di Cecilia Dalla Negra e Marco Di Donato
Incontro con Lina Ben Mhenni, la "tunisian girl" che attraverso il web ha raccontato la rivolta contro il regime di Ben Ali. Che racconta di una transizione ancora incerta, tra nostalgie per il passato e la pioggia di soldi che arrivano dal Golfo per "garantirsi il monopolio del paese".
Nel panorama tunisino, Lina Ben Mhenni ormai è un nome. Un volto noto, una firma conosciuta: quella del blog "A Tunisian Girl" che ha raccontato i giorni caldi della rivolta contro il regime di Ben Ali. Oggi, a distanza di due anni, si dice preoccupata dal presente e spaventata per il futuro del suo paese. Osservatorio Iraq la incontra a Firenze, durante il Forum dei Giornalisti del Mediterraneo. Con lei parliamo di Tunisia, tra preoccupanti nostalgie per il passato, movimenti salafiti emergenti, "blogger di Stato" e femminismo.
E di soldi: quelli del Qatar e dei paesi del Golfo "che ci stanno comprando per imporre la loro visione oscurantista sul paese", spiega.
Nel corso del tuo intervento hai fatto riferimento ai finanziamenti da parte dei paesi del Golfo, che starebbero arrivando in gran quantità in Tunisia, come in altri contesti post-rivoluzionari.
Dopo la caduta del regime di Ben Ali la presenza dei paesi del Golfo – e più specificamente del Qatar – si è fatta sentire. Ricordo bene che, in occasione del primo anniversario della rivoluzione il 14 gennaio, ci fu un grande congresso a Tunisi per ospitare personalità in visita dal Qatar, come se queste avessero sostenuto la nostra sollevazione.
Durante la campagna elettorale, poi, abbiamo visto i partiti islamisti godere di grandi somme e finanziamenti che, secondo alcune fonti, provenivano proprio dal Qatar. Influenze che si riscontrano, negli ultimi mesi, nell’emergere di moltissime associazioni assistenziali, che sostengono di lavorare per il paese aiutando le fasce sociali più disagiate: l’opinione pubblica è spesso concentrata intorno ai finanziamenti che ricevono, quale sia la provenienza di queste realtà e chi ci sia dietro.
Per quanto mi riguarda dubito che l’aiuto che forniscono sia davvero disinteressato, e che non finirà per avere conseguenze per noi.
Non va dimenticato poi il ruolo dei grandi media come Al Jazeera, che in seguito alla rivoluzione ha guadagnato grande credibilità per aver dato copertura a quanto stava accadendo in Tunisia. Oggi sappiamo quale sia il loro ruolo: manipolare degli eventi.
Quando, ad esempio, a manifestare sono i giovani appartenenti ai partiti al potere, cercano di mostrare l’alta partecipazione e il consenso per le loro mobilitazioni. Al contrario, se ci sono episodi di dissidenza rispetto all’operato del governo, il tentativo è di minimizzarle e sminuirle.
Con quale fine?
Per me è evidente che le potenze del Golfo stanno cercando di imporre anche in Tunisia un modello retrogrado e oscurantista. I flussi monetari che arrivano sono destinati a finanziare progetti che gli permettano in futuro di avere il monopolio sul paese (il Qatar è diventato il maggior azionista della compagnia telefonica Tunisiana, ndr).
Non ho visto il Qatar né altri investire in progetti concreti per risolvere il problema della disoccupazione – ancora così presente – né per la costruzione di scuole o università. I soldi non vanno in questa direzione: sono investiti per controllarci e far passare la loro agenda politica.
Quanto queste operazioni stanno avendo impatto sulla società tunisina?
Sfortunatamente la nostra è una società che ha ancora caratteristiche molto conservatrici, e nella mente di alcuni il concetto stesso di 'laicità' e 'stato civile' resta legato alla retorica della dittatura: sia Bourguiba che Ben Ali hanno imposto questo tipo di modello.
Anche per questo nelle elezioni post-rivoluzione ha avuto il suo peso quello che potremmo definire un fattore “sentimentale”: dare fiducia agli islamisti voleva dire rompere definitivamente con il regime e il suo immaginario. Molti giovani hanno cercato in loro un’alternativa.
Ma quando sono andati al potere hanno reso manifesta la propria visione, tentando di imporla a tutta la società. Se ci stanno riuscendo è anche grazie ai soldi che arrivano dal Golfo.
Alla luce di questa situazione, e dopo due anni dalla Rivoluzione, qual è oggi il tuo ruolo come blogger e attivista?
Continua ad essere lo stesso che avevo prima della caduta di Ben Ali: cerco di parlare dei problemi del paese, documentarmi su quanto accade, condividere le informazioni con i miei contatti. Viaggio, osservo, cerco di parlare molto anche con i media internazionali per descrivere quello che succede in Tunisia.
Rispetto al passato però come blogger siamo meno compatti e uniti: prima lavoravamo e rischiavamo insieme. Oggi, al contrario, alcuni hanno preferito avvicinarsi ai partiti politici o creare associazioni. Io, personalmente, continuo a comportarmi sempre nello stesso modo.
Possiamo parlare oggi dell’esistenza di "blogger di Stato"?
