigrazioni e assenza di lavoro. »
«Per questi motivi – continua la proposta – si è pensato di legare assieme la difesa di Riace con la necessità di far esportare i principi del modello in ogni città e riconoscere il lavoro svolto da primo cittadino di Mimmo Lucano.
Per queste ragioni Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali​ ha lanciato una proposta molto importante: dare la cittadinanza onoraria a Domenico Lucano.»
E’ possibile scaricare il testo di riferimento che tutti i consiglieri comunali, Sindaci dei quasi 300 sindaci aderenti alla Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali, e non solo, possono utilizzare e proporre nel proprio Consiglio Comunale.

Firenze, 26 ottobre: manifestazione per lo Sciopero Generale


Il 26 ottobre si terrà un importante sciopero nazionale di tutte le categorie pubbliche e private, contro bassi salari, ritmi e carichi di lavoro sempre più elevati, l’aumento di precarietà contrattuale, disoccupazione e sottoccupazione, l’innalzamento dell’età pensionabile, lo smantellamento della sanità pubblica, contro privatizzazioni, appalti e delocalizzazioni, la strage di morti sul lavoro e contro le politiche razziste del governo che umiliano i diritti di uomini e donne, nostri compagni di lavoro.

Anche in Toscana lo sciopero sarà organizzato da Cub, Usi, Sgb, Sicobas e partecipato a livello nazionale da svariate realtà di lotta in molti settori e territori.
Basta disoccupazione; basta politica dei sacrifici, chiesta dai sindacati confederali, che abbatte i salari e distrugge i servizi con il welfare aziendale e che serve solo ad arricchire i padroni.

È ora di tornare protagonisti come lavoratori e come studenti battendosi contro la scuola dei padroni e difendendo i nostri interessi e non le poltrone dei dirigenti sindacali.
• Per aumenti veri di salari e pensioni
• Per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e lavorare meno per lavorare tutti!
• Per ridurre fortemente l’età pensionabile e abolire la Legge Fornero, abolire il Jobs act e ripristinare l’articolo 18
• Per eliminare l’alternanza scuola/lavoro e qualsiasi tipo di lavoro precario
• Per i diritti universali alla salute, alla casa, alla scuola, alla mobilità pubblica
• Per l’abolizione di spese militari e missioni all’estero
• Per la tutela dei territori contro le grandi opere inutili, dannose e costose
• Per il diritto di sciopero e le libertà sindacali
• Contro l’aumento dei prezzi di luce, gas, acqua, carburante, e spese istruzione
• Contro la repressione nei luoghi di lavoro, nei quartieri, a scuola
• Contro il decreto razzista voluto da Salvini, per abolire le leggi Bossi/Fini e Minniti/Orlando

Uniti si può, uniti si vince!

Contatti:
cub-trasporti@libero.it; usisanita.careggi@gmail.com

L'estrema destra sta conquistando anche la Svezia

di Mattia Gallo
https://www.globalproject.info/it/mondi/lestrema-destra-sta-conquistando-anche-la-svezia/21677
L’affermazione del partito di destra dei Democratici Svedesi, durante la recente tornata elettorale nel paese scandinavo, s’iscrive in un trend europeo di affermazione sociale ed elettorale dei partiti di destra in tutta Europa. Allo stesso tempo, nel paese del Welfare State e dei diritti civili avanzati, quest’ascesa politica assume delle specificità. Di seguito un’intervista a Petter Nilsson, attivista politico di sinistra svedese che vive a Stoccolma e membro del Center for Marxist Social Studies (Centro di studi sociali marxisti) situato proprio nella capitale svedese. Lavora inoltre per il Left party a Stoccolma. Ha scritto doversi articolo sul magazine Jacobin sulla situazione politica svedese.
Quali sono le cause principali che hanno portato all’emergere di un partito xenofobo di destra in Svezia come I Democratici Svedesi, addirittura vicini a diventare il partito guida della nazione? Quali settori della società hanno espresso il loro consenso nei loro confronti?
La principale forza motrice dell'ascesa dei Democratici Svedesi è una questione molto discussa nel dibattito pubblico in Svezia e si articola approssimativamente in due posizioni principali: o l'attenzione è rivolta alla classe e all'economia in cui la crescita di tale formazione politica è spiegata dall’aumento delle differenze di classe in Svezia che ha portato a una classe lavoratrice scontenta, o l'attenzione è rivolta alla "cultura" e la spiegazione è che un piccolo paese abbastanza omogeneo ha avuto alti livelli di immigrazione non europea che - in concomitanza con questa tendenza nel resto d'Europa - ha attivato un razzismo latente.
Io penso che la verità sia in mezzo.
Il declino del robusto stato sociale e la relativa decrescita di certi settori della classe operaia, insieme a una svolta centrista dal movimento operaio tradizionale nei Socialdemocratici e nei Sindacati, hanno sviluppato una base sociale conscia dell’immiserimento della propria condizione di vita. A questo va aggiunto che negli ultimi anni non ci sono stati grandi interventi da parte del Governo per quanto riguarda la politica economica e come abbiamo visto anche in altri paesi d’Europa, il capro espiatorio per l’impoverimento della popolazione è diventato l’immigrazione. Quindi sì, ci sono persone in Svezia che sono razziste e che lo sono state a lungo - ma in precedenza questi sentimenti non erano stati organizzati politicamente e inoltre gli elettori ritenevano che i principali conflitti politici riguardassero l'occupazione, l'istruzione e la sanità - non l'immigrazione. Quindi, quando la dimensione della classe non è organizzata, apre la porta al populismo di destra, che viene poi codificato nella forma dei conflitti culturali.
Ci sono due importanti movimenti elettorali per i Democratici Svedesi; il primo 5-8% proveniva da settori economicamente più benestanti e si concentrava in aree con tradizioni di xenofobia e partiti populisti di destra locale. Mentre nel secondo caso va considerato che negli ultimi quattro anni hanno anche preso una parte più ampia dei voti tradizionali della classe operaia dalla Confederazione Sindacale (LO) e dalle aree in cui i partiti populisti di destra non avevano fatto progressi prima. Al momento non c'è quindi un elettore tipico, anche se c'è una grande sovra presentazione di maschi e un grado inferiore di persone con solo l'istruzione primaria o secondaria.
Il partito dei Democratici Svedesi è un partito di centro – destra con posizioni rigide sulla questione dei migranti, o è un partito di destra vero e proprio?
Nel complesso, i Democratici Svedesi sono un classico partito di destra con un'agenda che include l'abbassamento delle tasse, la deregolamentazione dei diritti dei lavoratori, il sostegno al mercato e così via. Ma la principale forza trainante del partito, che è anche l'unico problema cui tengono davvero, è l'anti-immigrazione. Ciò significa che a volte possono collocarsi in qualsiasi area politica per alcune scelte politiche, specie se sembra dare loro guadagni a breve termine, a volte semplicemente perché in realtà non hanno nessuna visione politica al di fuori della questione immigrazione.
La Svezia è vista ancora oggi da molti intorno al mondo come un modello di Welfare State. È vero che le cose sono cambiate negli ultimi decenni?
La Svezia ha avuto così alti livelli di welfare state universale negli anni '70 e '80 ma ancora oggi c’è un alto livello di benessere in Svezia. Ma bisogna tenere a mente che la Svezia ha avuto anche le differenze di classe in più rapida crescita all'interno dell'OCSE negli ultimi decenni, e un'enorme spinta alla privatizzazione e alla deregolamentazione. Ad esempio, la Svezia è ora l'unico paese al mondo che consente alle imprese private di approfittare dell'istruzione primaria.
È vero che negli ultimi anni in Svezia si è registrato un incremento dell’immigrazione? Come ha reagito a questo la popolazione? Che tipo di politica sull’immigrazione è stata portata avanti dai partiti che hanno guidato il paese negli ultimi anni?
C'è stato un grande picco di migrazione nel 2014-2015 dovuto principalmente alla guerra in Siria. Durante questi due anni, la Svezia ha registrato rispettivamente 80.000 e 160.000 arrivi, con un forte impatto su un paese di meno di dieci milioni. I sistemi di welfare, in particolare i sistemi di arrivo, non hanno avuto il tempo di soddisfare le nuove richieste, ma ci fu una grande attivazione della società civile per accogliere i rifugiati. Questo alla fine ha portato a un limite dell'immigrazione nel 2015 e dopo questo picco, i livelli sono tornati ai livelli precedenti di circa poche migliaia al mese.
L'ascesa dei Democratici Svedesi sembra indicare un aumento dei sentimenti anti-immigrazione, ma il quadro è complicato. Gli studi sembrano dimostrare che esiste un atteggiamento positivo stabile nei confronti dell'immigrazione in Svezia, ma non si può negare che nel dibattito pubblico, i punti all’ordine del giorno della discussione e gli argomenti dei politici si siano alla fine spostati sul voler ridurre l'immigrazione. L'ascesa dei Democratici Svedesi ha anche significato che alcune delle loro politiche sono state adottate in una certa misura da altri partiti, principalmente quelli dalla parte destra dello spettro politico e in particolare dai moderati e dai Cristiano - Democratici.
Il precedente governo ha iniziato con un atteggiamento progressista verso l'immigrazione - in quello che divenne un infame discorso il primo ministro socialdemocratico annunciò che "nella mia Europa non costruiamo muri per tenere la gente fuori", e nel 2015 fecero proprio questo. Purtroppo questa è una tendenza generale in tutta Europa e in un'analisi generale si può affermare che la Svezia ha accettato molti più rifugiati di altri paesi europei pro capite. Ma non è l’unico. Alla fine la questione è che la Svezia - così come altri paesi europei - deve rendersi conto che i grandi flussi migratori saranno un dato di fatto del futuro, e tutte le forze progressiste devono mettersi insieme per affrontare questa questione in un modo che consente di salvare la vita delle persone e di rafforzare anche gli stati sociali nei paesi beneficiari.

