Nessuno è come sembra, ma dobbiamo mantenere le apparenze per sopravvivere
lunedì 24 ottobre 2016
Ti racconto: LiberaLaParola
Padova - Inizia un nuovo anno scolastico per la scuola
Liberalaparola, un progetto che è costituito a partire dalla
condivisione di idee e intenti su ciò che riguarda le pratiche di
accoglienza dei migranti e il loro diritto a partecipare in prima
persona ai processi di costruzione di una società aperta e antirazzista.
Nella scuola tutti e tutte vengono accolti senza discriminazioni e si
mira a creare un clima sereno di condivisione e scambio tra insegnanti e
"allievi", lontano dalle lezioni ex cathedra. Nelle aule infatti
imparano, insegnano e lavorano fianco a fianco migranti provenienti da
tutto il mondo, in viaggio per i più disparati motivi. “Nessuno è illegale”
è uno dei punti cardine della scuola, assieme all’idea che ognuno abbia
diritto di imparare la lingua del paese in cui, per scelta o obbligo,
si trova a vivere.
Partendo da queste solide radici la scuola cambia e muta per
adattarsi alle sempre nuove esigenze di alunni e insegnanti: quest’anno
infatti Liberalaparola, dopo alcuni anni trascorsi nei
locali del Centro sociale Pedro, ha una nuova collocazione presso la
sede di Sherwood e del Progetto Melting Pot Europa in vicolo Pontecorvo 1/a.
La scuola ha ora a disposizione alcune aule dove svolgere le proprie
attività: le lezioni, iniziate martedì 11 Ottobre, si svolgeranno ogni martedì e giovedì dalle 18.30 alle 20.30.
Liberalaparola non si limita solo ad un lavoro che si svolge tra
quattro mura, ma si impegna a concretizzare i valori di apertura e
antirazzismo nei contesti delle varie mobilitazioni che attraversano la
città di Padova.
Liberalaparola è un’esperienza di crescita umana per tutti quelli che vi partecipano!
I numerosi progetti della scuola sono realizzabili solo grazie al
continuo apporto di tutti i vari “compagni di viaggio” che si incontrano
lungo la via.
...che questo nuovo viaggio tra storie, sguardi, voci, lettere, quaderni, gessetti, sapere e libertà abbia inizio!
Gli insegnanti di Liberalaparola
Links utili:
Pagina Facebook
PARIS 20/10/2016 • LA POLICE PÈTE UN PLOMB ET MARCHE VERS L'ÉLYSÉE
Un
nuovo fenomeno, alquanto inquietante, si sta verificando per le strade
di Parigi e di altre città francesi: la polizia ha deciso di esprimere
la sua “collera” nei confronti di un governo che, a suo dire, non la
sostiene e di mostrarsi solidali con il poliziotto gravemente ferito l’8
ottobre a Viry-Chatillon da un cocktail molotov. L’episodio, avvenuto
nei pressi di una cité particolarmente “difficile”, così come sono
considerate quelle zone in cui lo Stato si mostra nella sua essenza
strutturalmente razzista e marginalizzante, aveva scatenato durissime
reazioni di condanna e di sorpresa da parte dell’opinione pubblica. A
partire da quel momento la polizia ha indetto un primo presidio di
solidarietà susseguito da vaire manifestazioni a Marsiglia, Nizza,
Tolosa, fino ad arrivare alla terza manifestazione nel giro di pochi
giorni. Questa settimana a Parigi un corteo è partito da place de la
République, punto di partenza simbolicamente importante per la città che
per mesi è stata teatro di un intenso periodo di lotta contro la loi
travail, passando davanti all’ospedale dove si trova ancora ricoverato
l’agente.
«Les
gendarmes avec nous!», rivolgendosi così alle camionette che scortavano
la manifestazione e cantando La Marsellaise, la polizia si è diretta
verso l’Eliseo per mostrare il suo scontento rispetto alle condizioni
lavorative e per lamentare di essere vittima di una haine anti-flic , l’odio anti-sbirro. Un corteo con molti agenti travisati e armati, protetti lungo il percorso dai propri colleghi. La
protesta contro le violenze fatte alle forze dell’ordine è stata
pubblicamente sostenuta dal Front National e da una Marine Le Pen che ha
descritto il loro scontento come “legittimo e sano”. Le basi sindacali
intendono denunciare l’impunità di cui godono gli aggressori della
polizia e criticano il loro stesso sindacato maggioritario, Alliance,
per non essere abbastanza combattivo nel migliorare le condizioni
lavorative. Intanto, il Parti Socialiste dichiara di voler tenere in
considerazione la richiesta di provvedere ai rinforzi necessari alla
lotta al terrorismo e Hollande apre la concertazione con i sindacati che
hanno lanciato una nuova data mercoledì 26 ottobre per una marcia che
si faccia portatrice della collera poliziesca e cittadina. L’avvio di
questo dialogo prelude al nuovo piano di sicurezza pubblica che verrà
introdotto in novembre, provvedimento che aumenterà mezzi e effettivi
per le forze dell’ordine.
