La notte del 28 marzo 1997 una nave della marina militare italiana sperona la Kater I Rades nel Canale d’Otranto morirono 81 persone
“Volevo farla rinavigare, volevo farla ripartire. E’come se si trovasse in mezzo a una tempesta e tutto il mare gli fosse scoppiato addosso. Ho cercato di farla riemergere in superficie, quello che si era inabissato doveva tornare a cavalcare le onde, con un nuovo messaggio di equilibrio tra presente e passato”. Qui, sulla banchina del porto di Otranto, quella notte se la ricordano tutti. Se la ricorda anche chi non c’era. Costas Varotsos, lo scultore venuto dalla Grecia e che da due mesi plasma vetro e ruggine, ha appena posato gli attrezzi da lavoro. La Kater I Rades è pronta per l’inaugurazione. “Che fatica tagliare in due la chiglia. È stato lo scoglio più duro. È lì, nella pancia di questa imbarcazione, che sono stati ritrovati i 57 morti”.
La ferita è ancora aperta su tutte e due le sponde del Canale d’Otranto. Da una parte quella del lutto, dall’altra quella della colpa, entrambe ancora da rimarginare. Quando quella sera del 28 marzo del ’97, in acque internazionali, la Kater I Rades, la motovedetta albanese, entrò in collisione o, meglio, venne speronata dalla Sibilla, una corvetta della Marina militare italiana, l’urto fu violentissimo. Le donne e i bambini erano corsi giù, in quello che doveva essere il riparo più sicuro, ma che divenne una trappola. 24 corpi non sono mai stati ritrovati. Ma i superstiti, 34, ne ricordano i volti, i nomi, hanno memoria lunga, raccontano quegli attimi, quella paura. Lo fanno su questo molo, dove sono arrivati per l’occasione. Lo hanno fatto nelle aule di tribunale, a Lecce, dove sono venuti ogni volta che si è tenuta un’udienza del lungo processo che si è chiuso tra la loro rabbia e la loro indignazione. Il 29 giugno 2011, alle due del mattino, la sentenza in secondo grado ha condannato a tre anni il pilota albanese della nave, Namik Xhaferi, e a due anni il comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, per omicidio colposo, reato derubricato per lesioni colpose. In dibattimento, dalla pubblica accusa era stato anche chiesto che la Marina militare e lo Stato italiano fossero assolti perché “incolpevoli dello speronamento della nave albanese”. Una strage, per chi l’ha vissuta, per cui nessuno sta pagando abbastanza.
Lecce , Corte di Appello, 29 giugno 2011 ore 02,00 del mattino: 13 ore di camera di consiglio e 14 anni di attesa per una sentenza amara per tutti coloro che speravano di avere giustizia di una strage assurda come quella del 28 marzo del 1997 nel canale d’Otranto.
Tre anni al pilota albanese della nave Xhaferi e due anni al comandante Laudadio della corvetta Sibilla, condannati per omicidio colposo, reato derubricato per lesioni colpose, un pugno di euro come risarcimento per le parti civili.
Una sentenza per la quale nessuno pagherà con il carcere o misure alternative, ma che “fortunatamente” non accoglie quanto addirittura era stato richiesto in dibattimento dalla Pubblica accusa, ovvero che di fatto Marina Militare e Stato Italiano andassero totalmente assolti, poiché “incolpevoli dello speronamento della nave albanese” nel corso di un’operazione di respingimento di profughi in acque internazionali e che di fatto criminalizzava la volontà degli albanesi di fuggire dalla Valona in piena guerra civile, a bordo di quella piccola imbarcazione.
Una sentenza che è in linea con quanto scrivemmo come associazioni antirazziste brindisine a poche ore dall’affondamento di quella nave , ovvero che a pagare, se pur lievemente, sarebbero stati solo gli ultimi di una lunga catena di responsabilità, e che conferma come noi, i superstiti del naufragio e alcuni avvocati, in quel lontano 97, avessimo ragione sull’indicare in un Tribunale Internazionale il solo soggetto a cui rivolgerci per la violazione di diritti e trattati internazionali avvenuta in quelle poche miglia che dividono l’Albania dalla costa pugliese d’Italia.
Spariti dai processi di primo grado i ministri dell’allora governo Prodi e gli ammiragli competenti che avevano dato ordine alle due navi italiane , la Zefiro e la Sibilla, di intercettare e respingere le carrette del mare albanesi; nel frattempo rese introvabili, distrutte, lacunose e tali da non essere utilizzabili come prova cardine di quelle responsabilità, le comunicazioni, radio, telefoniche, dispacci diplomatici, ecc.
Dall’altro lato, lo Stato albanese fragilmente costretto a dipendere dagli aiuti esterni e in primis dall’Italia è rimasto di fatto in disparte, forse non volendo inimicarsi la classe politica del nostro paese , non ha mai spinto affinché fosse intrapreso il percorso di un giudizio internazionale e da esso oggi, nel contesto attuale, in cui si chiede che il paese dell’Aquile entri a far parte dell’area Euro, è impensabile che ci si aspetti uno scatto di orgoglio nazionale.
Insomma un iter che ci ricorda le tante stragi di Stato, da Piazza fontana, a Bologna, Brescia, Ustica, che insanguinarono gli anni della nostra generazione .