¡Si se puede! Giù la frontiera e la carovana migrante entra in Messico

di Christian Peverieri 
https://www.globalproject.info/it/mondi/si-se-puede-giu-la-frontiera-e-la-carovana-migrante-entra-in-messico/21680
Una marea umana, giovani, donne, vecchi e bambini nella giornata di venerdì hanno forzato i blocchi posti alla frontiera tra Guatemala e Messico al grido di “¡Si se puede, Guatemala!” e hanno superato il confine dopo aver resistito anche al lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia federale messicana.
Fanno parte della #CaravanaDeMigrantes partita da San Pedro Sula, Honduras, il 13 ottobre e che da quasi una settimana sono in viaggio con destinazione gli Stati Uniti, terra promessa e co-responsabile della violenza e della povertà nel paese per l’appoggio al presidente Juan Orlando Hernandez. Fuggono, infatti, da un paese, dove non ci sono possibilità, dove si rischia quotidianamente la vita per la violenza, dove i ragazzini rischiano ogni giorno di essere cooptati dai gruppi criminali. Fuggono perché non c’è speranza, fuggono perché è meglio l’incognita di un viaggio terribile e pericoloso che la certezza di restare tra la violenza e la povertà. Nemmeno un anno fa l’Honduras ha provato a venire fuori da questa crisi appoggiando la candidatura a presidente di Nasralla ma un’incredibile, e senza dubbio truccata, rimonta a dati praticamente certi aveva consegnato la rielezione a Juan Orlando Hernandez. A seguito dei brogli elettorali le contestazioni sono durate mesi ma non hanno ottenuto di rovesciare il governo fraudolento anche per l’immancabile ingerenza statunitense.
La carovana ha superato varie insidie, oltre a quelle viaggio. Hanno provato a fermarli in Guatemala arrestando il leader della carovana, Bartolo Fuentes. E nemmeno, sono servite le minacce del presidente americano Trump che ha ordinato ai presidenti di Honduras, El Salvador e Guatemala di fermarli pena il taglio degli aiuti. La carovana è giunta quindi a ridosso del confine col Messico con gli occhi puntati addosso. Ai 1500 migranti partiti dall’Honduras se ne sono aggiunti almeno altrettanti, tanto che alcuni testimoni parlano addirittura di oltre 6000 persone in attesa di varcare il confine. Un confine, quello tra Messico e Guatemala, divenuto molto importante negli ultimi anni in quanto a seguito di accordi con gli Stati Uniti ha di fatto spostato il tanto terribile “muro di Trump” proprio qui a sud, con la polizia e l’esercito messicano a fare il cane da guardia al vicino del nord.
In questa situazione, venerdì c’è stato l’arrivo alla frontiera. Già dalla mattinata alcune imbarcazioni di fortuna erano riuscite ad attraversare il rio Suchiate e a trasportare sulla sponda messicana alcuni migranti, approfittando del sostegno della manifestazione dei migranti a Tecùn Umàn.
Poi nel pomeriggio la forzatura della frontiera: i migranti fermi a Tecún Umán hanno divelto le inferriate e sono riusciti a entrare nella terra di nessuno che separa i due avamposti di polizia guatemalteco e messicana. Ad attenderli dall’altra parte però c’era la polizia federale messicana che in un primo momento li ha respinti anche con l’uso di gas lacrimogeni. Gli scontri però son ben presto finiti. Visto l’incredibile numero di persone in attesa di varcare il confine, le autorità messicane hanno riportato la calma garantendo a tutte le persone in regola con i documenti l’ingresso in piccoli e ordinati gruppi e l’accoglienza negli albergues per migranti.
messico
Il governatore del Chiapas Manuel Velasco ha già annunciato che li accoglierà. Per molti, quasi tutti, il Chiapas e il Messico restano comunque solo un luogo di passaggio. Il viaggio per loro non è finito. Ad attenderli ora un paese che negli ultimi dodici anni ha visto sparire nel nulla 35 mila persone e morire di morte violenta oltre 250 mila. Un paese che, nonostante il nuovo presidente AMLO, continuerà a presidiare le strade con polizie ed esercito e non ha nessuna intenzione di rinunciarvi. Un paese che non garantisce la sicurezza nemmeno per i propri cittadini.
messico
La carovana migranti è senza dubbio un evento importante che riapre anche in quella parte del mondo il dibattito sulla questione delle migrazioni, osteggiate in tutti i modi dai governi che le provocano. A giorni partirà da Città del Guatemala anche la carovana delle madri dei desaparecidos migranti organizzata dal Movimento Migrante Mesoamericano che da vari anni ripercorre il tragitto dei migranti desaparecidos per cercarli. La carovana terminerà i primi di novembre a Città del Messico, giorni in cui è previsto anche il Forum Sociale sulle Migrazioni.
messico

Trento - Centinaia in marcia contro Salvini

Due volte in una settimana la Trento antirazzista ha fatto sentire la propria voce. Centinaia di persone si sono date appuntamento in Via Verdi e hanno dato vita a un vivace e corposo corteo in risposta all’ascesa di Salvini e del comizio elettorale che avrebbe dovuto tenere la sera, in sostegno della candidatura di Maurizio Fugatti.
Non è la prima volta che il leader leghista visita il Trentino, con il suo solito bagaglio di propaganda xenofoba e qualunquista, bensì la terza. Tuttavia gli effetti della sua nuova carica da Ministro degli Interni sono ben visibili: militarizzazione della città e prescrizioni della questura di ogni sorta.
Tutto questo non ha rappresentato in ogni caso alcun deterrente, Trento infatti è stata scenario di una grande manifestazione eterogenea composta da centinaia di persone: dal centro sociale Bruno, ai collettivi studenteschi, ai sindacati di base, e in generale da coloro che non potevano tollerare la presenza di Salvini e la proliferazione selvaggia della sua barbara retorica razzista. Numerosi sono stati inoltre gli interventi al microfono e i cori scanditi a gran voce da tutto il corteo.
In questa importante giornata Salvini non è stato l’unico ospite indesiderato e contestato. Il Partito Democratico trentino, infatti, ha ben pensato di concludere la propria campagna elettorale invitando Marco Minniti, che ha vestito la carica di Ministro dell’Interno durante la precedente legislatura ed è stato responsabile nell’ aver spianato la strada alle attuali politiche xenofobe e securitarie dell’esecutivo giallo-verde: la guerra alle ONG, gli accordi criminali con la Libia e le politiche securitarie con l'introduzione del daspo urbano sono solo alcuni esempi. Due facce della stessa medaglia che, secondo i partecipanti, non possono essere tollerate in città.
Il Decreto Minniti prima, il decreto Salvini poi hanno prodotto conseguenze nefaste per quanto riguarda la repressione, le condizioni giuridiche e sociali di migranti, poveri, occupanti, attivisti. Sono stati ricordati in particolare due episodi cruciali che ben rendono la situazione che stanno vivendo: dall’arresto di Mimmo Lucano e lo smantellamento del modello Riace, (attualmente studiato e preso come riferimento in tutto il mondo) al grave episodio di Lodi, dove ai bambini stranieri è stata negata la mensa scolastica.
La piazza antirazzista di ieri, non solo è stata la migliore risposta a Salvini e alle sue politiche ma ha rappresentato anche una prima vittoria: il leader leghista infatti, che aveva annunciato in pompa magna di tenere il comizio nella simbolica Piazza Dante, da sempre oggetto di speculazione razzista, per sua stessa ammissione è stato costretto a isolarsi nel quartiere fantasma delle Albere, iper militarizzato e completamente fuori dalla città per timore di contestazioni.
Dopo un breve comizio, infarcito sempre della solita becera retorica, ha lasciato la città.
Non un addio ma un arrivederci: tanto è vero che il corteo ha lanciato la prossima data nazionale il 10 novembre a Roma; tanti e tante raggiungeranno la capitale per contrapporsi alla conversione in Legge del criminale “decreto immigrazione e sicurezza”, al governo, al ddl Pillon e alla crescente ondata di intolleranza e repressione.