gendarmes avec nous!», rivolgendosi così alle camionette che scortavano
la manifestazione e cantando La Marsellaise, la polizia si è diretta
verso l’Eliseo per mostrare il suo scontento rispetto alle condizioni
lavorative e per lamentare di essere vittima di una haine anti-flic , l’odio anti-sbirro. Un corteo con molti agenti travisati e armati, protetti lungo il percorso dai propri colleghi. La
protesta contro le violenze fatte alle forze dell’ordine è stata
pubblicamente sostenuta dal Front National e da una Marine Le Pen che ha
descritto il loro scontento come “legittimo e sano”. Le basi sindacali
intendono denunciare l’impunità di cui godono gli aggressori della
polizia e criticano il loro stesso sindacato maggioritario, Alliance,
per non essere abbastanza combattivo nel migliorare le condizioni
lavorative. Intanto, il Parti Socialiste dichiara di voler tenere in
considerazione la richiesta di provvedere ai rinforzi necessari alla
lotta al terrorismo e Hollande apre la concertazione con i sindacati che
hanno lanciato una nuova data mercoledì 26 ottobre per una marcia che
si faccia portatrice della collera poliziesca e cittadina. L’avvio di
questo dialogo prelude al nuovo piano di sicurezza pubblica che verrà
introdotto in novembre, provvedimento che aumenterà mezzi e effettivi
per le forze dell’ordine.
Il
panorama che si sta delineando ha un che di paradossale considerando i
danni fisici, psicologici e in termini di libertà di movimento e di
espressione di cui la repressione francese ha dato prova soprattutto
nell’ultimo anno. Dopo gli attentati di novembre e la dichiarazione
dello stato di emergenza il governo socialista non ha smesso di dare
mezzi e libertà di manovra alle forze dell’ordine, tendenza che ha avuto
il suo culmine nel dispositivo messo in atto durante il movimento di
questa primavera-estate francese. Chi ha perso occhi, chi ha rischiato
la vita, chi ha preso le botte, le granate, chi è morto nelle cité o sui
territori della ZAD di Sivens, chi negli angoli di un commissariato è
stato violentata, chi subisce ogni giorno controlli per le strade e
nelle stazioni, sono il risultato di una politica che ha un mandante e
un esecutore ben identificabili. Quello che sta succedendo in questi
giorni dovrebbe dare un’indicazione chiara del terreno che si sta
preparando all’alba delle presidenziali del 2017.
panorama che si sta delineando ha un che di paradossale considerando i
danni fisici, psicologici e in termini di libertà di movimento e di
espressione di cui la repressione francese ha dato prova soprattutto
nell’ultimo anno. Dopo gli attentati di novembre e la dichiarazione
dello stato di emergenza il governo socialista non ha smesso di dare
mezzi e libertà di manovra alle forze dell’ordine, tendenza che ha avuto
il suo culmine nel dispositivo messo in atto durante il movimento di
questa primavera-estate francese. Chi ha perso occhi, chi ha rischiato
la vita, chi ha preso le botte, le granate, chi è morto nelle cité o sui
territori della ZAD di Sivens, chi negli angoli di un commissariato è
stato violentata, chi subisce ogni giorno controlli per le strade e
nelle stazioni, sono il risultato di una politica che ha un mandante e
un esecutore ben identificabili. Quello che sta succedendo in questi
giorni dovrebbe dare un’indicazione chiara del terreno che si sta
preparando all’alba delle presidenziali del 2017.
Napoli - L'ospedale San Gennaro non si chiude, lunedì tutti in piazza!
“La rivolta del Rione Sanità” titolava Il
Mattino, uno dei principali quotidiani campani, lo scorso lunedì dopo
l’occupazione dell’ospedale San Gennaro.
Il processo di dismissione di questo ospedale dura ormai da anni. Prima
era stato chiuso il pronto soccorso, successivamente i suoi servizi
erano stati depotenziati, lasciando una delle zone più popolose della
città con un presidio ospedaliero monco, nonostante si trattasse di una
struttura storica su cui i cittadini avevano potuto contare per anni.
Ora, per chi non conoscesse bene la situazione, è bene che si tenga
presente che il Rione di cui parliamo, da solo, conta più di 30mila
abitanti, ma che l’ospedale San Gennaro rappresenta un punto di
riferimento essenziale per tutto il quartiere in cui si trova,
Stella-Sanità, che invece di abitanti ne fa più di 60mila, oltre che per
buona parte della terza municipalità e per pezzi della municipalità
limitrofe, la seconda e la quarta. La chiusura del pronto soccorso
dell’ospedale di cui parliamo ha lasciato agli abitanti di queste zone
come punti di riferimento i soli affollatissimi Pellegrini e Cardarelli,
questo in particolare rappresenta una delle strutture più frequentate
del Sud Italia in cui per riuscire a essere visitati al pronto soccorso
si possono aspettare anche sette o otto ore.
Mattino, uno dei principali quotidiani campani, lo scorso lunedì dopo
l’occupazione dell’ospedale San Gennaro.
Il processo di dismissione di questo ospedale dura ormai da anni. Prima
era stato chiuso il pronto soccorso, successivamente i suoi servizi
erano stati depotenziati, lasciando una delle zone più popolose della
città con un presidio ospedaliero monco, nonostante si trattasse di una
struttura storica su cui i cittadini avevano potuto contare per anni.
