Il 18 settembre scorso una madre detenuta uccide i suoi due
piccolissimi figli, rinchiusi insieme a lei nel femminile di Rebibbia.
Una storia terribile che diventa subito caso mediatico: insulsi
telegiornali e quotidiani urlano allo scandalo, alla radio e televisione
si susseguono esperti e opinionisti pronti a sciacallare su questa
tragedia, per non parlare della ridicola indignazione da social: tutti a
un tratto si accorgono che in carcere si muore.
In questo caso sono addirittura le istituzioni statali a intervenire e
direttrice, vice e capo delle guardie del carcere di Rebibbia vengono
rimossi dal loro incarico.
Peccato che dall’inizio dell’anno, se mentre scriviamo non se ne
uccidono altri, siamo a 98 prigionieri morti nelle patrie galere, più
della metà suicida.
Appare subito evidente l’ipocrisia di chi piange lacrime per
l’inaccettabile morte di due bambini e non ne spreca una goccia per le
altre centinaia.
Chi lo sa? a chi interessa? a nessuno se non a pochi. Ma questa ultima
morte è diversa, perché per la prima volta a morire sono stati 2 piccoli
bimbi; un neonato di 4 mesi e il suo fratellino di neanche 2 anni. Ma
non si capisce bene perché la morte di due bambini dovrebbe aver più
valore della morte di una persona adulta. Inaccettabile l’una,
inaccettabile l’altra.
Dal 2000 ad ora sono morte di carcere 2830 persone: quale che sia la
causa della loro morte, sono sempre,in maniera diretta o indiretta,
assassinii perpetuati da parte dello stato.
I detenuti che muoiono lo fanno senza distinzione di età, genere,
nazionalità e religione e in ogni struttura di detenzione. Perché quelle
strutture,quelle 4 mura, quelle odiose sbarre, quelle istituzioni
altrettanto odiose, quegli addetti ai lavori, non sono la soluzione, ma
parte del problema.
Il carcere è ingiusto, non è riabilitante, è lo specchio di una società
errata, già ormai nel baratro. Le persone che sono detenute sono per la
maggior parte le reiette, le indomabili e dentro sono trattate nel
peggiore dei modi.
Tra loro ci sono alcuni che affrontano il loro stato combattendo, non
abbassando la testa, evadendo, rivoltandosi, tentando il tutto per tutto
pur di sopravvivere. Ma purtroppo c’è anche chi alla repressione non
riesce a reagire e ne viene sopraffatto.
La soluzione per tanti, troppi, è quindi quella di cercare quella libertà tanto agognata anche se eterna.
Così succede che una mamma che al suo avvocato pochi giorni prima
dichiara di essere depressa, che non ce la sta facendo, che quello non è
il suo posto, che non è seguita a dovere, si trova ad affrontare i suoi
mostri da sola e nell’estremo gesto di ridare almeno ai propri figli la
libertà che gli spettava prende la decisione più sconvolgente ma
probabilmente l’unica nella sua testa.
Un solo pensiero sovviene: Lei lì non doveva esserci! Loro lì non dovevano esserci! Nessuno lì deve esserci!
Per concludere diremmo basta con questa ridicola indignazione, lo si
sapeva, lo si prevedeva, lo si poteva evitare! La gente che si indigna
oggi è probabilmente la stessa che ha pianto lacrime di coccodrillo per
Alan, il bambino naufrago riverso in spiaggia, ma che urla al blocco dei
barconi e nella loro follia legalitaria urla al carcere come soluzione
per qualsiasi cosa.
Il carcere non è la risposta a niente. Ingabbiare. Picchiare. Annientare
l’individuo non è mai servito a niente, la società malata è già di per
se la gabbia, distruggere nella testa di ognuno di noi quelle 4 mura e
quelle sbarre è la soluzione!
CordaTesa
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