Alessandria - Da Macerata al #10N

Un filo lungo quasi un anno che ha vissuto un cambio di governo, un passaggio di testimone al vertice del Viminale, da Minniti a Salvini.
Un passaggio che ha accentuato l’attacco ai corpi migranti, ai corpi ultimi, ai corpi che un decennio di crisi economica, amplificato da politiche recessive, ha schiacciato e spinto sempre più in fondo alla scala sociale.
Un tentativo di esclusione senza precedenti che tramuta quei milioni di corpi nell’oggetto dell’attacco, nel tentativo di renderli invisibili.
Questo il loro attacco, questo il loro filo.
Ma. C’è un Ma avversativo e propositivo su cui, dall’epoca Minniti a quella di Salvini, si è costruita una proposta alternativa, fatta di solidarietà e resistenza. Un filo è stato tracciato da Macerata a Ventimiglia, passando per il molo di Catania a cui era attraccata la nave Diciotti e per mille altri piccoli e grandi gesti di resistenza alla barbarie.
Un filo che corre parallelo e che, non rispettando gli assiomi geometrici, vuole confliggere, farsi materiale il 10 novembre a Roma.
Lanciamo la data di Roma senza voler nascondere le fatiche di una costruzione complessa e articolata che ha trovato una sintesi nell’assemblea del 14 ottobre.
Una sintesi tra tanti e tante.
Non si può più attendere perché lo spazio politico in cui provare con coraggio a bloccare il decreto immigrazione e sicurezza è qui e ora, dopo sarà tardi, dopo i loro strumenti di attacco ai nostri corpi faranno più male. E tanto.
Le orrende anticipazioni di quello che potrebbe essere le vediamo già nell’attacco a Riace, nel deserto di navi di Ong nel Mediterraneo, nella chiusura dei porti, nella falsa retorica securitaria, nella mensa di Lodi.
Ma il nostro filo ha già, in parte, saputo rispondere.
Con la Mediterranea Saving Humans guscio di speranza nel deserto del mare che circonda la penisola, per le strade di Riace, con la raccolta fondi di Lodi.
Mille voci si sono fuse a Roma e hanno lanciato il cuore oltre l’ostacolo della rassegnazione e della paura, individuando nella data del 10 novembre il momento e lo spazio necessario per portare i nostri vissuti fatti di solidarietà, insubordinazione, disobbedienza agli occhi di tutti e tutte.
Un momento plurale, rispettoso delle storie di ogni realtà singola e collettiva, unitario perché la fase lo impone, determinato perché sono state le “mezze parole” ad aver, per ora, fatto trionfare la retorica salviniana.
-Per ritiro immediato del Decreto immigrazione e sicurezza varato dal governo. NO al disegno di legge Pillon.
– Accoglienza e regolarizzazione per tutti e tutte.
– Solidarietà e libertà per Mimmo Lucano! Giù le mani da Riace e dalle ONG.
– Contro l’esclusione sociale.
– No ai respingimenti, alle espulsioni, agli sgomberi.
– Contro il razzismo dilagante, la minaccia fascista, la violenza sulle donne, l’omofobia e ogni tipo di discriminazione.
Per queste ragioni convochiamo una MANIFESTAZIONE NAZIONALE sabato 10 novembre a Roma.
Partenza in pullman da Alessandria, per info e prenotazioni telefonare a Elio al 3349943428.
Laboratorio Sociale Alessandria

22 ottobre 1974 i funerali di Adelchi Argada


Studenti, operai, militanti ed anche rappresentanze istituzionali. Ci fu il Presidente della Giunta regionale Aldo Ferrara e Francesco Caruso per la Federazione CGIL. Una folla immensa, più di trentamila persone, di tutte le estrazioni sociali, si era riversata, dopo due giorni di lungo lutto, su Corso Numistrano. La gente già dalla prima mattina a fare la fila, in processione di fronte alla bara, di fronte alla mamma piangente, ai fratelli disperati, ai familiari e agli affetti lasciati, distrutti dal dolore, a manifestare solidarietà e cordoglio. Stretta attorno al Palazzo Municipale la casa lametina e la città oggi piange il suo figlio, figlio del suo popolo: Adelchi Sergio Argada, figlio del Sud, costretto ad emigrare negli anni della sua ‘meglio gioventù’.
Un ragazzo di vent’anni. Un proletario ucciso dai fascisti. Da ragazzo la mattina va a scuola, il pomeriggio in segheria per aiutare la famiglia.
Proprio il giorno del suo funerale, martedì 22 ottobre, il giovane compagno, operaio edile lametino, sarebbe dovuto partire per Modena e lavorare in un cantiere di quella città come altre migliaia di calabresi emigrati.
Argada è il frutto di un Sud sottosviluppato, clientelare, familista e notabil-politico, incarna l’archetipo dell’operaio di massa e il luogo comune, diffuso nella letteratura marxista, della connessione tra emigrazione e proletarizzazione. Ma nel meridione l’utopia si scontrerà con una realtà di sradicamento, stravolgimento sociale e pervasività mafiosa.
Nella Cattedrale dei S.S. Pietro e Paolo, di Papa Marcello II e Innocenzo IX, il rito funebre celebrato dal Vescovo della città Mons. Ferdinando Palatucci. A lato, davanti al Palazzo di Città, c’è ancora il palco messo su per il Festival dell’Avanti, sarà luogo da dove si terranno le orazioni funebri. A chiudere gli interventi è lo
…studente di sinistra Jovine il quale ha detto: “Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto ad una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa, non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio…”
Infine il corteo ha accompagnato la bara lungo le vie della città, fino al cimitero. Di fronte al luogo del delitto il feretro, portato a spalle dei giovani compagni del morto, si e fermato.———Migliaia di braccia alzate a pugno chiuso hanno reso omaggio in silenzio.
Nel punto in cui il giovane è caduto colpito a morte, c’è una scritta: «Qui è stato assassinato il compagno Argada». Sul muro una gigantografia ne mostra il volto aperto, leale, di lavoratore … (S)
Il cronista locale sostiene la tesi della legittima difesa e non è tenero con la figura dell’ucciso.
Un giornale, di “certa stampa siciliana” molto vicina ad ambienti neofascisti bruciato a in migliaia di copie sulla piazza del delitto il giorno dei funerali  dai giovani compagni di Adelchi Argada.
“Tutti devono morire, ma non tutte le morti hanno eguale valore. La morte di chi si sacrifica per gli interessi del popolo ha più peso del Monte Taj”; era scritto su un manifesto scritto a mano ed affisso sul muro di un edificio accanto al Municipio di Lametia.
Memoria / non è peccato fin che giova.
Dopo / è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé …

Eugenio MONTALE
Adelchi è uno dei morti della non memoria, della memoria mancata…Tra gli smemorati non vi sono solo i semplici voltagabbana del personale politico, di cui Lamezia abbonda… Coltivare la memoria è compito di una classe politica, disposta ad assumersi le proprie responsabilità. Comprendere le cause che hanno portato all’assassinio di Adelchi … significa abbandonare l’omertà sullepesanti condizioni di vita in cui sono costretti tanti nostri concittadini e i tanti migranti che la abitano… quella di Adelchi, non è una storia del passato…ma del presente.
A Milano, nel ’78, dopo quattro anni di iniziative e lotte gli dedicano una scuola. Istituto Tecnico per Geometri “Adelchi Argada.”
Il 18 ottobre 1994, a Lamezia, nel corso delle celebrazioni del ventennale, con una lettera ex studenti ed ex professori comunicano che, nel frattempo, una nuova docenza aveva cambiato idea intitolando l’istituto ad un ex sindaco di Milano (che già dava il nome ad altre quattro scuole milanesi) ma testimoniano anche ai lametini che il ricordo di Adelchi era ancora vivo, non conosceva né distanze, né tempo.

22 ottobre 1972: i treni per Reggio Calabria




Tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni Settanta diversi movimenti di rivendicazione sociali
esplosero nel sud Italia.
Le organizzazioni di estrema destra
risposero a questa ondata di protesta sociale da un lato con una serie
di attentati dinamitardi, come quello del 22 luglio 1970 che fece
deragliare il treno “Freccia del Sud” a Gioia Tauro (6 perosne morirono
nell’attentato) e quello del 4 febbraio 1970, quando venne lanciato una
bomba contro un corteo antifascista a Catanzaro; dall’altro tentando di
scatenare disordini in città.

Alla strategia del terrore si affiancava il tentativo, sempre da aprte
delle forze neo-fasciste, di cavalcare l’ondata di rivolta e di
accreditarsi come rappresentanti degli interessi della popolazione in
lotta.
Per rispondere a questi attacchi i
sindacati metalmeccanici decisero di organizzare una grande
manifestazione di solidarietà a fianco dei lavoratori calabresi. Fu tra
le prime volte che gli operai del nord e del centro scesero a
manifestare al Sud.
La manifestazione fu indetta per il 22
ottobre. I neofascisti tentarono di impedire l’arrivo dei manifestanti
con una serie di attentati, 8 in totale, nella notte tra il 21 e il 22
ottobre 1972.
Il tentativo però fallì, infatti più di
50’000 manifestanti riuscirono a raggiungere Reggio Calabria con i treni
e i treni speciali, cui si aggiunse anche una nave con 1000 operai
noleggiata dagli operai dell’Ansaldo di Genova.

sabato 20 ottobre 2018

20 ottobre 1947 hollywood, caccia alle streghe comuniste

20 ottobre 1935 termina la Lunga Marcia Cinese

20 ottobre 1944 Milano, bombe su una scuola elementare

Un fiore per Adelchi


Un fiore per ricordare Adelchi Argada
Un fiore contro intolleranza, razzismo, fascismo.
Ci vediamo tutti/e sabato 20 ottobre alle 18,30 davanti alla stele che ricorda Adelchi. Porta un fiore

