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mercoledì 3 luglio 2013

Lucia Uva protesta davanti al tribunale di Milano



La protesta della sorella di Giuseppe al tribunale di Milano. Il video di Acad, associazione contro gli abusi in divisa 
Una maglietta a due facce: da una parte un’immagine di Ruby sorridente, dall’altra il volto di Giuseppe Uva, morto in ospedale il 14 giugno del 2008 dopo che era stato fermato dai carabinieri ubriaco per strada e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. A indossarla è Lucia Uva, sorella di Giuseppe, che sta protestando davanti al Tribunale di Milano perchè, come è scritto sui due lati della maglia, «alla giustizia interessano le Olgettine di Berlusconi», ma «la morte di Giuseppe non interessa alla giustizia».

«Finalmente si sono accorti di me», dice Lucia dopo il flashmob. Una protesta che aveva preannunciato due giorni fa, domenica 30 giugno, mentre sfilava con Ilaria Cucchi e Domenica Ferrulli nell’anniversario dell’omicidio del padre di quest’ultima da parte di quattro agenti che ora sono sotto processo. Quel giorno, prima del corteo, c’è stato un dibattito (promosso anche dal circolo di Zona 4 di Rifondazione comunista) sulla malapolizia e la repressione a cui hanno preso parte attivisti, centri sociali e parenti delle vittime, legali e associazioni come l’Osservatorio repressione e Acad, neonata, che ha l’obiettivo di gestire un numero verde contro gli abusi in divisa. E alcuni dei partecipanti a quella fiaccolata erano con lei anche stamattina. A loro si sono mescolati i passanti curiosi e uomini della digos e dei carabinieri. Poco dopo, Lucia è stata ricevuta dalla segreteria del procuratore capo di Milano. 
Lo scorso 14 giugno, la Corte d’Appello di Milano ha confermato l’assoluzione dello psichiatra Carlo Fraticelli dall’accusa di omicidio colposo in relazione alla morte di Giuseppe Uva, che aveva 43 anni quando incappò in una gazzella dei carabinieri che operò un arresto illegale, stando a quanto sostiene la parte civile. Dopo un passaggio in una caserma della polizia in cui Uva fu sentito urlare di spavento e dolore, l’uomo fu spedito in Tso - anche questo di dubbia legittimità - all’ospedale di Varese dove sarebbe morto. 

Oltre allo psichiatra erano stati assolti, in primo grado, gli altri due medici dell’ospedale di Varese accusati di errori nelle cure e di aver somministrato una dose sbagliata di farmaci a Uva, che era stato ricoverato con trattamento sanitario obbligatorio. Perché il suo non è un caso di malasanità ma di malapolizia. La sorella di Uva, infatti, col presidio davanti al Palazzo di Giustizia di Milano vuole «denunciare», in particolare, che «per tre volte la Procura Generale ha respinto» la richiesta di avocazione delle indagini sulla morte del fratello (presentata dal legale della donna, Fabio Anselmo, lo stesso dei Cucchi, degli Aldrovandi, dei Ferrulli, dei Budroni ecc…). Si deve proprio al pm di Varese, Agostino Abate, la deviazione delle indagini sui medici ignorando il ruolo di chi ebbe in carico Uva prima del Tso, senza accendere i riflettori su quelle ore in balìa di agenti e militari, senza farlo nemmeno dopo che il giudice di primo grado gli aveva rispedito gli atti con la precisa richiesta di fare luce sull’operazione dell’arresto di Giuseppe. «Il pm - afferma Lucia - non ha indagato sui carabinieri e ora tutto sta andando in prescrizione e il paradosso è che sulla morte di mio fratello non ci sono più inchieste nè processi e io sono l’unica indagata per diffamazione nei confronti del pm». E chiarisce: «Noi non vogliamo fare la guerra ai magistrati, vogliamo verità e giustizia, vogliamo sapere perchè un uomo di 43 anni è morto di botte». 

Negli uffici del procuratore capo, la donna s’è sentita rassicurare, ché il processo ci sarà, mancano - appunto - solo le carte che Varese ancora non spedisce. In compenso, la procura della cittadina lombarda ha messo sotto accusa la sorella della vittima e alcuni giornalisti che si sono occupati del caso, tra loro Adriano Chiarelli, autore del docufilm “Nei secoli fedeli". 

«Nel nostro caso le indagini sono andate avanti e ora è in corso un processo agli agenti, noi siamo soddisfatti, ma siamo qua in solidarietà a Lucia», dice Domenica Ferrulli (succede spesso che queste madri e sorelle e figlie si facciano coraggio a vicenda). Ma anche per lei esistono tutte le difficoltà di un processo contro uomini in divisa che godono di forti appoggi istituzionali, che ridono in faccia a sua madre durante le udienze. E che, nell’immediato dei fatti, avevano già mostrato la potenza di fuoco sferrando un attacco alla persona morta. Michele Ferrulli era un’occupante di case per necessità ma fu detto che era un pregiudicato, un violento. Un copione che si replica in tutte le vicende del genere provando a ribaltare i ruoli, a tramutare gli accusati in accusatori e le vittime in carnefici, almeno di sé stessi. 

Per questo Fabio Anselmo ha lanciato la proposta di rompere la solitudine delle vittime anche nelle aule di giustizia. Il 26 settembre, alla prossima udienza del processo Ferrulli, Domenica sarà meno sola. 

E Lucia Uva aggiunge: «Io, Ilaria Cucchi, Domenica Ferrulli e Patrizia Aldrovandi e tante altre siamo tutte una grande famiglia». Giuseppe, conclude, «è stato vittima delle forze dell’ordine e oggi è vittima ancora una volta della giustizia, io andrò in Procura a Roma e a Brescia e tornerò ancora qua, perchè voglio giustizia anche per i cittadini normali». «La nostra solidarietà a Lucia Uva. Chiediamo, come fa lei dal 2008, verità e giustizia sulla morte di Giuseppe, morto dopo essere stato fermato dai carabinieri e portato in una caserma, in un luogo dello Stato - dice Paolo Ferrero, segretario del Prc - vergognoso che la magistratura su questo caso non stia facendo il proprio lavoro e l’accertamento della verità non appare nemmeno all’orizzonte. La magistratura faccia fino in fondo il suo lavoro anche quando è lo Stato che uccide».

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