Negli anni Quaranta Boves
è una cittadina pre montana, in provincia di Cuneo, di circa diecimila
abitanti, dediti per lo più ad un allevamento e all'agricoltura di
sostentamento, che spesso sono costretti ad emigrare, anche solo
stagionalmente. Le guerre, lunghe e faticose, che si sono susseguite,
hanno mietuto numerose vittime: trecento sono i morti tra coloro che
hanno combattuto la prima guerra mondiale, ma altre centinaia di persone
sono morte di fame e di stenti.
Per questo motivo, già
il 16 settembre, un proclama delle nazista firmato dal maggiore delle
Waffen SS Joachim Peiper, comunica alla popolazione che i fuoriusciti
dall'esercito italiano che sono saliti in montagna verranno liquidati
come banditi, e che chiunque dia loro aiuto o asilo sarà ugualmente
perseguito. Lo stesso giorno Peiper si reca a Boves, fa riunire in
piazza tutti gli uomini e minaccia di bruciare il paese se tutti i
soldati datisi alla macchia non si presenteranno.
La mattina di
domenica 19 settembre una Fiat 1100 arriva in Piazza Italia: i due
occupanti sono militari tedeschi. Un gruppo di fuoriusciti dall'esercito
italiano, rifugiatisi per combattere in località San Giacomo, in Val
Colla, è appena arrivato in paese per fare rifornimento di cibo: scorta
la vettura dei tedeschi, li raggiungono, li disarmano e li catturano
senza che questi oppongano resistenza, e li trasportano in Val Colla,
dove i due vengono interrogati in merito alla propria presenza nel
paese. Alle 11.45, nemmeno un'ora dopo la cattura, due grandi
automezzi tedeschi, carichi di militari, arrivano in Piazza Italia: due
SS con bombe a mano distruggono il centralino del telefono sito nei
pressi del municipio, quindi i due automezzi ripartono a tutta velocità
verso il torrente Colla. Giunti nei pressi del borgo di Tetti Sergent i
tedeschi abbandonano i mezzi e proseguono a piedi: sono circa le 12
quando inizia la battaglia con le formazioni partigiane lì stanziate. Il
contrattacco della formazione di Ignazio Vian ha successo, e in meno di
un quarto d'ora le truppe tedesche sono costrette a indietreggiare.
Durante lo scontro restano a terra due persone, il partigiano genovese
Domenico Burlando, e un militare tedesco, il cui corpo viene abbandonato
nel bosco dai suoi. Alle 13 le SS coinvolte nello scontro a fuoco
tornano a Boves, e circa alla stessa ora giunge in Piazza il grosso del
plotone tedesco di Cuneo, comandato dal generale Peiper, che incarica il
parroco di Boves, Don Bernandi, e l'industriale Antonio Vassallo di
andare a trattare con i partigiani per la riconsegna dei due
prigionieri, della Fiat 1100 e della salma del caduto; Peiper assicura
che in caso di successo della trattativa Boves sarà risparmiata, ma si
rifiuta di mettere per iscritto il proprio impegno, asserendo che "la
parola d'onore di un ufficiale tedesco vale gli scritti di tutti gli
italiani". Gli ambasciatori giungono tra i partigiani tra le 14 e le
15 e parlano con il comandante Vian e un'altra decina di persone, che
dopo alcune discussione decidono di riconsegnare i prigionieri, con
tutto il loro equipaggiamento, l'auto, e la salma del caduto tedesco. I
prigionieri, bendati, vengono fatti salire in auto con gli ambasciatori e
riportati in centro a Boves.
Nonostante la riconsegna il
maggiore Peiper dà ordine di iniziare la rappresaglia: piccoli gruppi di
SS sfondano le porte delle case, sparano e uccidono i cittadini che
sono rimasti a Bovese, per la maggior parte anziani, malati e infermi, e
appiccano il fuoco a tutto ciò che trovano sulla loro strada.
