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mercoledì 16 marzo 2016

Davide Dax Cesare ucciso dai fascisti 16 marzo 2003







Davide “Dax” Cesare, giovane militante dell’O.R.So (Officina di Resistenza Sociale) viene uscciso in un agguato fascista.
Nella notte tra il 16 e 17 marzo 2003, verso le 23,00 in via Brioschi, a Milano, zona Navigli, tre ragazzi escono da un pub, il “Tipota“,
uno dei tanti locali frequentati dai giovani che popolano la
quotidianità di questa fetta di metropoli; ad aspettarli fuori un
gruppetto di neofascisti, il padre e i due figli, armati di coltelli,
sono Federico, Mattia e Giorgio Morbi (28, 17 e 54 anni
all’epoca del fatto), elementi già conosciuti dai compagni del
quartiere. L’aggressione si rivela violenta e veloce, ma soprattutto
premeditata, nel tipico stile mafioso con cui sono soliti rispondere a
quelle che ritengono “offese all’onore”: quelle di chi da sempre lavora
contro razzismo e ignoranza, quelle di chi si oppone in prima persona al ritorno di ideologie che su questi sentimenti pongono le loro basi. Alla fine Davide Cesare, “Dax”, rimane a terra, riceve dieci coltellate:
colpito alla gola, alla schiena e in altri punti vitali, cade al suolo.
Anche una volta a terra, continuano ad infierire su di lui. Vicino a
Dax, c’è Alex, che viene accoltellato otto volte alla schiena. Anche lui
rimane a terra. Un terzo ragazzo, Fabio, è ferito. Tutto si svolge in
pochi secondi e dopo aver colpito vigliaccamente, i tre aggressori si
dileguano.
Partono le chiamate e
dopo poco arrivano anche polizia e carabinieri, che bloccano le strette
stradine di via Broschi con le auto di pattuglia, (come testimoniato
dai video reperibili facilmente in rete) contribuendo così al ritardo
delle ambulanze, bloccate nel traffico, mentre i ragazzi feriti restano a
terra. Segue la corsa all’ospedale San Paolo. Sulla
prima ambulanza viene caricato Dax, dopo qualche minuto anche Alex viene
trasportato al Policlinico. Operato d’urgenza ai polmoni, si salva per
miracolo, Dax non ce la farà, morirà dissanguato prima di arrivare in ospedale.
Nel frattempo tra i compagni partono
le telefonate per raggiungere i loro amici in ospedale, già presidiato
dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Una ventina di ragazzi
si raduna all’interno del pronto soccorso aspettando notizie. Poi
l’annuncio: Dax non ce l’ha fatta. La rabbia, il
dolore, l’amarezza per quanto accaduto si fa palpabile. Nel frattempo si
moltiplica, dentro e fuori al pronto soccorso, la presenza delle forze
dell’ordine. La tensione è altissima.
Le forze dell’ordine, che fino ad
allora avevano presidiato l’ospedale, fanno partire una violenta carica,
il questore di allora Vincenzo Boncoraglio cercherà di
giustificare il pestaggio affermando che la carica fu fatta “per
riportare la calma tra i giovani che sia pur in un momento di dolore
hanno occupato il pronto soccorso”. Come riportano le testimonianze dei
presenti “sono lunghi minuti di pura violenza poliziesca, durante i
quali gli agenti, con manganelli, calci, pugni e mazze da baseball, si
accaniscono sui ragazzi, spaccando teste, nasi, denti, braccia.
Pestaggi, ragazzi immobilizzati a terra, ammanettati, sanguinanti“
trascinati nelle auto dei carabinieri.
I
medici e gli infermieri si mobilitano per soccorrere i feriti,
increduli e attoniti di fronte a questa ferocia. A farne le spese oltre
ai ragazzi anche i cittadini che si trovavano al momento all’interno
dell’edificio. Il professor Marco De Monti, chirurgo vascolare, era di guardia al Pronto Soccorso. Con lui, l’infermiere professionale Alfredo Cavasin: «Io
ero qui dentro, impegnato nel disperato tentativo di vedere se ci fosse
ancora qualcosa da fare per quel giovane, che l’équipe dell’auto medica
aveva intubato sul luogo del ferimento. Ma purtroppo era già morto
quando è arrivato. Presentava una profonda ferita sulla destra del
collo, appena sotto la nuca, un altro colpo di arma da taglio al torace,