Ora, per chi non conoscesse bene la situazione, è bene che si tenga
presente che il Rione di cui parliamo, da solo, conta più di 30mila
abitanti, ma che l’ospedale San Gennaro rappresenta un punto di
riferimento essenziale per tutto il quartiere in cui si trova,
Stella-Sanità, che invece di abitanti ne fa più di 60mila, oltre che per
buona parte della terza municipalità e per pezzi della municipalità
limitrofe, la seconda e la quarta. La chiusura del pronto soccorso
dell’ospedale di cui parliamo ha lasciato agli abitanti di queste zone
come punti di riferimento i soli affollatissimi Pellegrini e Cardarelli,
questo in particolare rappresenta una delle strutture più frequentate
del Sud Italia in cui per riuscire a essere visitati al pronto soccorso
si possono aspettare anche sette o otto ore.
In
questo quadro già drammatico si è inserito il nuovo piano nazionale
sanitario redatto dalla ministra Lorenzin, tradotto dal Governatore
della Campania Vincenzo De Luca con il decreto 33 nello smantellamento
di diverse strutture, tra cui quella dell’ospedale San Gennaro, che
tecnicamente verrebbe semplicemente trasformato. Nei fatti invece
parliamo di una chiusura sostanziale della struttura, che perderebbe la
forma di un ospedale vero per diventare “un polo territoriale
riabilitativo e polispecialistico“, formula roboante che significa nei
fatti ridurre drasticamente le funzioni della struttura, e quindi
chiusura della maggior parte dei reparti ora esistenti, ridurre i
ricoveri, il personale, garantendo l’accesso all’ospedale solo tramite
ticket, e lasciando in luogo del pronto soccorso solo una forma blanda e
insufficiente di primo soccorso.
questo quadro già drammatico si è inserito il nuovo piano nazionale
sanitario redatto dalla ministra Lorenzin, tradotto dal Governatore
della Campania Vincenzo De Luca con il decreto 33 nello smantellamento
di diverse strutture, tra cui quella dell’ospedale San Gennaro, che
tecnicamente verrebbe semplicemente trasformato. Nei fatti invece
parliamo di una chiusura sostanziale della struttura, che perderebbe la
forma di un ospedale vero per diventare “un polo territoriale
riabilitativo e polispecialistico“, formula roboante che significa nei
fatti ridurre drasticamente le funzioni della struttura, e quindi
chiusura della maggior parte dei reparti ora esistenti, ridurre i
ricoveri, il personale, garantendo l’accesso all’ospedale solo tramite
ticket, e lasciando in luogo del pronto soccorso solo una forma blanda e
insufficiente di primo soccorso.
A
tale decreto si è aggiunto nel settembre scorso il piano territoriale
del decreto 99 che interviene localmente, tra le altre, sulla
programmazione dell'ASL Napoli 1, amministrazione sanitaria di
riferimento dell'ospedale San Gennaro. In tale piano è presente una
caratterizzazione della riconversione complessiva architettata dalla
regione Campania. Essa prevedrebbe l'apertura di un ospedale di comunità
con 20 posti letto, dell'UCCP territoriale (Unità complesse di cure
primarie), di una struttura polifunzionale per la salute e di una
speciale unità dell'accoglienza permanente. Lo smantellamento dei
reparti di Oncologia ed Ematologia, che l'occupazione dei cittadini di
lunedì e il presidio permanente hanno fino ad ora bloccato, risponde
alla logica di riconversione prevista dal decreto in questione. La lotta
dei cittadini e delle cittadine del rione Sanità ha espresso
un'opposizione radicale alle misure proposte. A un piano di criticità
generale si aggiungono le insufficienze individuali delle componenti del
decreto. Se difatti la mobilitazione e le dimissioni dei reparti,
attraverso lo spostamento di medici, infermieri e pazienti in altre
strutture, è attualmente in corso (il presidio ha fino ad ora impedito
il trasferimento di macchinari), la riconversione generale della
struttura si realizzerà, secondo decreto, nell'arco di tre anni.
Previsione che come vedremo si fregia di un ottimismo e di una
sfrontatezza spudorati. Nei fatti, prima che ai reparti smantellati si
sostituiscano le misure previste, ne passerà di acqua sotto i ponti. La
linea strategica adottata dall'amministrazione è quella di allentare la
tensione della mobilitazione attraverso la pubblicizzazione delle misure
del decreto, puntando su un lungo periodo nel quale tante delle
componenti elencate saranno, anch'esse, destinate a scomparire. A
queste, inoltre, il direttore sanitario di ASL Napoli 1 Elia Abbondante
ha aggiunto un servizio di primo soccorso h24, da attivare
immediatamente, (un ambulanza a fronte di 60 mila abitanti) e un
ambulatorio infermieristico h12. Concessione, ancora, ripetiamo,
insufficiente rispetto al servizio che essa andrebbe a compensare e di
valenza fortemente strategica. Passando, infatti, alle criticità delle
componenti risulta chiaro che senza un cronoprogramma dei lavori e una
valutazione preventiva dei costi, il decreto è carta straccia.