20 ottobre 1974: i fascisti uccidono Adelchi Argada

Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare Comunista Rivoluzionario” (FPCR) viene barbaramente ucciso, il 20 ottobre 1974, a colpi di pistola dai fascisti Michelangelo De Fazio e Oscar Porchia.
Il primo studia Legge a Firenze, ragazzo di buona famiglia conosciuto sia dai fascisti del posto che da quelli dell’università toscana. Il secondo, anche lui studente, è un militante del Movimento Sociale e per un paio d’anni è stato anche il segretario del Fronte della gioventù di Lamezia.
Oltre a Sergio, nell’agguato squadrista rimangono feriti altri quattro giovani operai che sono con lui (fra cui il fratello Otello).
«Era un ragazzo di una bontà unica e di un altruismo ineguagliabile… era un buon figliolo che badava agli interessi dei lavoratori cui conosceva sacrifici e tormenti». Così ricordano a Lamezia, in tutti gli ambienti, lo studente-operaio Sergio Adelchi Argada.
Aveva superato brillantemente lo scoglio della terza media, quando per la morte del padre dovette abbandonare gli studi. Era il più piccoli di casa Argada, essendo nato dopo Otello, Ferdinando e la sorella e lavorava per consentir loro di studiare. Rosina Curcio, la madre, non ce la poteva fare a mandare avanti la famiglia; da vedova, senza alcun lascito del marito, vivevano con i modesti proventi della sua attività giornaliera.
Era uno generoso. La generosità e la solidarietà verso i compagni ha contribuito a stroncare la sua esistenza. E’ infatti morto sotto i colpi del feroce assassino, che l’ha voluto finire quand’era oramai a terra colpito all’addome, già da tre proiettili, nell’atto di bloccare la mano omicida che seguitava a sparare su Giovanni Morello, colpito per primo.
Nelle zone dell’Emilia, vicino Modena, dove appena quindicenne aveva affrontato il duro lavoro di una fonderia, s’erano registrati altri episodi che lo avevano fatto apprezzare per la sua umanità.
A Milano aveva prestato la sua attività nei cantieri edili come manovale.
Sergio faceva parte di una commissione per lo studio delle esigenze degli operai e, i alcuni congressi nazionali, come sul giornale del FPCR, cui dedicava il suo tempo libero, aveva dimostrato chiaramente, quali interventi avessero bisogno quanti contribuiscono quotidianamente allo sviluppo del Paese.
La mattina del 20 ottobre, di fronte al Comune di Lamezia, ci fu una manifestazione nell’ambito del Festival Provinciale dell’Avanti. Nella notte, scritte fasciste comparse sui muri avevano provocato forti tensioni, fino ad arrivare alle minacce ed alle mani e la questione, evidentemente, non poteva finire lì.
Alle 15.30 di quella domenica di ottobre i fratelli Argada, accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno dallo stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più piccolo, quattordici anni appena. E quattordici furono anche i colpi che riecheggiarono per le strade di Lamezia; quattro mortali indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e aiutare l’amico ferito da un colpo alla gamba.
Il giorno dei funerali, trentamila furono le persone che scesero in piazza per salutare Sergio Adelchi
Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e, per le orazioni, venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora montato nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
1977 - SCUOLA DI MILANO
1977 – SCUOLA DI MILANO
Uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: «Conoscevamo Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio».
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più di qualche giornale conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per difendersi non funzionò: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 furono condannati rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi di reclusione.
A Milano, nel 1978, dopo quattro anni di iniziative e lotte, gli dedicano una scuola: l’ Istituto Tecnico per Geometri “Adelchi Argada.”
Il 18 ottobre 1994, a Lamezia, nel corso delle celebrazioni del ventennale, con una lettera ex studenti ed ex professori comunicano che, nel frattempo, una nuova docenza aveva cambiato idea intitolando l’istituto ad un ex sindaco di Milano (che già dava il nome ad altre quattro scuole milanesi) ma testimoniano anche ai lametini che il ricordo di Adelchi era ancora vivo, non conosceva né distanze, né tempo.

cuori rossi

martedì 9 ottobre 2018

9 ottobre 1963 Vajont



La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini.

La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.

La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L'ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia.

Allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta.

Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore.

Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale........... si era consumata una tragedia tra le più grandi che l'umanità potrà mai ricordare.
 
I morti furono 1910: 1450 a Longarone, 158 a Erto e Casso, 111 a Codissago, 54 nei cantieri Sade, 137 in altri luoghi. Pochi i feriti: 95 lievi, 49 gravi, 2 gravissimi. A Fortogna verranno sepolte 1454 vittime, solo 704 delle quali identificate. Molti morti non verranno mai trovati

8 ottobre 1967: Hasta siempre Comandante


E` l`8 ottobre 1967 ed oramai da giorni la colonna dell'Esercito di Liberazione Nazionale Boliviano ,guidata dal Che, è circondata nella zona montuosa del quebrada del Yuro. Dopo una feroce battaglia con l'esercito Boliviano, supportato da una squadra di Rangers e dalla CIA, il Che viene catturato dopo essere stato ferito.
Tenuto prigioniero fino alla mattina dopo viene ucciso da diversi colpi di pistola dal soldato Mario Teràn, scelto a caso fra la truppa per fare da giustiziere.
Dopo l'esecuzione, il Che viene fotografato ancora con gli occhi aperti. Quelle foto della salma del guerrigliero più famoso del mondo, e divenuto ormai leggenda, fanno subito il giro del globo.

Ad aver comunicato la probabile posizione dei guerriglieri alle autorita' Boliviane e' stato un contadino, ma a condurre l`operazione di catura e' l`agente della CIA Félix Rodríguez. Negli anni a venire quest`ultimo non manchera'  mai occasione per vantarsi davanti ai giornalisti del proprio crimine.
La guerriglia in Bolivia e il tentativo di innescare un processo rivoluzionario in Bolivia da parte del Che, comunque supportato da tutto il governo rivoluzionario cubano, non fu un successo fin dal principio.
Infatti,da subito, i nuclei guerriglieri non trovrono l`appoggio della popolazione contadina, ne il supporto promesso dal Partito Comunista Boliviano. Solo alcuni dirigenti e membri di esso, trasghediranno alle direttive del partito per unirsi alla guerriglia.
La figura di Che Guevara, forse anche a causa della sua tragica morte, e' diventatata ed e' tuttora una parte importante dell`imaginario di rivolta e rivoluzione in Sud America ed in tutto il mondo.
I suoi scritti sulla guerra di guerriglia (tra cui anche il diario boliviano) sono delle pietre miliari per la tattica militare, ed ancora oggi sono fra i testi piu' importanti per capire il senso e i meccnismi della guerriglia come strumento politico.

9 ottobre 1979: i 61 licenziati alla Fiat Mirafiori

Immediatamente dopo l'arrivo della notizia scoppiarono scioperi spontanei in tutti i reparti, alcuni guidati dagli operai appena colpiti dall'editto padronale. La FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici, il sindacato unitario CGIL-CISL-UIL) dichiarò tre ore di sciopero per mercoledì 1° novembre, ma la mattina prima dello sciopero diffuse un volantino contro il terrorismo.
Le assemblee che precedettero lo sciopero vennero egemonizzate e strumentalizzate dai sindacalisti, che tentarono in ogni modo di concentrare l'attenzione sulla violenza in fabbrica, arrivando ad affermare che la FIAT avrebbe avuto delle "prove" contro i licenziati.
Il giorno dello sciopero però, le istanze concertatrici si fecero insignificanti di fronte alla partecipazione degli operai, che nell'assemblea del 1° turno di Rivalta (con oltre 2000 tute blu) decisero all'unanimità di continuare lo sciopero oltre le tre ore sindacali e con la presenza dei licenziati in fabbrica. La lotta continuò con cortei e "spazzolate" interne. Immediatamente la FLM ed i suoi delegati sabotarono la lotta, cercando di isolare i 61 lavoratori licenziati. Anche in altri stabilimenti si prolungò lo sciopero e proseguirono i cortei interni per molti giorni a seguire, nel totale disinteresse del sindacato; alcuni giorni dopo Lama dichiarò che la CGIL avrebbe aspettato di conoscere le prove di Agnelli, perché "il sindacato difenderà solo gli operai accusati ingiustamente".
L'FLM impose poi ai lavoratori la firma di un documento come condizione per la difesa da parte del collegio sindacale nel ricorso alle lettere di sospensione:
«Atteso che il sottoscritto dichiara di accettare i valori fondamentali ai quali il sindacato ispira la propria azione ed in particolare di condividere la condanna senza sfumature non solo del terrorismo ma anche di ogni pratica di sopraffazione e di intimidazione, per la buona ragione che non appartengono alla scelta di valori, alle convinzioni, al patrimonio di lotta del sindacato stesso, consolidati da una lunga pratica di varie forme di lotta e di difesa del diritto di sciopero, così come risulta dal documento conclusivo del Cordinamento nazionale Fiat approvato all'unanimità a Torino l'11.10.1979 dai membri del Cordinamento stesso, delega a rappresentarlo nel presente giudizio, nonché nella procedura ordinaria, in ogni fase e grado, compreso quello esecutivo,...»
Dieci dei 61 imputati firmarono, ma accusarono duramente il "ricatto politico inaccettabile da parte del Sindacato".