Il
bilancio dell'eccidio di Boves, il primo in Italia, è pesantissimo: 350
le abitazioni incendiate, 24 le persone uccise, tra i quali anche i due
ambasciatori don Bernardi e Antonio Vassallo.
I famigliari
delle vittime e l'intera cittadina di Boves non avranno mai giustizia:
nonostante i numerosi tentativi di denuncia, la magistratura tedesca non
prenderà mai in considerazione le richieste della città cuneese. Il
generale Peiper, arrestato alla fine della guerra, verrà inizialmente
condannato all'impiccagione per il massacro di Malmedy, in Francia, in
cui morirono 129 persone, ma la pena verrà commutata in carcere a vita e
sarà scarcerato sulla parola nel 1956; trasferitosi con uno psuedonimo a
Traves, in Francia, verrà infine raggiunto dalla giustizia partigiana
il 13 luglio 1971, durante l'incendio della sua casa, colpita da bombe
moltov.
Pubblichiamo
un comunicato di Zona Ventidue e Laboratorio Sociale Largo Tappia
relativo ad una vile aggressione fascista avvenuta a Lanciano alcuni
giorni fa, commessa da noti esponenti della sezione locale di Casapound.
La nostra solidarietà ad Alessandro ed a tutti coloro che non abbassano
mai la testa di fronte allo squadrismo fascista.
A volte ritornano. Quei “bravi ragazzi” di Casapound.
Come la malerba che non muore mai e
torna ad infestare le strade. Come un germe, un virus che pensi di aver
curato, ma che poi torna a costringerti a letto. Così, dopo mesi di
silenzio, anonimato e dimenticatoio, Casapound Lanciano torna a farsi
sentire nella maniera in cui ci aveva abituato, la peggiore: con la
violenza e la prevaricazione.
Alessandro lo conosciamo bene. E’ uno di
quei ragazzi che decide disinteressatamente di impegnarsi per gli
altri. L’abbiamo visto al nostro fianco nella battaglia contro Ombrina,
nei cortei studenteschi, nelle battaglie per i diritti civili e per la
parità di genere, l’abbiamo visto alle nostre feste, ai nostri eventi, e
nelle quotidiane piccole lotte di ognuno di noi. E’ uno di quelli che
decidono di prendersi una responsabilità anche quando potrebbero
guardare dall’altro lato.
Qualche
giorno fa Alessandro è stato aggredito. Ha riportato un trauma cranico,
una prognosi di dieci giorni, oltre che svariate lesioni ed ecchimosi
al volto. L’hanno picchiato in cinque, senza dargli neanche il tempo di
reagire, colpendolo alle spalle e accanendosi sulla sua faccia e sulla
sua testa con calci, pugni e sputi. Da vili e da codardi. Quando gli
amici di Alessandro sono riusciti a fermarli, lo hanno lasciato a terra,
con la faccia sporca di sangue e il fiato spezzato. E’ successo alla
Stazione Vecchia, in quel momento piena di persone, di ragazzi e
ragazze, che magari hanno visto, e che di sicuro avrebbero potuto fare
qualcosa. In sottofondo c’erano gli spari della nottata di Lanciano.
Forse coprivano il rumore delle grida e delle botte, fatto sta che
Lanciano era con lo sguardo all’in sù e oltre ai due amici, accorti
quasi per caso, Alessandro se l’è dovuta vedere da solo contro cinque.
“Antifascista di merda” è l’ultima cosa che si è sentito dire.
Quelli
che l’hanno picchiato sono esponenti di Casapound Lanciano, quelli che
si sono candidati alle elezioni comunali nella coalizione democristiana
di Tonia Paolucci, quelli che solo nell’ultimo anno: hanno picchiato un
minorenne ad una festa d’istituto, hanno minacciato e circondato in
venti la casa dove un nostro compagno di Zona Ventidue abitava con la
compagna; quelli la cui reputazione si basa sulla violenza, sul timore
che ne consegue, e sull’omertà che li nasconde. Alessandro però li ha
riconosciuti, e alla fine ha deciso di denunciarli.