Ricordiamo che un ospedale di comunità prevedrebbe l'assunzione dei
medici di base del quartiere, a oggi insostenibile considerata la salute
finanziaria dell'Asl Napoli 1. Per non pensare ai tempi di
realizzazione del poliambulatorio e dell'UCCP. Misure come quest'ultima
sono oltretutto poste come alternative al servizio di pronto soccorso
classico, laddove le stesse funzionerebbero da piano, per un’unità
territoriale di 10mila abitanti. Insomma un’operazione di riconversione
che oltre a non fornire garanzie temporali e finanziare, soffre di una
strutturale insufficienza rispetto al bisogno di cura, statisticamente
certificato, a cui il San Gennaro risponde da decenni.
tale decreto si è aggiunto nel settembre scorso il piano territoriale
del decreto 99 che interviene localmente, tra le altre, sulla
programmazione dell'ASL Napoli 1, amministrazione sanitaria di
riferimento dell'ospedale San Gennaro. In tale piano è presente una
caratterizzazione della riconversione complessiva architettata dalla
regione Campania. Essa prevedrebbe l'apertura di un ospedale di comunità
con 20 posti letto, dell'UCCP territoriale (Unità complesse di cure
primarie), di una struttura polifunzionale per la salute e di una
speciale unità dell'accoglienza permanente. Lo smantellamento dei
reparti di Oncologia ed Ematologia, che l'occupazione dei cittadini di
lunedì e il presidio permanente hanno fino ad ora bloccato, risponde
alla logica di riconversione prevista dal decreto in questione. La lotta
dei cittadini e delle cittadine del rione Sanità ha espresso
un'opposizione radicale alle misure proposte. A un piano di criticità
generale si aggiungono le insufficienze individuali delle componenti del
decreto. Se difatti la mobilitazione e le dimissioni dei reparti,
attraverso lo spostamento di medici, infermieri e pazienti in altre
strutture, è attualmente in corso (il presidio ha fino ad ora impedito
il trasferimento di macchinari), la riconversione generale della
struttura si realizzerà, secondo decreto, nell'arco di tre anni.
Previsione che come vedremo si fregia di un ottimismo e di una
sfrontatezza spudorati. Nei fatti, prima che ai reparti smantellati si
sostituiscano le misure previste, ne passerà di acqua sotto i ponti. La
linea strategica adottata dall'amministrazione è quella di allentare la
tensione della mobilitazione attraverso la pubblicizzazione delle misure
del decreto, puntando su un lungo periodo nel quale tante delle
componenti elencate saranno, anch'esse, destinate a scomparire. A
queste, inoltre, il direttore sanitario di ASL Napoli 1 Elia Abbondante
ha aggiunto un servizio di primo soccorso h24, da attivare
immediatamente, (un ambulanza a fronte di 60 mila abitanti) e un
ambulatorio infermieristico h12. Concessione, ancora, ripetiamo,
insufficiente rispetto al servizio che essa andrebbe a compensare e di
valenza fortemente strategica. Passando, infatti, alle criticità delle
componenti risulta chiaro che senza un cronoprogramma dei lavori e una
valutazione preventiva dei costi, il decreto è carta straccia.
Ricordiamo che un ospedale di comunità prevedrebbe l'assunzione dei
medici di base del quartiere, a oggi insostenibile considerata la salute
finanziaria dell'Asl Napoli 1. Per non pensare ai tempi di
realizzazione del poliambulatorio e dell'UCCP. Misure come quest'ultima
sono oltretutto poste come alternative al servizio di pronto soccorso
classico, laddove le stesse funzionerebbero da piano, per un’unità
territoriale di 10mila abitanti. Insomma un’operazione di riconversione
che oltre a non fornire garanzie temporali e finanziare, soffre di una
strutturale insufficienza rispetto al bisogno di cura, statisticamente
certificato, a cui il San Gennaro risponde da decenni.
La
messa in pratica di queste disposizioni ha rappresentato la scintilla
che ha portato gli abitanti del quartiere a scendere per le strade con
lo scopo di impedire lo smantellamento dell’ospedale del loro quartiere.
Gli abitanti del quartiere hanno iniziato con un presidio e un’assemblea
chiamati dalla Rete Sanità, attiva da tempo sul territorio, scegliendo
poi di bloccare il traffico cittadino in diverse occasioni.
Dopo pochi giorni i cittadini hanno scelto di entrare nell’ospedale,
occupandolo, e poi stabilendovi un presidio permanente nell’ospedale San
Gennaro per bloccare, con successo, i camion che avrebbero dovuto
portare via i reparti dell’ospedale e impedire loro l’accesso
all’ospedale.
messa in pratica di queste disposizioni ha rappresentato la scintilla
che ha portato gli abitanti del quartiere a scendere per le strade con
lo scopo di impedire lo smantellamento dell’ospedale del loro quartiere.
Gli abitanti del quartiere hanno iniziato con un presidio e un’assemblea
chiamati dalla Rete Sanità, attiva da tempo sul territorio, scegliendo
poi di bloccare il traffico cittadino in diverse occasioni.
Dopo pochi giorni i cittadini hanno scelto di entrare nell’ospedale,
occupandolo, e poi stabilendovi un presidio permanente nell’ospedale San
Gennaro per bloccare, con successo, i camion che avrebbero dovuto
portare via i reparti dell’ospedale e impedire loro l’accesso
all’ospedale.
Evidentemente la
mobilitazione del Rione ha attirato l’attenzione del Governatore De
Luca. Nelle sue dichiarazioni il Presidente della Regione Campania ha
negato la chiusura del San Gennaro, tacendo però delle trasformazioni
che come si diceva sopra uccidono quello che nei fatti smetterebbe di
essere un ospedale, per poi rifiutarsi di incontrare i cittadini del
quartiere, se non attraverso una rappresentanza formale composta da
parroci e istituzioni municipali.