Buena Vista Social Club - Hasta Siempre - Comandante Che Guevara

domenica 7 ottobre 2018

Il 7 ottobre del 1849 moriva Edgar Allan Poe


169 anni fa moriva Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849). Una morte travagliata e misteriosa. Una cinque giorni di passione inizia il 3 ottobre 1849 con il ritrovo dello scrittore, delirante, a Baltimora. Nessuno sapeva il perché di quelle condizioni o il perché di quei vestiti che non erano suoi. La morte lo portò via con il mistero che lo aveva sempre contraddistinto durante la sua vita. Uno scrittore atipico che scrisse solo un romanzo durante la sua vita. 69 racconti che lo hanno reso uno dei padri della moderna letteratura americana e del moderno racconto poliziesco. Solo sette anni di scrittura. Altra atipicità che lo ha reso unico. Nel 1842 la crisi derivata dalla malattia e poi morte della moglie. Divenne un’alcolista e finì in estrema povertà. Un artista completo
I suoi racconti hanno sempre parlato di temi oscuri. Celebri Il corvo e altre poesie, Il gatto neroe Annabel Lee. Poco apprezzato dal pubblico e dalla critica della sua epoca, come prassi in questi casi. Riscoperto solo dopo grazie alla cultura popolare. Spesso citato nella letteratura, musica, produzioni cinematografiche e televisive. Particolarmente azzeccata la serie The Followingdove il cattivo, Joe Carroll, si ispira alle idee di Poe e crede nella “follia d’arte“, concetto spesso esposto dallo scrittore. L’omicidio come arte, come spesso raccontato. E forse è proprio questo genio lo rese folle. Follia e genio, due concetti così simili e così diversi. Due concetti opposti che si incrociano facilmente. Edgar Allan Poe era tutto questo

«Operazione Mediterranea», il diritto di salvare vite umane

Una nave italiana. Nell’anniversario della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 è partita la piattaforma della società civile per farsi «testimonianza»
Risuonano uno dopo l’altro i nomi delle vittime, nomi senza corpo che raccontano di una moltitudine di vite e di storie, infrantesi sui confini dell’Europa: si intitola Asmat – Nomi il cortometraggio di Dagmawi Yimer, una delle opere più potenti ed evocative sul naufragio del 3 ottobre 2013. L’anonimato, in fondo, è una delle caratteristiche che definiscono le donne, gli uomini, i bambini in transito nel Mediterraneo – così come in molti altri spazi di frontiera. Riscattare la singolarità irriducibile di un’esistenza è l’estremo gesto di resistenza che ci propone Asmat – Nomi.
NEL QUINTO ANNIVERSARIO di quel naufragio, mentre nel Mediterraneo si continua a morire, abbiamo messo in mare una nave, la Mare Jonio. Lo abbiamo fatto dopo un’estate in cui il governo italiano ha mosso una guerra senza quartiere contro le migrazioni e contro le Ong, ha chiuso porti e ha sequestrato su una nave della Guardia costiera decine di profughi e migranti. La criminalizzazione delle operazioni «umanitarie» ha svuotato il Mediterraneo di presenze scomode, ha allontanato i testimoni e ha ribadito l’anonimato di donne e uomini in transito: al riparo da sguardi indiscreti, la guardia costiera libica ha potuto riconsegnare ai centri di detenzione – alla tortura, alla violenza, alla schiavitù – centinaia di persone, mentre altre centinaia hanno fatto naufragio. E c’è chi se ne compiace, cantando vittoria. Non è stato facile realizzare questo progetto. La piattaforma che si è chiamata, semplicemente, Operazione Mediterranea non è una ong: chi ha lavorato alla ricerca e alla preparazione dell’imbarcazione nelle scorse settimane non aveva esperienza dei mondi in cui si è mosso. Ma sulle banchine di molti porti abbiamo incontrato chi ci ha aiutato non solo sulla base di rapporti professionali, ma anche per una solidarietà istintiva, per un moto di rifiuto del disprezzo della vita e del diritto internazionale che – in particolare dopo la vicenda della nave Diciotti – è sempre più diffuso tra la gente di mare.
L’esperienza e la collaborazione di diverse Ong che hanno operato in questi anni nel Mediterraneo sono state per noi decisive – una di esse (Sea-Watch) fa parte della piattaforma, mentre Open Arms si coordinerà con noi in mare. L’operazione che abbiamo lanciato, tuttavia, fa i conti fino in fondo con la criminalizzazione dell’intervento «umanitario» di fronte a cui ci troviamo.
LONTANI SEMBRANO I GIORNI in cui la «ragione umanitaria» poteva essere analizzata come parte di un più ampio sistema di governo (delle migrazioni, in particolare). La sfida non può che essere radicalmente politica. E investe in particolare un punto: l’affermazione pratica del diritto di un insieme di soggetti non statali a intervenire politicamente in un’area in cui le «autorità competenti» violano in modo plateale l’obbligo di tutelare la vita delle genti in transito.
Su questo punto si è costituita la piattaforma Operazione Mediterranea: una piattaforma aperta all’adesione e alla partecipazione di chi vorrà sostenerci nelle prossime settimane (tra l’altro attraverso il crowdfunding, davvero essenziale per assicurare la sostenibilità di un progetto tanto ambizioso quanto impegnativo anche dal punto di vista finanziario). Questo punto è evidentemente di fondamentale importanza. Ma l’obiettivo è più in generale quello di aprire – attraverso una pratica – uno spazio di dibattito, azione e conflitto attorno ai temi della migrazione in Italia e in Europa.
VORREMMO che la nostra nave fosse attraversata, in mare e in terra, dalle mobilitazioni che sulla migrazione – da Ventimiglia alla Puglia, da Catania a Milano, per fare solo qualche esempio – si sono determinate in questi mesi; vorremmo che la Mare Jonio diventasse una sorta di forum, che fosse appropriata da migliaia di donne e uomini, che fosse portata nelle piazze e nelle strade, che attorno a essa proliferassero le narrazioni di una migrazione radicalmente diversa da quella dei ringhi e dei decreti di Salvini: vorremmo che la nave fosse uno strumento per parlare in un altro modo dell’Italia e dell’Europa, a partire in primo luogo dalle città.
NON SOTTOVALUTIAMO la difficoltà del momento. Sappiamo di agire in una condizione di minoranza, di dover fronteggiare un’egemonia a noi ostile sui temi della migrazione; sappiamo che negli ultimi mesi l’equazione tra il migrante e il nemico (a cui hanno dato negli scorsi anni un contributo essenziale anche forze politiche che non si definiscono di destra) è stata radicalizzata, autorizzando e promuovendo la diffusione capillare nel Paese di un razzismo ogni giorno più aggressivo. Ma sappiamo anche che questa egemonia può e deve essere rovesciata, assumendosi i rischi e l’azzardo che sono necessari. L’operazione che è cominciata il 3 ottobre, in una data carica di valore simbolico, è un contributo in questo senso.
UNA NAVE, afferma C.L.R. James nel suo grande libro su Melville (scritto nel 1952 in una cella a Ellis Island, in attesa della deportazione dagli Usa per «attività anti-americane»), non è in fondo altro che l’insieme variegato dei lavori e delle attività che si svolgono a bordo, che letteralmente la costituiscono. Ecco, la nostra nave non sarebbe nulla senza la passione e l’impegno di centinaia di donne e uomini, che hanno lavorato e lavorano non solo per far navigare la Mare Jonio, ma anche per costruire e moltiplicare nuovi ponti tra il mare e la terra. Una nave, aggiungeva James, «è una miniatura del mondo in cui viviamo». Nel nostro caso, è una miniatura del mondo che ci impegniamo insieme a costruire. E siamo certi che diverremo presto migliaia a condividere questo impegno.
Sandro MezzadraOperazione Mediterranea
da il manifesto

Nel mare di Riace… Una conversazione con Mimmo Lucano

Riace è un piccolo paesino della Locride con la classica disposizione divisa tra marina e paese antico, arroccato sulla montagna al riparo da scorribande e invasioni. Il nome è antico, greco, e se non fosse per le due statue ripescate nei suoi mari se ne sarebbe sentito parlare molto poco. Almeno fino a una decina di anni fa, quando il suo sindaco supportato dalla popolazione locale decide di ripopolare il paese sulla strada dell’abbandono offrendo ospitalità ai migranti. La vicenda di questa località calabrese fa il giro del mondo in poco tempo, diventa un cortometraggio di Wim Wenders, viene apprezzata da Papa Francesco e il suo sindaco addirittura viene nominato tra gli uomini più potenti del mondo dalla rivista Fortune.
La trovata è quella di ricercare un’alleanza tra la popolazione locale e i migranti, basata su un rilancio culturale e economico del paese, “approfittando” delle risorse offerte dal sistema dell’accoglienza e dall’autorganizzazione dal basso delle molte persone impiegate nel progetto. Riace ospita oggi 500 migranti su 1500 abitanti di cui 165 di questi sono all’interno del progetto Sprar in cui lavorano 80 operatori.
Negli ultimi giorni si è tornato a parlare di Riace per via di alcune registrazioni che dovrebbero provare manovre poco chiare del suo sindaco, Mimmo Lucano, nell’utilizzo di alcuni fondi regionali. E’ parso immediatamente evidente che l’obbiettivo di chi aveva prodotto queste registrazioni era quello di delegittimare il processo in corso nel paese. Il sindaco ha immediatamente rassegnato le dimissioni e convocato un consiglio comunale aperto. L’assemblea molto partecipata dalla popolazione locale e da vari attivisti da tutta la Calabria ha chiesto al sindaco di ritirare le sue dimissioni e andare avanti con il lavoro.
Abbiamo incontrato Mimmo Lucano in una lunga conversazione che consigliamo di leggere fino alla fine. Nella differenza, in maniera molto pragmatica ci viene offerto un ritratto realistico del processo in corso che apre ad alcune domande interessanti. C’è una compatibilità tra il modello Riace e ciò che le compagini neoliberiste del PD vorrebbero offrire come proposta dell’accoglienza ai migranti in Italia? In quale modo si può cercare di proporre delle alleanze tra proletari italiani e migranti contro la guerra tra poveri? Come si possono costruire dei progetti politici in territori estremamente periferici e impoveriti del nostro paese?