Pubblichiamo questa storia per due motivi:
il primo è che ci siamo stancati ogni
volta di dover ricordare alla comunità, ma soprattutto agli
amministratori, che razza di pericolo rappresenti Casapound. Li abbiamo
smascherati quando fingevano di essersi rabboniti, abbiamo dimostrato
quanto la loro idea politica fosse nociva oltre che idiota, abbiamo
cercato di informarvi, spiegando che hanno gli stessi comportamenti
squadristi in ogni contesto, in ogni Città, e che quelle che vediamo a
Lanciano sono pratiche che si ripetono sistematicamente ovunque ci sia
una sede di Casapound; l’abbiamo fatto facendo cultura, con il mese
della Resistenza, con la rimozione dei fasci littori dal Teatro e con
tanti altri eventi; l’abbiamo fatto facendo politica, portando avanti
un’idea antifascista, antirazzista ed antisessista di società, e
arrivando a proporre all’amministrazione una delibera in cui si vietasse
l’occupazione di spazi pubblici alle organizzazione neofasciste a
Lanciano. Torniamo a rinnovare questo invito all’amministrazione,
affinche alle chiacchiere seguano i fatti.
Speriamo che questa sia la volta buona per essere ascoltati.
Il secondo motivo è che troppe volte
violenze come questa sono rimaste nascoste e impunite. Troppe storie
abbiamo sentito senza poter reagire perchè chi era vittima aveva paura
di diventarlo di nuovo. Troppe volte non abbiamo agito perchè ci hanno
chiesto, per timore, di non farlo.
La scelta di Alessandro è una scelta coraggiosa che speriamo possa
essere di esempio e di avvertimento per altri ragazzi e ragazze che
hanno subito o stanno subendo ma hanno paura di reagire. Perchè il
prossimo a doversi difendere da solo contro cinque, sappia che alle
spalle ha una comunità forte e coesa che non ha paura di rispondere.
Perchè alla fine, non ci siano più violenze e violenti.
È il 5 settembre del 1974 quando per Roma e dintorni inizia a girare una notizia tanto allarmante quanto inaspettata: stanno sgomberando a San Basilio! Chi, rispondendo all’appello, si precipita nel quartiere trova uno scenario da guerra civile. Come vere truppe d’occupazione, le forze dell’ordine hanno invaso la storica borgata romana ma, dopo aver allontanato una prima volta gli occupanti dalle proprie case, non possono impedire una nuova occupazione degli appartamenti la sera stessa. Il Comitato di Lotta per la Casa, insieme a un fronte sempre più ampio di sodali, rinforza la difesa, ma il 6 la storia si ripete: La polizia arriva la mattina in forze per effettuare lo sgombero in via Montecarotto, ma trova una resistenza organizzata all’innesto della via Tiburtina con via del Casale di San Basilio, dove nella notte era stata alzata una barricata. Iniziano gli scontri con lanci di lacrimogeni e ripetute cariche a cui i manifestanti rispondono con un fitto lancio di molotov e sassi. La polizia comunque riesce a transitare da via Nomentana, circonda le case e inizia un fitto lancio di lacrimogeni sparati anche sui balconi e si fa largo a colpi di manganello: una bambina di 12 anni rimane ferita. In alcuni appartamenti si verificano focolai di incendio (Massimo Sestili, “Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974”, in “Historia Magistra” n.1, 2009).