L’assemblea del presidio permanente, di cui lo stesso presidente della
municipalità fa parte, non ha voluto scendere a compromessi rispetto a
una delegazione che non avrebbe rappresentato la ricchezza democratica
che ha animato la mobilitazione di questi giorni e che ha visto scendere
in piazza cittadini del quartiere, attivisti, e reti solidali
provenienti da altre zone della città. Così si è scelto di portare la
lotta a un livello successivo chiamando un corteo che dal Rione Sanità
arrivi in Regione a chiedere che lo smantellamento dei reparti venga
fermato immediatamente insieme al trasferimento di lavoratori e
pazienti, e per pretendere un tavolo tecnico in cui i cittadini possano
partecipare alla decisione sul futuro dell’ospedale.
L’appuntamento è per lunedì 24 ottobre alle ore 9:30 all’ospedale San Gennaro.
#OperazioneSanGennaro
mobilitazione del Rione ha attirato l’attenzione del Governatore De
Luca. Nelle sue dichiarazioni il Presidente della Regione Campania ha
negato la chiusura del San Gennaro, tacendo però delle trasformazioni
che come si diceva sopra uccidono quello che nei fatti smetterebbe di
essere un ospedale, per poi rifiutarsi di incontrare i cittadini del
quartiere, se non attraverso una rappresentanza formale composta da
parroci e istituzioni municipali.
L’assemblea del presidio permanente, di cui lo stesso presidente della
municipalità fa parte, non ha voluto scendere a compromessi rispetto a
una delegazione che non avrebbe rappresentato la ricchezza democratica
che ha animato la mobilitazione di questi giorni e che ha visto scendere
in piazza cittadini del quartiere, attivisti, e reti solidali
provenienti da altre zone della città. Così si è scelto di portare la
lotta a un livello successivo chiamando un corteo che dal Rione Sanità
arrivi in Regione a chiedere che lo smantellamento dei reparti venga
fermato immediatamente insieme al trasferimento di lavoratori e
pazienti, e per pretendere un tavolo tecnico in cui i cittadini possano
partecipare alla decisione sul futuro dell’ospedale.
L’appuntamento è per lunedì 24 ottobre alle ore 9:30 all’ospedale San Gennaro.
#OperazioneSanGennaro
Qui il link all'evento Facebook del corteo
Qui il link alla pagina Facebook del presidio permanente
giovedì 20 ottobre 2016
16.10.16-Vicenza-Stop War Games
Continua il tour di segnalazioni territoriali degli attivisti di Vicenza si solleva. Tagliate le recinzioni alla base San Rocco-Santa Cleta, posta al vertice della collina di Longare e sovrastante la base sotterranea Site Pluto. La base è nota per essere il luogo dove compiono le esercitazioni Eurogenford, corpo di polizia militare dell’Unione Europea.
Adelchi Argada 1953 -1974 - Hanno ucciso un ragazzo di vent'anni...
Sergio Adelchi Argada, giovane operaio militante del ”Fronte Popolare
Comunista Rivoluzionario Calabrese” (FPCR) viene barbaramente ucciso, il
20 ottobre 1974, a colpi di pistola dai fascisti Michelangelo De Fazio e
Oscar Porchia.
Il primo studia Legge a Firenze, ragazzo di buona
famiglia conosciuto sia dai fascisti del posto che da quelli
dell’università toscana. Il secondo, anche lui studente, è un militante
del Movimento Sociale e per un paio d’anni è stato anche il segretario
del Fronte della gioventù di Lamezia.
Oltre a Sergio, nell’agguato
squadrista rimangono feriti altri quattro giovani operai che sono con
lui (fra cui il fratello Otello).La mattina del 20 ottobre, di fronte al
Comune di Lamezia, ci fu una manifestazione nell’ambito del Festival
Provinciale dell’Avanti. Nella notte, scritte fasciste ingiuriose sui
muri avevano provocato tensioni; fino ad arrivare alle mani, spinte,
minacce: la questione però era destinata a non finire lì.
Fu infatti
alle 15.30 di quella domenica di ottobre che, i fratelli Argada,
accompagnati dai fratelli Morello, incontrarono sulla strada di ritorno
dallo stadio cinque camerati. A rivolgersi ai fascisti ci pensò Giovanni
Morello, disgustato dalla vigliaccheria dimostrata da questi personaggi
solo ventiquattro ore prima, quando avevano picchiato il fratello più
piccolo, quattordici anni appena.
E quattordici furono anche i colpi
che riecheggiarono per le strade di Lamezia; quattro mortali
indirizzati al giovane Adelchi, intervenuto per proteggere e aiutare
l’amico ferito da un colpo alla gamba.Il giorno dei funerali, trentamila
furono le persone che scesero in piazza per salutare Sergio Adelchi
Argada. La cattedrale non bastò a contenerli tutti e, per le orazioni,
venne utilizzato il palco della festa de ”L’Avanti”, ancora montato
nella piazza del Municipio per il concerto della sera precedente.
Jovine, uno studente, parlò a nome dei ragazzi di Lamezia: “Conoscevamo
Adelchi Argada come uno dei nostri migliori militanti, sempre schierato
dalla parte degli oppressi. Bisogna capire perché è morto; era un
operaio, uno dei tanti giovani costretto a una certa età a lavorare
perché per i proletari, per i figli dei lavoratori, non esistono
privilegi che sono di altri. Argada ha fatto una scelta, si è messo
dalla parte di chi vuole una società diversa non a parole, in cui lo
sfruttamento sia abolito e il fascismo non possa trovare spazio”.