Ci spieghi l’origine dell’esperienza di Riace?
In realtà questo processo non è nato per un progetto d’accoglienza, perché al tempo in Italia non c’era nulla, mi pare che eravamo sotto la legge Turco – Napolitano. Il mio interesse sul piano politico – sociale riguardava il mio paese. C’è stata una fase di forte impegno, fermento sociale e movimento nella Locride degli anni ’80 che corrispondeva a un nostro ’68. Con forte ritardo certo, ma credo che non abbiamo mai vissuto il ’68 in Calabria. Tra gli studenti che andavano nelle scuole delle marine era forte la partecipazione. Non era un’adesione sciocca, ma per molti aveva il carattere di una vera e propria ragione di vita. Le esperienze di lotta di quel periodo furono molte, poi però ci fu un vuoto. Un vuoto in cui quel sogno di rivoluzione proletaria sembrava smarrito e ognuno a livello personale ha cercato di sistemarsi. Però a me e credo a molti altri queste idealità rimanevano perché appartenevano al nostro percorso di vita. Erano convinzioni maturate con molta analisi e ragionamento e difficilmente saremmo riusciti ad abbandonarle. Io non sono mai stato collegato a un partito, ma piuttosto a un’idea molto forte.
Quando sono andato via da Riace c’è stata quella fase di smarrimento generale, ci siamo persi di vista. Però io ormai avevo imparato a conoscere Riace in un’altra dimensione! Quando ero lontano facevo sempre il confronto con la relazioni umane nei condomini di città, sono stato a Torino e a Roma per questioni di lavoro. Vedevo la miseria di questi rapporti umani e ho pensato che quello che noi volevamo era un mondo diverso. Non era solo per raggiungere obbiettivi materiali, era una dimensione dell’essere legata all’altruismo, alla socialità, alla capacità di considerare anche i torti subiti da altri come torti nostri. Quando guardavo da lontano Riace pensavo che probabilmente quel sogno di utopia sociale si poteva cercare anche in questi borghi abbandonati dove si è compiuta la storia delle comunità rurali. Dove umili braccianti agricoli e anche artigiani esprimevano dei modi di vita che conoscevano il valore dell’accoglienza, non il pregiudizio e andavano fieri dell’incontro con il diverso. Mi sono detto che questa era la Calabria che conoscevo, questa quella che mi aveva trasmesso questi valori. Poi sono ritornato. Ho incontrato altre persone che erano ritornate e, in un periodo completamente diverso, ci siamo organizzati per ricominciare a interessarci di politica locale. Siamo partiti dalla considerazione che forse i governi locali potevano rappresentare una occasione di capire in quale forma quel messaggio poteva rinascere ed essere vissuto con un nuovo senso di partecipazione in contrapposizione con l’alienazione delle grandi città. E’ stata un fallimento quella prima esperienza. Era il 1995. Un gruppo della sinistra antagonista si pone come obbiettivo il governo locale. Fu un disastro, non ci aveva votato nessuno! Anzi ha lasciato il segno, la gente ci prendeva per matti!
Nonostante questo con due persone ho mantenuto un rapporto. L’amarezza era tanta, ma la volontà di conoscere la realtà e continuare ad insistere rimaneva. Noi siamo una parte. Una piccola parte, ma comunque una parte presente sul nostro territorio! Con questi due amici abbiamo continuato quindi, poi uno è morto. Dico queste parole sulle persone perché va bene il processo, il collettivo, il “noi”, l’idea generale… Però è anche fondamentale come si tramanda la capacità di crederci e di condizionare i processi. Se no diventa tutto un po’ troppo astratto! Siamo rimasti in due e abbiamo iniziato ad occuparci di questioni culturali, abbiamo fatto il teatro, abbiamo ricostruito la storia della emigrazione riacese, il tutto da una visione molto minoritaria.
E poi?
Poi nel 1998 c’è uno sbarco di kurdi alla spiaggia di Riace! Ovviamente la vicinanza politica con il Pkk ci ha permesso immediatamente di costruire una sintonia nonostante le barriere linguistiche. Quindi sono rimasto in mezzo a loro, sono diventato un militante del movimento di liberazione del popolo kurdo. La storia dell’accoglienza a Riace comincia così! Non è stato un fatto di buonismo, ma come vedete sono state motivazioni di carattere politico. La chiesa locale non aveva aderito per niente a quella storia di accoglienza, se si esclude un vescovo che ci mise a disposizione una struttura, la prima ad essere utilizzata per un numero alto di persone! Quando queste persone sono arrivate a Riace noi abbiamo cercato le case degli emigranti riacesi che sono in giro per il mondo e abbiamo costruito un’altra idea dell’accoglienza.
In cosa consiste questa altra idea?
Abbiamo cercato di capire come costruire un meccanismo di interazione con la comunità locale, come riprendere il concetto di vicinato di casa come si usava nelle società contadine. Slegati da convenienze e opportunismi volevamo provare a far maturare questo processo in maniera spontanea. Qui l’accoglienza c’è ma non si vede, non esiste. Non ci sono centri di accoglienza visibili, sono le stesse case del paese ad assolvere questa funzione! In Svizzera con gli italiani dicevano “Noi volevamo braccia e invece sono arrivati uomini!”, la stessa cosa è successa a Rosarno per esempio. L’importante è avere nuova forza lavoro, le condizioni di vita inaccettabili in cui questa viveva non importa a nessuno. A Rosarno ci sono più case libere che a Riace nel centro storico! Ma nessuno si è mai sognato di destinarle a questi lavoratori! La comunità locale si rifiuta! Perché non dev’essere solo l’amministrazione locale o l’istituzione a generare il processo, ma bisogna sviluppare un senso comune con la comunità. A Riace siamo riusciti a farlo. Perché da che eravamo partiti in pochi a inseguire questo sogno alla fine la curiosità è prevalsa. Rispetto a una sicura rassegnazione, rispetto a una certa morte sociale del paese, rispetto all’unica alternativa della migrazione la gente ha provato interesse per quella proposta rivoluzionaria che portavamo. E’ stato graduale, ma la comunità locale ha capito che gli “conviene”. Conviene la rinascita! E Riace ha avuto in questo modo una straordinaria possibilità, ha conosciuto il mondo da vicino, ha incontrato i protagonisti delle ingiustizie del mondo, delle guerre, delle torture. Così ha maturato una coscienza nuova! Il mio auspicio è questo: tutte le cose finiscono, quando finirà questo processo spero che rimangano delle persone che stimolate da ciò che hanno vissuto continuino a praticare queste esperienze e non si lascino fiaccare dagli opportunismi, gli egoismi, gli arrivismi, l’alienazione e il consumismo di questo mondo.
Riace anomalia assoluta dentro un sistema dell’accoglienza che molto spesso è un business?
Certo, ma il nostro modello è visto anche con paura! Per noi l’accoglienza è incondizionata! Riace deve a queste persone che sono arrivate la sua rinascita. Dobbiamo riconoscerlo e tutti lo riconoscono. Lavorano tantissime persone, abbiamo attivato servizi che erano impensabili: la scuola a Riace dal 2000 non esisteva più! Adesso c’è, ci sono i laboratori, c’è la fattoria didattica, la raccolta differenziata. Stiamo facendo un lavoro bellissimo sull’acqua come bene pubblico! Tutto grazie solo alla dimensione altra che abbiamo creato e al disegno che abbiamo per il futuro. Per questo ho voluto fare il consiglio comunale aperto quando mi sono arrivate quelle accuse. Io vengo da una storia di sconfitte! Penso spesso che siamo una minoranza, ma ogni giorno le nostre esperienze scavano e siamo un po’ di più! Non potevo permettere che ci fossero delle ombre sul nostro progetto, perché facevo un torto anche a chi ha guardato a Riace come un’esperienza politica che mantiene la sua coerenza anche dopo che è diventata istituzione.
Molto spesso sentiamo parlare specialmente a Sud della questione della legalità come una questione prioritaria, però ci sembra una narrazione che molto spesso nasconde delle trappole e criminalizza anche discorsi legittimi. Tu che ne pensi?
Non mi ha mai affascinato il concetto di legalità, anzi la vedo con sospetto! Anche da sindaco la vedo con sospetto. Anche il Terzo Reich era legalità. Anche Benito Mussolini era legalità! Molti drammi dell’umanità sono avvenuti dentro le norme di sistemi altamente funzionanti dal punto di vista della burocrazia! Per questo ho il sospetto di parole come legalità, burocrazia, istituzione, eccellenza! Ma quale eccellenza… Noi dobbiamo ragionare per costruire una società democratica basata sull’eguaglianza dove la base controlli il vertice. Anche nell’accoglienza, anche negli Sprar. Persone che non vedranno mai un rifugiato di persona dietro le loro scrivanie pretendono di poter determinare i processi a livello territoriale!