Le case sgomberate, in ogni caso, vengono nuovamente occupate nella stessa giornata. E proprio grazie alla determinazione di chi resiste, il 7, sabato, si respira aria di tregua, con gli avvocati di Movimento che riescono anche a recarsi in Prefettura per cercare di far ritirare l’ordinanza di sgombero. Potrebbe sembrare tutto finito, eppure è proprio la domenica il giorno atteso dalla polizia per sferrare l’attacco più feroce. Alle otto riprendono le operazioni di sgombero, ma non trova persone disponibili ad abbandonare ciò che hanno conquistato senza lottare. Intorno alle 17, addirittura, una donna di 24 anni imbraccia un fucile da caccia e, dalla finestra di casa, spara contro i poliziotti, ferendo un vicequestore. Alle 18, l’assemblea popolare riunita per cercare di capire il da farsi viene attaccata con i lacrimogeni: la reazione della folla è compatta e la celere, lanciata alla carica, perde la testa insieme alle sue posizioni. È la guerra: il popolo da una parte, le forze dell’ordine dall’altra. Il quartiere è isolato, i pali della luce divelti, qualunque cosa utile a essere lanciata viene utilizzata allo scopo e i mezzi di trasporto, parcheggiati per provvedere alla deportazione degli sgombrati, vengono dati alle fiamme. Le armi da fuoco, è vero, non sono soltanto appannaggio della polizia. Ma su questo versante, ovviamente, gli occupanti non possono competere con chi indossa la divisa. Si supplisce con il cuore e con la solidarietà. Le barricate chiamano e Roma risponde. La polizia, però, continua a sparare. Proiettili come se piovesse in via Fiuminata dove, a essere colpito al petto da una pallottola calibro 7,65, è un ragazzo con il casco rosso.
Quel ragazzo ha appena diciannove anni. Vive a Tivoli, dove milita nel Comitato proletario, un organismo di Autonomia Operaia. Suo padre fa il netturbino, la mamma è casalinga. Lui, dopo gli studi alla scuola alberghiera, aveva lavorato in diversi bar e ristoranti prima di provare a trasferirsi in Francia. Tornato in Italia, ci sarebbe stata una buona notizia ad aspettare la sua famiglia. Dopo una lunga attesa, finalmente era arrivata l’assegnazione di una casa popolare a Villa Adriana. Quell’8 settembre, prima di correre a San Basilio per difendere le case occupate, aveva aiutato con il trasloco… alle 19 e 15 circa si ritrova su un taxi, impegnato in una corsa disperato verso il Policlinico. Quando il mezzo arriva a destinazione è troppo tardi. Il ragazzo con il casco rosso è morto: si chiamava Fabrizio Ceruso; «per loro non eri nessuno», dice A Fabrizio Ceruso, una delle canzoni anonimamente dedicate al ragazzo di Tivoli: Soltanto 19 anni per loro non eri nessuno / soltanto 19 anni e per loro non eri che uno / uno come tanti, un cameriere, un garzone d’officina / un operaio, un disoccupato un emigrante…
Nemmeno la data dell’omicidio di Fabrizio sembra frutto del «caso». L’8 settembre del 1943, con l’esercito italiano allo sbando, era stata la milizia popolare a tentare la resistenza contro i nazisti. A Tiburtino III, non lontano da San Basilio, la memoria del cadavere della popolana Caterina Martinelli, ammazzata dalle SS mentre con altre donne del quartiere assaltava un forno nel vano tentativo di conquistarsi il pane con cui sfamare la famiglia, riallaccia il legame con gli ideali di una Resistenza che, trasformata in lotta per la casa, significa davvero giustizia e libertà. E se Caterina Martinelli era diventata la martire della lotta contro la fame, dopo l’8 settembre del 1974 Fabrizio vive in ogni casa che viene occupata.