Arrestati, gli assassini di Adelchi Argada ebbero dalla loro parte
soltanto una pretestuosa tesi di legittima difesa. Una posizione che più
di qualche giornale conservatore fece propria e diffuse con forza. Nel
caso di Oscar Porchia e Michele De Fazio sostenere di avere sparato per
difendersi non funzionò: imputati di omicidio, dopo aver ottenuto di
spostare la tesi processuale a Napoli, nel 1977 furono condannati
rispettivamente a quindici anni e quattro mesi e a otto anni e tre mesi
di reclusione.
martedì 4 ottobre 2016
Nome in codice Caesar | Roma 4-9/10/2016 MAXXI
l 4 ottobre, alle 11, a Roma, nella sede della Fnsi
(Federazione nazionale della stampa italiana), in corso Vittorio
Emanuele II, 349 (primo piano), si terrà la presentazione della mostra fotografica “Nome in codice: Caesar, detenuti siriani vittime di tortura”, organizzata da Amnesty International Italia, Focsiv, Unimed, Un ponte per, Fnsi e Articolo 21.
La mostra, già esposta alle Nazioni Unite di New York,
alla commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al
museo dell’Olocausto di Washington e nelle principali città europee, dal
5 all’8 ottobre porterà al museo Maxxi di Roma una selezione delle 55mila immagini prodotte da Caesar.
Caesar è il nome in codice attribuito ad un ex-ufficiale della polizia militare siriana incaricato di fotografare la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar al Assad tra il 2011 e il 2013, e che ha, poi, trafugato l’intero archivio fotografico che documenta tali atrocità praticate sul proprio popolo.
Una macabra documentazione voluta da un regime che non ha la benché minima compassione neanche di fronte la morte.
Durante la conferenza stampa sarà illustrato il significato della mostra:
una documentazione dei crimini contro l’umanità commessi nelle carceri
siriane dal 2011, immagini certificate e dichiarate ammissibili in caso
di processo al regime siriano per i crimini di guerra da un’autorevole commissione internazionale di esperti forensi e giudici.
Inoltre, verrà letto un messaggio di Caesar e saranno messe in evidenza le principali novità politico-giudiziarie internazionali
emerse dall’ultimo rapporto di Amnesty International. Infine, saranno
illustrate le iniziative politico-culturali che avranno luogo in
occasione dell’inaugurazione, il 5 ottobre, alle 18, e della chiusura dell’esposizione, sabato 8 ottobre, sempre alle 18.
Alla presentazione della mostra interverranno: Riccardo Noury, Amnesty International Italia; Barbara Scaramucci, Articolo 21; Attilio Ascani, Focsiv; Raffaele Lorusso, Fnsi; prof. Franco Rizzi, Unimed; Domenico Chirico, Un Ponte Per;
Moaz, Caesar Team. Apertura di Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa
da Beirut: “Cosa significa questa mostra”. Coordina Amedeo Ricucci,
giornalista Rai.
lunedì 3 ottobre 2016
Ayotzinapa, a dos años del caso que cimbró a México - Aristegui Noticias
di Perez Gallo e Nino Buenaventura (da Città del Messico)
“Ayotzinapa
non è un fatto isolato, è la viva immagine della repressione di
Stato!”. È all’insegna di queste parole che si è commemorato, oggi 26
settembre, il secondo anniversario dei tragici fatti di Iguala,
quando nella cittadina dello stato messicano del Guerrero, un gruppo di
studenti “normalisti” (magistrali) appartenenti alla scuola rurale di
Ayotzinapa – un’istituzione scolastica ereditata dalla Rivoluzione in
cui gli alunni studiano per diventare maestri nelle comunità contadine e
da cui uscirono figure guerrigliere rivoluzionarie come Lucio Cabañas e
Génaro Vázquez – furono brutalmente attaccati dalla polizia messicana.
Tre di loro, insieme ad altre tre persone che si trovavano sul luogo,
incluso un quattordicenne calciatore di una squadra locale, rimasero sul
terreno, uccisi da proiettili al volto. Al termine di quella notte
altri 43 giovani non furono più ritrovati, e ancora oggi rimangono
nell’immaginario collettivo come l’emblema di un fenomeno brutale e
terribilmente comune nel Messico odierno: quello delle “sparizioni
forzate”. Dal 2006, anno di entrata al potere dell’ex presidente Felipe
Calderón, che iniziò la cosiddetta “narcoguerra”, ad oggi, quando ci
avviciniamo alla fine del mandato del suo successore Enrique Peña Nieto,
si stima che i desaparecidos nel paese ammontino a più di
trentamila, anche se i numeri reali del fenomeno sono probabilmente
molto maggiori, essendo la stragrande maggioranza di essi migranti
centroamericani finiti nel buco nero del lavoro schiavistico per i
cartelli della droga e le cui sparizioni non sono mai state registrate
dalle statistiche governative.
non è un fatto isolato, è la viva immagine della repressione di
Stato!”. È all’insegna di queste parole che si è commemorato, oggi 26
settembre, il secondo anniversario dei tragici fatti di Iguala,
quando nella cittadina dello stato messicano del Guerrero, un gruppo di
studenti “normalisti” (magistrali) appartenenti alla scuola rurale di
Ayotzinapa – un’istituzione scolastica ereditata dalla Rivoluzione in
cui gli alunni studiano per diventare maestri nelle comunità contadine e
da cui uscirono figure guerrigliere rivoluzionarie come Lucio Cabañas e
Génaro Vázquez – furono brutalmente attaccati dalla polizia messicana.