Sfortunatamente sì: esistevano anche prima, sotto il regime, ma non erano aggressivi come lo sono oggi. È importante poi sottolineare che prima della caduta di Ben Ali, e durante i giorni della rivoluzione, noi blogger siamo stati estremamente mediatizzati: la maggior parte dei giovani oggi si auto-definisce tale, ma nella maggioranza dei casi si tratta di amministratori di pagine Facebook che non sanno neanche scrivere correttamente una frase in arabo.
Lavorano sulla base di 'rumors' e pettegolezzi, creando campagne di diffamazione contro gli attivisti, i dissidenti, i difensori dei diritti umani. Generalmente sono ben pagati e non interpretano il ‘blogging’ come una passione, al contrario di noi, ma come un vero e proprio lavoro.
Ed esiste una sorta di 'guerra' tra blogger?
Assolutamente. La differenza sostanziale è che, per quanto ci riguarda, lavoriamo seguendo un’etica molto chiara. Verifichiamo le informazioni, incrociamo le fonti e, personalmente, non condivido alcuna notizia di cui non sia assolutamente certa. Se succede qualcosa vado sul posto e racconto quello che osservo.
Purtroppo invece questi ‘blogger di Stato’ sono strumentali alla propaganda, non alla verità. E oggi sono diventati molto più forti di noi, perché sono ‘arruolati’ e pagati.
Esiste una dinamica simile nella compagine femminista, di scontro interno tra donne laiche e islamiste?
Prima della caduta del regime la componente più attiva e conosciuta era quella che faceva capo al femminismo laico dell’Association des Femmes Democrates Tunisiennes (AFDT): le sue militanti sono state controllate e perseguitate durante gli anni di Ben Ali.
Oggi vediamo l’apparizione di associazioni cosiddette 'femministe' che fanno riferimento alla compagine islamista. Io non le considero tali, non credo che femminismo e islamismo siano in alcun modo conciliabili. E non considero il loro lavoro come uno sforzo per cercare di migliorare la condizione delle donne in Tunisia.
Ho seguito alcuni loro incontri e congressi, ma il dibattito è tutto concentrato sulla necessità del velo, sulla non-mescolanza tra sessi nelle scuole, sulla critica necessaria al laicismo in cui non mancano accenni violenti. Anche in questo caso si tratta di realtà che hanno mezzi di sostentamento che noi, al contrario, non abbiamo.
Quanto è difficile oggi per te lavorare e continuare a descrivere quello che accade nel tuo paese?
Ormai la maggior parte dei tunisini mi riconosce ed è diventato davvero complicato. Ci sono state molte campagne diffamatorie nei miei confronti, le minacce sono una realtà quotidiana. Anche i miei articoli sono presi di mira e ridicolizzati: vengo descritta come miscredente, stupida, un’agente al soldo di quasi tutti i servizi segreti del mondo. Purtroppo ci sono persone che finiscono per crederci.
Minacce di morte e aggressioni fisiche da parte della polizia poi, per me come per altri attivisti, sono all’ordine del giorno. Sotto questo punto di vista, rispetto al passato la situazione sembra peggiorata.
Prima era chiaro chi fosse il nostro nemico: la polizia, le forze dell’ordine, l’apparato di sicurezza agli ordini del regime. Oggi non è più così, non sappiamo da dove possa arrivare il pericolo. Si può essere attaccati praticamente da chiunque.
Abbiamo parlato del passato e del presente della Tunisia. Cosa ti aspetti per il futuro?
Anticipare quello che accadrà è difficile. Posso però dire che la situazione è davvero critica, e rischiamo di assistere all’esplosione di una guerra civile. Basti pensare alle tensioni e agli scontri per la decisione da parte degli islamisti di Ansar Al-Sharia di organizzare, senza autorizzazione, il loro congresso a Keirouan. Il ministero dell’Interno glielo ha vietato, e loro hanno cercato ugualmente la prova di forza.
E il dittatore? Che fine ha fatto Ben Ali?
L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di lui era in Arabia Saudita. Non ne abbiamo più avuto notizia.
E non ne avete nostalgia...
Per quanto mi riguarda no, nel modo più assoluto. Purtroppo però in Tunisia inizia ad essercene, e molta. Ben Ali aveva imposto un regime di polizia con cui teneva sotto controllo la sicurezza interna. I giovani oggi guardano a quanto sta accadendo - ai disordini, ai feriti, all’instabilità generale - e hanno paura che la situazione possa degenerare. Anche sul piano economico le condizioni sono sempre più gravi e la vita diventa ogni giorno più costosa e difficile. Molti - non tutti ovviamente – rimpiangono la stabilità che garantiva il regime.
Io credo che non sia questa la nostra prospettiva: Ben Ali è fuggito come era giusto che fosse. Adesso dobbiamo lavorare per costruire un paese migliore e sostituire coloro che ci governano perché, a prescindere da altre valutazioni, sono davvero incompetenti.
Non è una questione legata solo alle ideologie o al diverso concetto di ‘libertà’. Anche sul piano organizzativo ed economico, non sono davvero in grado di gestire un paese.
Tunisia. Tra nostalgia e soldi del Golfo: intervista a Lina Ben Mhenni:
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