*
Accettare, come effettivamente è avvenuto nelle aule dei tribunali, che la morte di Fabrizio Ceruso resti archiviata con un non luogo a procedere «essendo ignoti gli autori del reato» non significa solo trascurare le numerose testimonianze che individuano in un poliziotto che si inginocchia ed esplode quattro colpi l’autore del gesto. Significa, in una situazione di estrema gravità, provare a dimenticare la situazione repressiva vissuta dall’Italia nel corso del 1974: l’anno della strage di Brescia (28 maggio; 8 morti e 102 feriti) e del treno Italicus (4 agosto; 12 morti e 45 feriti); ma anche l’anno in cui la rivolta scoppiata nel carcere di Alessandria (9 maggio; 5 morti tra detenuti e ostaggi) viene soffocata nel sangue dall’assalto deciso e diretto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il tentativo di sgombero di San Basilio, in un simile clima, è un altro capitolo della strategia della tensione e, inaugurando la futura «linea della fermezza» adottata nella repressione dei fenomeni d’insorgenza sociale, segna la scelta di attaccare deliberatamente un movimento in crescita come quello della lotta per la casa nel tentativo di stroncarlo, impedendo all’autorganizzazione di diffondersi, alle famiglie coinvolte di predisporre una resistenza efficace e alle occupazioni abitative di moltiplicarsi. Analizzato in questi termini, il tentativo fallisce. Al contrario, a San Basilio fu proprio nel momento in cui il quartiere apprese dell’assassinio di Ceruso che la lotta si trasformò in una battaglia autenticamente popolare, senza distinzione alcuna tra occupanti e assegnatari. E, come recita Rivolta di classe, un’altra canzone popolare dedicata alla battaglia di San Basilio, «la casa si prende, la casa si difende» continuerà a essere lo slogan di qualunque episodio di riappropriazione: La casa compagni si prende / l’abbiam gridato tante volte / e dopo la si difende / da padroni e polizia…
Le case, dunque, saranno occupate ancora, i diritti rivendicati, le conquiste sociali difese: «Sarebbe sbagliato», si scrisse allora, «“mitizzare” lo scontro di S. Basilio in quanto ancora episodio (anche se tra i più belli e i più profondamente radicati nella coscienza di classe) e non già acquisizione permanente di quel comportamento da parte del movimento per la casa». Un’affermazione, proveniente dall’area dell’Autonomia Operaia, con cui si sottolineava come, partendo dall’abitare, fosse inevitabile arrivare allo scontro con strutture di potere disposte a tutto pur di non cedere un centimetro del proprio interesse alla classe contrapposta. E in effetti, ad appena un giorno di distanza dalla morte di Ceruso e dopo che, inferocita per l’omicidio del ragazzo di Tivoli, tutta San Basilio si era scagliata contro la polizia ingaggiando una guerriglia lotto per lotto, la Regione Lazio si decideva a riconoscere il diritto alla casa popolare a chiunque, vantando i necessari requisiti, avesse occupato un alloggio prima dell’8 settembre del 1974. Per molti palazzinari simili provvedimenti rappresentavano – e rappresentano – un danno concreto. Il rischio di una perdita economica nel nome della quale si potrebbe tranquillamente tornare ad ammazzare ancora.
(Tratto da “La Scintilla. Dalla Valle alla Metropoli, una storia della lotta per la casa”)
BIBLIOGRAFIA:
Cristiano Armati, Cuori rossi, Newton Compton, Roma, 2006. Massimo Carlotto, San Basilio, in In ordine pubblico, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005 Raimondo Catanzaro – Luigi Manconi, Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1985. Gian-Giacomo Fusco, Ai margini di Roma capitale. Lo sviluppo storico delle periferie: San Basilio come caso di studio, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2013. Ubaldo Gervasoni, San Basilio: nascita, lotte e declino di una borgata romana, Edizioni delle Autonomie, Roma, 1986. Sandro Padula, San Basilio, 8 settembre 1974: Fabrizio Ceruso e la lotta per il diritto alla casa, in «Baruda.net», 8 settembre 2014. Massimo Sestili, Sotto un cielo di piombo. La lotta per la casa in una borgata romana. San Basilio settembre 1974, in «Historia Magistra», n.1, 2009. Pierluigi Zavaroni, Caduti e memoria nella lotta politica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Carocci, Roma, 2010. A cura di «Progetto San Basilio – Storie de Roma» è in corso di preparazione un film documentario sui fatti del settembre 1974 intitolato La battaglia – San Basilio 1974 da http://www.armati.info/8-settembre-1974-fabrizio-ceruso-e-la-battaglia-di-san-basilio
Venerdì 8/9:
h.9 Un fiore per Fabrizio alla lapide di via Fiuminata
h.11:30 Un fiore per Fabrizio alla lapide di piazza Santa Croce (Tivoli)
h. 17 Corteo cittadino sulla Tiburtina – Partenza da stazione metro Rebibbia
Sabato 9/9
Largo Arquata del Tronto (San Basilio)
dalle 17 Sport popolare
dalle 19 Assemblea pubblica sul diritto all’abitare a Roma
dalle 20 cena popolare
dalle 21:30 concerto con:
Skasso (Fusion Ska)
Ardecore (Folk – Alternative Rock) www.progettosanbasilio.org progettosanbasilio@inventati.org
Fb: San Basilio, storie de Roma
Durante le giornate saranno disponibili le copie fisiche del docu-film autoprodotto “San Basilio, storie de Roma”
Link al trailer: https://www.youtube.com/watch?v=vikXxZQD94Y
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L’8 Settembre di quest’anno ricorrerà il 43° anniversario della morte di Fabrizio Ceruso, 19enne di Tivoli ucciso nel 1974 a San Basilio durante lo sgombero di alcune palazzine occupate nel quartiere.