Tre di loro, insieme ad altre tre persone che si trovavano sul luogo,
incluso un quattordicenne calciatore di una squadra locale, rimasero sul
terreno, uccisi da proiettili al volto. Al termine di quella notte
altri 43 giovani non furono più ritrovati, e ancora oggi rimangono
nell’immaginario collettivo come l’emblema di un fenomeno brutale e
terribilmente comune nel Messico odierno: quello delle “sparizioni
forzate”. Dal 2006, anno di entrata al potere dell’ex presidente Felipe
Calderón, che iniziò la cosiddetta “narcoguerra”, ad oggi, quando ci
avviciniamo alla fine del mandato del suo successore Enrique Peña Nieto,
si stima che i desaparecidos nel paese ammontino a più di
trentamila, anche se i numeri reali del fenomeno sono probabilmente
molto maggiori, essendo la stragrande maggioranza di essi migranti
centroamericani finiti nel buco nero del lavoro schiavistico per i
cartelli della droga e le cui sparizioni non sono mai state registrate
dalle statistiche governative.
Fenomeni, quelli delle desapariciones forzadas,
che al pari delle centinaia di migliaia di omicidi, femminicidi,
episodi di esproprio di terre di popolazioni indigene, e di
iper-sfruttamento nelle maquiladoras (fabbriche frontaliere a
capitale occidentale e manodopera a bassissimo costo tenuta docile dalla
minaccia del narcotraffico) rappresentano la cifra di un Messico, e
un’America Latina, socialmente dilaniato. Fenomeni per i quali, parlare
di impunità suona quasi eufemistico. Il caso di Ayotzinapa, ancora una
volta, ne è il simbolo drammatico, nonostante questo avvenimento, a
differenza di molti altri, è riuscito nel corso degli ultimi due anni ad
acquisire una rilevanza mediatica senza precedenti. Le roboanti
proteste che paralizzarono il paese per gli ultimi mesi del 2014, e che
nel corso del 2015 portarono la causa di Ayotzinapa in America Latina,
Europa e Stati Uniti grazie a una serie di carovane organizzate dai
famigliari degli studenti scomparsi e appoggiate da organizzazioni
sociali di tutto il mondo, costrinsero infatti in un primo momento il
governo messicano ad accettare la proposta che a condurre le contro
indagini fossero gruppi di esperti internazionali e di periti forensi
argentini.
che al pari delle centinaia di migliaia di omicidi, femminicidi,
episodi di esproprio di terre di popolazioni indigene, e di
iper-sfruttamento nelle maquiladoras (fabbriche frontaliere a
capitale occidentale e manodopera a bassissimo costo tenuta docile dalla
minaccia del narcotraffico) rappresentano la cifra di un Messico, e
un’America Latina, socialmente dilaniato. Fenomeni per i quali, parlare
di impunità suona quasi eufemistico. Il caso di Ayotzinapa, ancora una
volta, ne è il simbolo drammatico, nonostante questo avvenimento, a
differenza di molti altri, è riuscito nel corso degli ultimi due anni ad
acquisire una rilevanza mediatica senza precedenti. Le roboanti
proteste che paralizzarono il paese per gli ultimi mesi del 2014, e che
nel corso del 2015 portarono la causa di Ayotzinapa in America Latina,
Europa e Stati Uniti grazie a una serie di carovane organizzate dai
famigliari degli studenti scomparsi e appoggiate da organizzazioni
sociali di tutto il mondo, costrinsero infatti in un primo momento il
governo messicano ad accettare la proposta che a condurre le contro
indagini fossero gruppi di esperti internazionali e di periti forensi
argentini.
Questi ultimi, tristemente esperti in tema di desaparecidos
proprio a causa della sanguinosa storia della dittatura argentina, hanno
smascherato una per una le versioni che lo Stato ha cercato di portare
avanti, tese a chiudere il caso sancendo la morte dei normalisti e
addebitandola ora a un cartello della droga locale, i Guerreros Unidos,
ora a male marce nei corpi di polizia locale del Guerrero. Tuttavia, i
ripetuti tentativi di insabbiare le prove e la negazione da parte del
governo alle richieste di svolgere indagini all’interno dell’esercito,
la cui presenza la notte di Iguala è ormai accertata, non hanno fatto
che esasperare ulteriormente la società messicana, mentre gli stessi
periti, divenuti ormai scomodi, sono stati licenziati nel marzo di
quest’anno.
È così che oggi, in occasione della
grande manifestazione che ha attraversato Città del Messico, le
richieste di “apparizione in vita” degli studenti e l’impegno ad andare
avanti nella loro ricerca “fino a incontrarli”, assume un sapore di
totale distacco, avversità e opposizione a uno Stato, a un
sistema politico e giudiziario marcio e corrotto. E non potrebbe essere
altrimenti, è infatti di questa settimana la notizia che Luís Fernando
Sotelo, giovane ricercatore universitario aderente alla Sesta
Dichiarazione della Selva Lacandona, è stato condannato a 33 anni di
carcere per fatti relativi a una manifestazione successiva al massacro
di Iguala.
grande manifestazione che ha attraversato Città del Messico, le
richieste di “apparizione in vita” degli studenti e l’impegno ad andare
avanti nella loro ricerca “fino a incontrarli”, assume un sapore di
totale distacco, avversità e opposizione a uno Stato, a un
sistema politico e giudiziario marcio e corrotto. E non potrebbe essere
altrimenti, è infatti di questa settimana la notizia che Luís Fernando
Sotelo, giovane ricercatore universitario aderente alla Sesta
Dichiarazione della Selva Lacandona, è stato condannato a 33 anni di
carcere per fatti relativi a una manifestazione successiva al massacro
di Iguala.