In questi giorni si sta tornando a discutere molto su come viene organizzata l’accoglienza in seguito alla rivolta che c’è stata nel CPA di Cona. La Serracchiani, presidente della regione Friuli – Venezia Giulia in quota PD, ha affermato che il modello dell’accoglienza diffusa è preferibile perché permetterebbe di contenere il dissenso e le rivolte. Cosa ne pensi di queste affermazioni?
Oggi c’è una nuova storia in Italia che è trasversale. Tutti, compreso Grillo, fanno i conti a livello scientifico con la volontà dell’elettorato. Parlano per opportunismo e convenienza. La nostra storia, la storia di Riace parla di tutt’altro. Parla chiaro di libertà. Se tu vieni qui non devi firmare autorizzazioni come a Rosarno. La libertà è la prima cosa. Noi abbiamo dovuto sperimentarlo. Eppure in dieci, dodici anni di questa esperienza ci sono stati solo conflitti legati alla normale convivenza. Qui gente di Riace si è sposata con gente che veniva dall’Afghanistan, dall’Eritrea, sono nati bambini misti. Qui ci sono cinquecento migranti su mille e cinquecento abitanti eppure la nostra vita è normale. Questo è il nostro messaggio. Perché Grillo fa come la Lega Nord e apre a Casapound? Perché non si può permettere di essere possibilista? Perché tutto il ragionamento si basa sul consenso elettorale. La mia impressione è che chi fa un ragionamento di parte è un’esigua minoranza. Riace fa paura anche per questo! Per capirci uno dei giornalisti della Gazzetta del Sud è del FUAN, è ovvio che odia la mia testa rossa! Anche queste registrazioni sono fatte per screditarci. Io devo rendere conto alla mia comunità di tutto quello che faccio. La prima volta che mi sono candidato persino mio padre non mi ha dato il voto perché pensava che fossi troppo estremista! Però poi per tre volte siamo riusciti a conservare il consenso in questo piccolo paese. Sono molto preoccupato di quelle che sono le prospettive politiche a livello nazionale e internazionale.
Voglio dire un’altra cosa, nell’esperienza degli Sprar qui in Calabria ci sono situazioni con cui eravamo legati da un ideale politico di movimento. Abbiamo fatto molte cose insieme, costruito iniziative politiche e culturali. Poi alcune di queste situazioni si “istituzionalizzano” e la gente che ne fa parte cambia completamente. Appena arriva un po’ di potere l’approccio ai percorsi che si fanno diventa di tipo ispettivo e tutto deve rientrare dentro i canoni della legalità e delle corrette procedure. E’ possibile che alcuni compagni siano diventati così?
Devo dire però che almeno il presidente della regione Mario Oliverio ha dimostrato su questa ultima vicenda di schierarsi apertamente in favore del progetto che portiamo avanti.
Però il PD…
Mamma mia, è un disastro. Ridicolo Renzi quando parlava dell’operazione Mare Nostrum. L’hanno azzerata e hanno fatto una nuova operazione in cui sono aumentati i morti in mare. Si è macchiato di gravi responsabilità. E ovviamente non solo su questo. Io non ho visto differenze fra Maroni e Renzi.
Questa avventura è iniziata dallo sbarco dei curdi, come pensi che questo si possa legare a quello che sta avvenendo oggi nel Kurdistan siriano dove c’è una grande lotta in atto. Pensi che il modello kurdo sia un modello valido anche per i nostri territori?
Secondo me è il modello che propone Abdullah Ocalan è il modello più vicino alle nostre idealità. La democrazia partecipata, il confederalismo democratico come modello di governo dei territori. Hanno messo a tacere la sua voce e oscurato la sua immagine. Ocalan propone la questione curda sotto la chiave di lettura delle ingerenze dell’America e dell’Occidente nei confronti di tutti quanti i popoli mondiali. Come loro attraverso un meccanismo di dominio riescano a produrre degli enormi sconvolgimenti in tutto il mondo. L’esperienza di Riace è legata al Partito dei Lavoratori curdi con un sistema di relazioni che non abbiamo perso, dalla Germania, a Roma, a Diyarbakir. Sappiamo che ci sono delle persone che sono militanti del PKK quI a Riace e abbiamo fatto la cittadinanza onoraria per Abdullah Ocalan.
Cosa vuol dire oggi provare a produrre un discorso antirazzista all’altezza dei tempi, in qualche modo essendo coscienti della guerra tra poveri che viene alimentata dall’alto?
Guarda io ti posso rispondere che il nostro contributo lo diamo ogni giorno da un punto di prospettiva molto interessante. Ormai a Riace vengono trasmessi dei messaggi di solidarietà e antirazzismo la popolazione riesce a capire che l’accoglienza non è una cosa sciocca che si fa per buonismo o perché si è dell’Azione Cattolica. Ed ecco che il modello Riace fa male perché cerca di ostacolare questa guerra tra poveri. Poi quando ad ostacolare il nostro modello sono dei sedicenti compagni per me questo fa ancora più male.
Oggi il sistema dello Sprar io lo vedo con molte criticità. La prima criticità e che si tiene poco conto della realtà territoriale tutte le decisioni vengono assunte a livello centrale. Anche le linee guida, queste famose linee guida (le norme dettate dal ministero degli interni per l’accoglienza negli SPRAR ndr), sono piccoli condizionamenti che impediscono un corretto funzionamento dell’accoglienza. Sono linee guida che parlano del periodo di permanenza nei centri, del numero, io invece sto cercando di ragionare al contrario e ho dimostrato che è possibile un modello di accoglienza incondizionata senza vincoli burocratici.
Adesso stiamo attivando un progetto per i ponti umanitari legata alla Chiesa Valdese alla Comunità di Sant’Egidio.
Mi piace questo progetto perché vengono persone direttamente, senza gli sbarchi, senza rischio che perdano la vita. Però all’interno di questo progetto il budget economico è meno della metà di quello dello dello Sprar quindi non conviene prendere questi migranti a nessuno. Riace se ne sta occupando perché non conviene, perché non c’è guadagno perché i soldi bastano a malapena per coprire le spese vive. Però bastano! Infatti a Febbraio partiamo!
Hai fatto riferimento ai primi sbarchi dei curdi quando non la legislazione italiana era legata alla Turco-Napolitano, anzi i primi sbarchi sono arrivati addirittura prima della Turco-Napolitano. Non c’erano i Cie, non c’erano i Cpt, non c’erano i progetti Sprar. La domanda è: quanto gli Sprar si sono modificati dagli interno quanto si sono burocratizzato quanto si è perso dell’accoglienza spontanea che c’era prima.
La maggior parte dei progetti si sono modificati, non c’è la militanza, non c’è l’ideale politico. Assolutamente no! Anche quei progetti che venivano dalle esperienze di movimento sono diventati così. Pensano solo ai soldi allo stipendio. Per questo, quando si producono le ispezioni all’interno dei progetti di accoglienza che sono legati di più a un ideale di sinistra sono più severe. Questi ideali a chi oramai si è istituzionalizzato danno fastidio.
Adesso Gestiscono gli Sprar come un’attività imprenditoriale, non hanno più finalità sociale o ideali politici. Ma questo a Riace non è mai successo.
Tornando a quello che avevi detto all’inizio, parlando del ciclo di lotte che c’è stato qui nella Locride negli anni 70-80, quella che viene definita “l’Emilia rossa di Calabria”, ci potresti raccontare un po’ più nel dettaglio questa esperienza?
Io ho vissuto quel periodo con il mio professore di religione, si chiamava Natale Bianchi. Lui era del Movimento Cristiani per il Socialismo, della teologia della liberazione. Ha fatto una battaglia contro la mafia, lui che era uno che veniva dal nord, diceva che la chiesa era dal popolo ed era sempre in prima linea con un’idea molto diretta della pastorale sociale.
f54ghdthgcPoi c’è Peppino Lavorato, avevano appena ucciso Peppe Valarioti, il segretario del Partito Comunista ucciso dalla ‘ndragheta, è morto tra le sue braccia. Tutto il movimento degli anarchici di Siderno e di Locri, ho vissuto tutto quanto quel processo e anche oggi mantengo questi ricordi, mantengo viva quell’ideologia. Anche se me la vivo in maniera molto paradossale, perché comunque sono parte del potere, sono legato alla carica di sindaco, ma sono anche legato a quel sogno. E ritengo che quella militanza mi è servita molto, è una forma di militanza che ha valorizzato la mia maturità come essere umano.
A me non interessano queste forme di potere: se tu vai al municipio di Riace non c’è la porta. All’inizio i cittadini dicevano: “ma che sta succedendo qui, è sempre aperto”. Ho lasciato senza chiavi la porta del sindaco. Una volta è venuto un cittadino, un professore di matematica molto fiscale, e mi ha fatto dei rimproveri. Gli ho risposto: siccome ritengo che non sia giusto quello che dici io esco fuori perché per me questo è l’ufficio del Popolo, non è il mio ufficio personale e quindi non ti caccio, me ne vado io. E me ne sono andato lasciandolo lì parlare da solo.