Lo sfruttamento dei territori e dei quartieri segue un filo che da allora arriva ad oggi, dove in nome dei profitti di pochi si continuano a sfruttare coloro che combattono quotidianamente per la sopravvivenza. Il quadrante della Tiburtina, in particolare, negli ultimi tempi è stato notevolmente attenzionato sia dalle amministrazioni che dalle compagini di estrema destra. Attacco ai quartieri ed alle case popolari, migranti, chiusura degli spazi di socialità e cultura slegati dal consumo, decine di casinò e sale slot, magazzini della logistica, numerosi stabili industriali abbandonati costituiscono un’ amalgama esplosiva che ha determinato il costante incremento di attenzioni da parte di tutte le forze politiche e delle istituzioni. Problemi che continuano ad essere affrontati unicamente come questioni di ordine pubblico, perpetrando uno stato d’emergenza funzionale unicamente alla speculazione economica e politica. Soffiare sul fuoco della guerra tra poveri è ormai il meccanismo abituale per sviare l’attenzione dai veri responsabili del disagio quotidiano nelle periferie e offrire sponda alle organizzazioni neofasciste nei quartieri popolari. La nuova giunta pentastellata, lungi dal porsi in discontinuità con le amministrazioni precedenti, si sta dimostrando sorda verso le istanze che provengono dal basso, in linea con le politiche securitarie del governo nazionale, e propensa a strizzare l’occhio alle compagini neofasciste, come più volte dimostrato nel quadrante tiburtino come in tutta la città.
Un contesto in cui diventa fondamentale un intervento quotidiano nei quartieri che abbia l’umiltà di saper ascoltare e la capacità di poter agire. In questo senso, senza dubbio il lavoro di memoria storica che abbiamo sviluppato nel corso di questi anni, culminato con la produzione del documentario sulla storia di San Basilio e la battaglia del 1974, ci ha fornito delle utili chiavi di lettura del presente e delle sue contraddizioni. Riattualizzare dunque la memoria di Ceruso, ed in generale di tutti i compagni e le compagne scomparsi, non come liturgia, bensì come interpretazione del presente e megafono delle istanze sociali del territorio.
Come 43 anni fa, ancora oggi molte persone decidono di alzare la testa e di riprendersi ciò che viene sottratto in nome della rendita, della speculazione e dei profitti. Il territorio tiburtino, negli ultimi anni, di fronte a una costante crescita di attacchi da parte di amministrazioni e neofascisti, ha più volte dimostrato la volontà di non abbassare la testa. Quest’anno vorremmo continuare nella stessa direzione tracciata nella scorsa mobilitazione, continuando ad allargare la partecipazione e a fissare le date di settembre come un appuntamento in cui coinvolgere tutta la città. Le giornate in memoria di Fabrizio saranno la prima occasione in cui scendere in piazza dopo un’estate rovente, in cui il Governo, la giunta comunale e la questura hanno dimostrato, con gli sgomberi di Cinecittà e Piazza Indipendenza, quale sia l’unico piano politico per il futuro delle istanze sociali: l’uso della forza . La sfida della due giorni sarà costituire un primo momento in cui uscire dall’angolo dove i gruppi di potere della città stanno tentando di mettere coloro che lottano per un mondo diverso.