e numerose coltellate alla schiena.  Non ho visto cosa succedeva fuori.
Posso soltanto dire che ho sentito urla e rumori che provenivano dal
viale d’accesso al Pronto Soccorso, poi altre urla più vicine, e i
rumori di un grosso tafferuglio
». Dopo aver tentato inutilmente di rianimare Davide Cesare, hanno curato il ferito portato in ambulanza («Una coltellata a livello del rene destro, ma l’ecografia ci ha dimostrato che era superficiale, e abbiamo potuto dimetterlo»). Poi è iniziato l’incredibile. Raccontano: «Invocando
aiuto, hanno cominciato ad entrare dall’atrio persone insanguinate. Era
sangue fresco, botte appena prese. Abbiamo medicato sette giovani, e un
vigilante dell’ ospedale. C’erano due giovani con il naso rotto. Uno è
stato ricoverato, per essere operato in chirurgia maxillo-facciale
».
Gli abitanti delle vicine case di via San Vigilio sono abituati alle sirene delle ambulanze e delle forze dell’ordine. «Ma questa volta erano tante, troppe.
Ci siamo affacciati e abbiamo contato non meno di una trentina di
automezzi, tra polizia e carabinieri. C’era un fuggi-fuggi, con una
settantina di persone che scappavano e agenti che le inseguivano
». L’obiettivo è chiaro: reprimere preventivamente le possibili risposte collettive all’omicidio fascista. «È stata una mattanza», racconta qualcuno. Perché i giovani
sarebbero stati manganellati con i calci dei fucili, gettati in terra,
malmenati. La verità avrebbero potuto dirla le telecamere a circuito
chiuso, ma non erano in funzione. E c’erano gli altri pazienti (tra cui
una ragazzina), spaventatissimi. Con grande professionalità, medici e
infermieri li hanno rassicurati, spostandoli nell’area pediatrica. Al
118 è stato segnalato che il Pronto Soccorso veniva chiuso per tutta la
notte. Ma molte altre sono le testimonianze, come il comunicato dell’USI
SANITA del 17 marzo 2003 sui tragici fatti della notte del 16 marzo e
sui pestaggi effettuati dalle forze dell’ordine all’interno del pronto
soccorso dell’ospedale San Paolo.
I giorni successivi si mette in moto la macchina della disinformazione. Questura e giornalisti tentano di ridurre i fatti a una banale ‘rissa tra balordi’, nascondendo la matrice politica dell’accaduto. Per legittimare le brutalità poliziesche avvenute dentro al pronto soccorso, sempre il questore Boncoraglio dichiara che gli agenti erano stati costretti a intervenire per impedire “che i giovani portassero via la salma dell’amico”. Fin da subito è stato necessario per i compagni di Dax difendere e riaffermare la verità di
fronte a un’infamante opera di disinformazione: lui un balordo e i suoi
compagni dei pazzi trafugatori di salme. Oltre al danno, la beffa.
Nonostante la presenza di prove evidenti, come filmati amatoriali che
hanno ripreso i pestaggi indiscriminati e le tante
testimonianze rilasciate dal personale medico sanitario, il processo per i fatti del San Paolo si concluderà nel 2009, imputati un carabiniere e due poliziotti accusati di porto d’arma impropria (una mazza da baseball tra le altre cose) e abuso d’ufficio,
piena assoluzione, invece condanne a un anno e otto mesi per due dei
compagni di Dax, accusati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale.
Alla condanna penale si sommerà una multa per un totale di 130.000 euro,
tra spese processuali e risarcimenti, un vero e proprio ergastolo
pecuniario. Nel 2011 comincerà il pignoramento di un quinto dello
stipendio, tutt’ora in corso, ai danni di uno dei condannati e di
conseguenza a carico anche dei suoi figli.
Per quanto riguarda gli assassini di Dax,
nella loro casa, che si trova nella zona della tragedia, «è stato
sequestrato materiale importante», come spiegò la polizia, per risalire
alle loro simpatie di estrema destra, oltre a indumenti sporchi di
sangue gettati nella vasca da bagno. Dei tre aggressori di estrema
destra, armati di pugnale, di cui uno minorenne, attualmente si è persa
ogni traccia. (da AgoraVox)

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