Anche il rapporto con la burocrazia, con gli impiegati del Comune, è molto complicato. Loro sono lì per lavorare non gliene frega niente degli ideali. È stato un lavoraccio però alla fine ci siamo riusciti abbiamo aperto una breccia di luce.
E la Repubblica rossa di Caulonia?
Io ho avuto una collaborazione con Ilario Mendolara che era l’ex sindaco di Caulonia e che ha scritto un libro su questa esperienza. Caulonia è stata sempre una comunità rivoluzionaria carica di questi fermenti. E la sua storia, la storia di Pasquale Cavallaro rimane incastonata in quel momento.
Ma oggi Caulonia è una brutta copia di quello che è stato. Come se quella storia non avesse lasciato niente. Anche rispetto al collettivo che c’erano a Caulonia (negli anni 60 e 70 c’erano i collettivi in molti paesini della Calabria) non rimane più nulla, pensa che alcuni di loro sono finiti in Forza Italia.
Questo è il terzo mandato che fai quindi alla fine c’è stato anche una conferma da parte degli abitanti di Riace?
Sì, ma io a questo non do molto peso, non è che tutte le persone che hanno votato per me sono militanti politici. Attenzione! Hanno votato per me perché funziona, perché gli conviene. Rispetto a quello che era prima: un paese senza vita, un paese abbandonato da Dio e dagli uomini. Non c’era la scuola, un posto dove il centro storico era distrutto, pieno di eternit, di amianto. Pieno di tutti quanti questi materiali che negli anni 60 e 70 l’hanno fatta da padrone. E soprattutto c’era un’opinione diffusa tra la gente che il centro dello sviluppo, secondo l’idea consumistica imperante, era Riace marina. Perché ci sono i supermercati, perché c’è la stazione, perché ci sono i negozi.
Noi ci siamo mossi verso tutt’altra direzione. Perché non avevamo intenzione di riportare il centro storico come punto di riferimento da dove passa l’anima delle comunità. Come punto di riferimento della vera Calabria, della vera accoglienza, dove non hai bisogno di costruire e soprattutto di consumare altro suolo, altra superficie edificabile. Il nostro messaggio era chiaro: dobbiamo recuperare questo contenitore vuoto, di case abbandonate e dargli una nuova anima.
Era un messaggio fortemente alternativo rispetto a quello che era stato Riace fino a quel momento.
Era un modello in netta opposizione rispetto allo sviluppo che si aveva alla marina di Riace dove tutti i vecchi amministratori si sono costruiti dalle ville con il consenso alla cittadinanza. Tutti erano convinti fino a quel momentoytrfg copy che andare al Comune significasse farsi i fatti propri e quelli della propria clientela. Però siamo riusciti a distruggerlo quel paradigma!
Oggi neanche il mio peggior avversario può recriminare intorno al mio operato, per questo ho fatto una discussione aperta perché non avevo nessun timore rispetto a quelle che potevano essere le critiche al mio operato.
Hai detto che la prima sfida elettorale è stato un disastro…
Nel 1995 abbiamo costruito questa lista che si chiamava “Riace Libera” non siamo riusciti nemmeno a prendere un consigliere di opposizione.
Tutti noi eravamo c’eravamo persi nel fare ragionamenti molto elaborati, come è tipico della sinistra italiana. Molti di noi dopo questa sconfitta pensavano che fosse la gente di Riace a non meritarci, come se noi avessimo la verità in tasca, invece di soffermarci sul perché le persone non ci avevano votato, non ci avevano capito.
Siamo ripartiti cercando di modificare la nostra forma di comunicazione. Abbiamo continuato l’azione politica tramite iniziative culturali, ricostruendo la storia dell’emigrazione riaccese, producendo spettacoli teatrali e sagre.
Nel 1998 c’è stata una svolta. Sono arrivati i curdi!
Al sindaco di allora sfuggiva la portata di questo processo, e che avrebbe cambiato anche gli equilibri politici all’interno del Comune di Riace.
Nel 98 arrivano in curdi, nel 99 facciamo una lista e portiamo 4 consiglieri di minoranza, eravamo consapevoli che andavamo a perdere però nello stesso tempo siamo riusciti a portare 4 persone al municipio. Da lì abbiamo iniziato con il progetto dell’accoglienza prendendo un vecchio palazzo che era di proprietà di una famiglia nobiliare napoletana e lo abbiamo trasformato in un centro di accoglienza per i curdi. E quindi abbiamo sviluppato questo programma legato a una nuova identità del centro storico. Nel 2001 nasce il programma nazionale asilo, allora io chiedo il sindaco di inserire Riace all’interno di questo programma. Il Sindaco non voleva darmi questa possibilità, il progetto che avevamo fatto di rivitalizzazione del borgo attraverso i flussi migratori non lo convinceva.
Diceva che a me questo tipo di situazione non mi conveniva politicamente, che non mi avrebbe pagato dal punto di vista elettorale. Cercava di convincermi di passare dalla sua parte, all’interno della tua lista.
Nel 2004 succede che al Comune vengono presentate 4 liste e una è di Alleanza Nazionale-Forza Italia, questa era l’organizzazione legata a un’idea più mafiosa dei rapporti sociali che c’erano a Riace. Il sindaco di centrosinistra temeva che la nostra eventuale partecipazione alle lezioni avrebbe consegnato il comune nelle mani di Alleanza Nazionale-Forza Italia.
Ci ripeteva di non fare questa stupidaggine e di ritirare la candidatura. Ma noi siamo andati avanti per la nostra strada.
Ci candidiamo con la lista che portava il nome “un’altra Riace è possibile” e riusciamo a prendere 30 voti di scarto sulla seconda lista. La soddisfazione più grande è stata quella lì di riuscire a vincere contro Alleanza Nazionale Forza Italia.
vvvvvvvvv copyChe difficoltà ci sono adesso con i tagli che si stanno facendo gli enti locali nell’amministrare un comune come Riace?
Ho capito un paio di cose con l’esperienza. La prima è che io non voglio amministrare come un sindaco perfetto. Se amministrassi come un sindaco perfetto non fare gli interessi della tua comunità ma quelli del governo.
La seconda è che non posso aumentare la pressione fiscale sui cittadini, non sarebbe comprensibile. Se io aumento la pressione fiscale qui mi ammazzano, ma non perché ho bisogno di tutelare i miei voti, ma perché deve passare un altro messaggio politico. Messaggio politico che non è soltanto il mio, di Domenico Lucano, ma di tutta una sinistra antirazzista e antagonista in Italia. Per questo, lo scuolabus non si paga, l’occupazione di suolo pubblico non si paga, la carta identità non si paga, l’Imu sulla prima casa non si paga, la mensa scolastica a costi bassissimi.
E adesso stiamo lavorando su un progetto per portare la tassa sull’acqua a zero e ci stiamo riuscendo. Non vogliamo fare pagare l’acqua a Riace. E non ci vuole molto.
Il rapporto che ha questo comune con la Sorical (società privata che in Calabria si gestisce l’acqua ndr) è stato sempre molto conflittuale, le analisi non vanno bene la lettura dei contatori non va bene, per questo motivo abbiamo deciso di cercare di portare l’acqua Riace in modo autonomo dalla Sorical scavando un pozzo.
Cosa pensi del fatto che nel 2016 Fortune ti ha inserito tra i 50 uomini più influenti del mondo?
A me non mi piacciono queste cose le reputo delle “americanate”. Loro pensano che mi facciano piacere, però non mi interessano. Una persona della estrema sinistra che ribadisce continuamente di essere di estrema sinistra finisce su quella classifica, è normale che provoca invidia. Ma la stima che voglio non è quella del Times, è la stima dei militanti Calabresi, dei militanti italiani, è questa la stima che cerco.

7 ottobre 1934 nasce Ulrike Meinhof


Militante della R.A.F. (Rote Armee Fraktion) , organizzazione armata tedesca attiva dagli anni ’70 anche conosciuta come Banda Baader-Meinhof
“Battete in Piazza il calpestìo delle Rivolte!
In alto, catena di teste superbe!
Con la piena di un nuovo diluvio
laveremo le città dei mondi
Il toro dei giorni è pezzato.
Il carro degli anni è lento.
Il nostro Dio è la corsa.
Il Cuore è il nostro tamburo.
Che c’è di più celeste del nostro oro?
Ci pungerà la vespa d’un proiettile?
Nostre armi sono le canzoni.
Nostro oro le voci squillanti
Prato, distenditi verde,
copri il fondo dei giorni.
Arcobaleno, dà un arco
ai cavalli veloci degli anni.
Vedete, il cielo s’annoia delle stelle!
Senza di lui intrecciamo i nostri canti.
ehi, Orsa Maggiore, esigi
che ci assumano in cielo da vivi!
Bevi le gioie! Canta!
Nelle vene la primavera e diffusa.
Cuore, batti la battaglia!
Il nostro petto è rame di timballi.” Vladimir Majakovskij – La nostra Marcia (1917)