Un’importante opportunità per dare un segnale forte e unitario tenendo insieme le criticità della Tiburtina e di tutta la città, dalla sanatoria regionale per le case popolari alla delibera regionale per l’emergenza abitativa, dagli sgomberi forzati dei migranti ai tentativi di infiltrazione delle organizzazioni neofasciste, dalla riconversione degli edifici abbandonati alla lotta alla cementificazione, dall’attacco agli spazi sociali alle lotte nel mondo del lavoro.
San Basilio, storie de Roma Nodo Territoriale Tiburtina
E’ la sera del 23 Febbraio 1986. Luca Rossi
e Dario, giovani militanti di Democrazia Proletaria e studenti
universitari non ancora ventenni, stanno correndo per prendere la
filovia in Piazzale Lugano, quartiere Bovisa di Milano. In un altro
punto della stessa piazza, alcune persone discutono prima con calma e
poi sempre più animatamente e scoppia una rissa. Una delle persone
coinvolte è un agente fuori servizio in forza alla Digos, conosciuto in zona come un tipo arrogante e un po’ “balordo”, quasi sicuramente
(quasi perche’ nessuno al processo ha avuto il coraggio, o la
possibilita’ di testimoniarlo) era li’ in quel luogo o a prendere una
“mazzetta” o comunque in combutta con gli spacciatori della zona..
La rissa è un susseguirsi di pestaggi e discussioni e dopo oltre quindici
minuti finisce senza che l’agente chiami rinforzi. Due delle persone
coinvolte fuggono in auto ed il poliziotto incapace di affrontare la
situazione con la ragione e l’autorità richieste, estrae la sua pistola
d’ordinanza ed in posizione di tiro, facendo arbitrariamente e
illegittimamente uso delle armi, spara ad altezza d’uomo per colpire i
fuggitivi. Uno dei proiettili ferisce a morte Luca che si trovava a
passare per caso in quel luogo e in quel momento.
Ma non è un “caso” che consente al poliziotto di sparare. E’ una legge, la cosiddetta “Legge Reale”che conta al suo attivo negli anni decine e decine di vittime “per sbaglio”. La successiva sentenza definitiva, che chiude il processo
voluto dai familiari per ricerca di verità e giustizia e non certo per
vendetta, riconosce l’agente colpevole di omicidio colposo aggravato.
Diversamente da quella dei tanti uccisi
dalla legge Reale, la morte di Luca non fu però inghiottita dal buio: da
quel giorno, amici, parenti e compagni convennero al risoluto impegno
di contrastare l’osceno silenzio attorno alla schiera dei sommersi nel
nome della legge. Tra i risultati che ne vennero, vi fu la redazione di 625, libro bianco sulla legge Reale. Materiali sulle politiche di repressione e controllo sociale dato alle stampe nel 1990 a cura del Centro d’Iniziativa Luca Rossi
Le tappe processuali
1989 – Processo di 1° grado
L’agente Policino viene rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario ma il
processo si chiude il 7 Aprile con una sentenza di condanna a 8 mesi per
omicidio colposo accidentale.
Manifestazioni di piazza e generale indignazione per la sentenza. Viene promossa una raccolta di firme
perchè la Procura Generale impugni la sentenza.
Maggio 1989
La Procura Generale ricorre contro la sentenza.
1990 – Processo d’Appello
Il 27 febbraio il poliziotto Policino viene condannato a 2 anni per omicidio colposo aggravato. Nel 1991 la Cassazione ratifica la condanna.