La macchia di sangue aperta ad
Ayotzinapa ha così continuato ad allargarsi a dismisura nel corso di
questi ultimi due anni. Lo ha fatto attraverso un pacchetto di riforme
di sistema marcatamente neoliberali
che porteranno alla progressiva privatizzazione dell’industria
petrolifera nazionale (PEMEX), da ulteriori attacchi speculativi nei
confronti dei territori e dall’implementazione di una riforma educativa
che presenta numerose affinità con la “buona scuola” renziana e il cui
unico vero scopo è la privatizzazione del sistema scolastico e il
controllo della categoria degli insegnanti. La parte combattiva dei
docenti delle scuole primarie e secondarie pubbliche, organizzata nella
corrente sindacale CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la
Educación), con l’appoggio solidale e militante delle comunità del Sud,
hanno bloccato il Paese per tutta l’estate, occupando alcune autostrade e
le piazze di alcune città e portando avanti uno sciopero ad oltranza
che ha impedito la riapertura di molte scuole. La tenacia e la forza del
movimento ha costretto lo Stato a reazioni violentissime, durante una
delle quali, a Nochixtlán nello stato di Oaxaca, sono state assassinate
dodici persone. Tuttora non vi sono colpevoli per la strage.
Ayotzinapa ha così continuato ad allargarsi a dismisura nel corso di
questi ultimi due anni. Lo ha fatto attraverso un pacchetto di riforme
di sistema marcatamente neoliberali
che porteranno alla progressiva privatizzazione dell’industria
petrolifera nazionale (PEMEX), da ulteriori attacchi speculativi nei
confronti dei territori e dall’implementazione di una riforma educativa
che presenta numerose affinità con la “buona scuola” renziana e il cui
unico vero scopo è la privatizzazione del sistema scolastico e il
controllo della categoria degli insegnanti. La parte combattiva dei
docenti delle scuole primarie e secondarie pubbliche, organizzata nella
corrente sindacale CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la
Educación), con l’appoggio solidale e militante delle comunità del Sud,
hanno bloccato il Paese per tutta l’estate, occupando alcune autostrade e
le piazze di alcune città e portando avanti uno sciopero ad oltranza
che ha impedito la riapertura di molte scuole. La tenacia e la forza del
movimento ha costretto lo Stato a reazioni violentissime, durante una
delle quali, a Nochixtlán nello stato di Oaxaca, sono state assassinate
dodici persone. Tuttora non vi sono colpevoli per la strage.
È in questo clima che si è aperta, con
la giornata di oggi, la “settimana della memoria”, che si concluderà con
il corteo del ottobre, giorno in cui si ricorda il massacro di piazza
Tlatelolco, quando nel 1968 il governo diede ordine di sparare sulla
folla uccidendo oltre 300 manifestanti. L’enorme corteo che oggi ha
attraversato le vie della capitale, insieme alle iniziative realizzate
in oltre 100 città del Messico e del mondo nell’ambito della Giornata
Mondiale per Ayotzinapa-24 mesi (#Ayotzinapa243),
ha dunque riportato in piazza la rabbia e l’indignazione non solo per
la tragica notte di Iguala e per i 43 studenti di Ayotzinapa, ma anche
per tutti quei desaparecidos senza nome e tutti i massacri di Stato
rimasti impuniti, gridando a gran voce che in Messico ci sono più di 43
motivi per continuare a lottare. [Ultime due foto del collettivo
“Documentación de Marchas”]
la giornata di oggi, la “settimana della memoria”, che si concluderà con
il corteo del ottobre, giorno in cui si ricorda il massacro di piazza
Tlatelolco, quando nel 1968 il governo diede ordine di sparare sulla
folla uccidendo oltre 300 manifestanti. L’enorme corteo che oggi ha
attraversato le vie della capitale, insieme alle iniziative realizzate
in oltre 100 città del Messico e del mondo nell’ambito della Giornata
Mondiale per Ayotzinapa-24 mesi (#Ayotzinapa243),
ha dunque riportato in piazza la rabbia e l’indignazione non solo per
la tragica notte di Iguala e per i 43 studenti di Ayotzinapa, ma anche
per tutti quei desaparecidos senza nome e tutti i massacri di Stato
rimasti impuniti, gridando a gran voce che in Messico ci sono più di 43
motivi per continuare a lottare. [Ultime due foto del collettivo
“Documentación de Marchas”]
Connessioni
43 poeti per Ayotzinapa e aggiornamenti – Qui Link
Iniziative per i 24 mesi dalla desaparición dei 43 studenti: hashtag #Ayotzinapa243 #AyotzinapaDosAñosSpeciale Ayotzinapa dos años: Desinformémonos
Notte di Iguala video e documenti, timeline: link 1 Link 2
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