Un processo che nonostante tutti i “sabotaggi” informativi della prima ora è riuscito ad andare avanti solo all’ostinazione di noi antirazzisti brindisini e pugliesi e dei superstiti e dei familiari delle vittime, che fecero divenire un caso politico la richiesta di recupero della Kater i Rades, affichè le versioni di Stato sull’accaduto fossero smentite attraverso l’analisi dello scafo e il recupero dei corpi.
Oggi, quella che fu una bara per un centinaio di donne e bambini albanesi, giace arrugginita in un’area dismessa della Marina e solo grazie alle proteste degli antirazzisti e degli avvocati delle parti civili, essa non è stata rottamata ma, se non si provvederà a fermare l’incuria degli uomini e il passare del tempo, di quella tragedia non rimarrà traccia.
Forse l’unico risarcimento alle vittime sarebbe quello di restaurare quella bara collettiva e riportarla a Valona per farne un monumento a tutte le tragedie del mare , ma anche monito a tutti coloro che con linguaggi xenofobi e razzisti ad ogni emergenza da flussi migratori invocano misure folli e criminali come il respingimento in mare dei profughi e misure segregazioniste antimmigrati
Noi antirazzisti pugliesi continueremo a chiedere giustizia per le vittime della Karer come quelle di tutte le tragedie dell’immigrazione e saremo sempre al fianco dei migranti, come ieri 28 marzo quando abbiamo manifestato insieme ai familiari albanesi dinanzi al Tribunale di Lecce.( vedi http://www.pugliantagonista.it/osservbalcanibr/kater_appello.htm)
Oggi il nostro cuore è ancora di più vicino al loro, vicino ai genitori e ai familiari di Basha Zhylien 3 anni, Demiri Lindita 12 anni, Greco Kristi 3 mesi, Xhavara Credenza 6 mesi , Sula Kedion 2 anni, Bestrova Dritero 10 anni e Kostantin 2 anni, Xhavara Gerald 5 anni Xhavara Kamela 10 anni e… tante altre anime di angeli gettati in un abisso del canale d’Otranto, in un giorno in cui il nostro paese fu colpito dalla follia razzista antialbanese
Anche questa è la storia del “Battello di rada” partito da una Valona in piena guerra civile . Il relitto, abbandonato per anni nel porto di Brindisi, doveva essere demolito. Lo aveva disposto la Corte d’Appello di Lecce, nella scorsa primavera. È stato il Comune di Otranto, su spinta dell’associazioneIntegra Onlus, a bloccarne lo smantellamento. “Per noi sarebbe stata un’offesa a tutto quello che siamo stati. Recuperare quel relitto, trasformarlo in opera d’arte, non è semplicemente un modo per chiedere scusa agli albanesi. È anche un esercizio di memoria per noi. Dopo quella tragedia, lo Stato italiano ha capito che non potevamo più continuare con i respingimenti in mare, sono stati uno strazio. Una nave in mare aperto la si accoglie, in ogni caso. E il nostro porto è tuttora aperto a questo”.
Luciano Cariddi, che ha voluto l’opera, è anche il sindaco che a Otranto ha riaperto il “Don Tonino Bello”, il centro di primissima accoglienza per gli immigrati. Era chiuso da cinque anni. Dal luglio del 2010 non ha più smesso di funzionare. Prima c’erano gli albanesi, ora ci sono gli afghani, gli egiziani, gli iracheni. “Gente in fuga, a cui abbiamo l’obbligo e la voglia di dare pace. È per loro – ribadisce Cariddi – che la Kater è diventata il monumento all’umanità migrante, ‘L’Approdo’”.
È qui l’altra Lampedusa. Su questa banchina. La nuova porta dell’Europa ha la forma della prua recuperata e il colore del vetro che è stato lavorato. “Materiale trasparente, che ti obbliga a guardare al di là, non pellicola di separazione – precisa lo scultore greco – perché questo Adriatico torni ad essere fluido, via di comunicazione e non frontiera”. La Kater I Rades è il simbolo dell’Europa di oggi che sta per implodere. “Anche la mia Grecia e anche la nostra Italia si trovano in mezzo alla tempesta, come lo è stata quest’imbarcazione quella notte del ’97. Forse quella tragedia voleva avvertici della deviazione degli obiettivi dell’Europa unita. Non abbiamo saputo virare per tempo. E ora da qui suoniamo l’allarme contro la xenofobia che è tornata a dilagare per le nostre strade”. Così dice Varotsos, che al suo fianco ha voluto ci fosse anche un gruppo di ragazzi della Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Sono venuti da Egitto, Siria, Cipro, Albania, Montenegro, Francia e ci saranno anche loro nella “residenza internazionale per il contemporaneo e le migrazioni”. Quest’opera collettiva è l’incipit di quest’altro racconto, di quest’altro capitolo che si aggiunge alla storia della Kater I Rades e degli sbarchi sulle coste salentine e italiane. Il lutto e la colpa non si cancellano, ma si rielaborano, come nei funerali, in Grecia, quando la gente si saluta e dice “Vita a voi”. Ecco, Otranto oggi agli albanesi e ai nuovi migranti vuole dire proprio questo, “Vita a voi”.
Nessun commento:
Posta un commento